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lunedì 7 marzo 2016

mvl teatro: la rinascita di Dionysus al Teatro Vascello

Daniele Salvo Dionysus
Maria Cristina Reggio

Se  nel 2016 Dioniso, il dio nato due volte, potesse rinascere per una terza,  avrebbe forse le fattezze de Il Corvo - Brandon Lee, ovvero l'attore morto per un tragico errore mentre  interpretava sul set il personaggio di Eric Draven? Oppure il Joker nemico di Batman, tutto nero e con il volto dipinto di bianco?  Questa sembra essere l'ipotesi avanzata da Daniele Salvo nella sua regia  di Dionysus, lo spettacolo con cui il regista reinterpreta l'ultima opera di Euripide, Le Baccanti, al Teatro Vascello di Roma (fino al 13 marzo), con Manuela Kustermann nei panni di Agave, il personaggio-chiave che sconvolge la seconda parte della tragedia.  Una fantasmagoria video di fuochi divampanti e cupi cosmici cieli turbinosi fa  da sfondo alla riapparizione del nero Corvo-Dioniso nei panni dello stesso Daniele Salvo, avvampando nella magica e semplice perfezione del palco del teatro Vascello, spogliato di attrezzerie per l'occasione e che si mostra in tutta la sua dolcissima slabbrata nudità di mattoni dipinti di nero, dove la texture della vernice, ormai consunta, si porta dietro la storia del glorioso teatro di avanguardia.  Ma non c'è alcuna intenzione di volere fare un teatro di ricerca né di avanguardia nelle note di regia dell'attore-regista Daniele Salvo, animato piuttosto dall'assoluta  certezza di poter "partire da Euripide tornando ad Euripide".
 
Cosa significano allora questa partenza e ritorno programmatici? Di sicuro la volontà di utilizzare il testo così come è stato scritto, senza interventi di riscritture testuali di sorta, attraverso cui mettersi ipoteticamente anche  in competizione con l'autore che, scomparso da più di duemila anni, non potrebbe tuttavia nemmeno mostrare il suo disappunto. Infatti il regista inserisce  anche alcune registrazioni-citazioni recitate da voci acusmatiche, recitate in autentico greco euripideo, che tuttavia, proprio essendo gli orecchi della platea avvezzi a registratori e altoparlanti, non suscitano la commozione e lo sgomento sperati di fronte all'apparizione sonora del  deus ex machina, ma piuttosto il riconoscimento dell'effetto teatrale e la paziente ricerca, magari, di una traduzione con sovra-titoli.   Si potrebbe obiettare che ogni interpretazione teatrale è, a  suo modo, una forma di riscrittura, soprattutto quando il testo è tradotto da una lingua ormai morta da secoli: il tentativo di accostarsi al testo in maniera "filologicamente corretta" è destinato a rivelarsi comunque una forma di travestimento, che piaccia o no, e talvolta perfino risibile, di fronte al quale l'invenzione del semplice modern dress, già sperimentata dagli artisti  del rinascimento,  geniali ri-scrittori per antonomasia, sarebbe senz'altro più efficace e capace di avvicinarsi al pensiero degli spettatori di ogni tempo.
Ma, oggi, mettere in scena una tragedia greca come Le Baccanti può tradursi nel trascinare sul palco un'emotività violenta,  gridata  attraverso una recitazione espressionistica che non lascia mai spazio alla pausa, al  silenzio, all'immobilità e alla fermezza degli eroi  e del coro che li accompagna? Forse si, se si paragona una star del rock al dio dell'ebbrezza alcolica e dell'estasi erotica, attorniandolo di menadi parzialmente vestite con pelli lanose di capre e cornuti copricapi che danzano languide  coregrafie sensualeggianti. Si, se si assimila il tragico all'abusato perturbante come lo definiva Freud,  ovvero a un fenomeno o personaggio che a un primo impatto dovrebbe essere familiare, ma che poi  all'improvviso si rivela spaventoso, terrorizzante: così  il cavaliere oscuro  Joker che porta il male e il caos nella città di Gotham.  Però l'aggettivo perturbante, perfettamente attribuibile al caso della scintillante metafora cinematografica del Cavaliere Oscuro, se viene utilizzato in riferimento  al teatro tragico, sembra portare una forzatura semantica  che, se non è  supportata da una lettura più profonda e attenta,  non  aiuta la regia.  I filmati di metropoli che ricordano Gotham City, proiettati su fondale e monticello  a centro scena, stridono con i personaggi tipizzati che narrano la storia, come i lanosi Tiresia e Penteo che contornano il dionisiaco re delle forze ctonie e certo non aiutano nel faticoso compito di  condurre gli spettatori nelle pieghe di un testo arcaico, antico, di difficile comprensione come Le Baccanti, che celebra, di fronte a una platea occidentale contemporanea,  ormai annoiata dalla religiosità,   gli oscuri misteri religiosi di un dio, figlio del padre degli dei, Zeus e di una donna mortale, Semele, che ricorda tanto un altro Dio, molto più vicino e conosciuto, divino e umano nello stesso tempo.

domenica 8 marzo 2015

Mvl teatro: Siamo tutti in pericolo al Teatro Vascello


M. C. Reggio

Non è facile dire qualcosa che non sia già stato detto su Pasolini, sui suoi incubi e sulla sua morte, avvenuta quarant'anni fa. Ci prova al teatro Vascello  Daniele Salvo, con il suo spettacolo "Siamo tutti in pericolo" immaginando l'ultimo giorno fatidico della vita del poeta, saggista, scrittore e regista, situando quest'ultimo in una stanza vuota che sembra quasi l'enorme cella di una prigione. L'atmosfera del palco è sempre tenuta notturna, come si addice alla vulgata dell'intellettuale vegliante che si dedica alla scrittura quando il resto del mondo dorme. Ma Pasolini era proprio questo intellettuale che di notte sogna bei "machi" nudi pronti a gettare il viso nell'incavo dei suoi calzoni? Forse, o forse anche no. Di notte Pasolini stava poco a casa e piuttosto preferiva uscire per andare in cerca della vita che non avrebbe mai potuto vivere di giorno, e lo faceva davvero, come testimonia nei suoi romanzi "cinematografici" e nei suoi film che sanno fluttuare tra il mito e il documentario.
Raccontava come un antropologo, come un mistico eretico che cercava quel Dio in cui credeva davvero proprio là dove il mondo contemporaneo aveva annientato il divino. Non lo trovava mai, questo suo Dio nascosto, e se ne doleva con il clero, con i gesuiti, con le istituzioni, con la politica democristiana e con la scuola, accusandoli tutti di arrendersi alla commercializzazione della vita quotidiana.  Eppure negli anni '70 erano bazzecole rispetto da oggi, epoca di una chiesa divenuta pop, di una politica demenziale da talk show televisivi globalizzati e di una scuola che, spesso dimentica della poesia di Dante, si è arresa al livellamento intellettuale dilagante delle tre I.  Ma il teatro è sempre generoso, e questo spettacolo, pur nelle sue fiammanti e impudiche ingenuità, e che in realtà si potrebbe meglio definire un monologo, ben costruito a partire dalle parole pasoliniane, ci dona, in apertura, magnificata dagli altoparlanti, e seppur soffocata dal mormorio degli spettatori che entrano in sala, la voce inconfondibile del poeta che aveva tanto da dire su quello che gli succedeva intorno: ed è una voce che ha il tono inconfondibile dell'orazione, quella di Pasolini, l'eretico religioso che conosceva bene il tono grave della preghiera. Si replica fino al 15 marzo al Teatro Vascello.

 
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