martedì 6 agosto 2013

Parola di capitano / 6


Nelle puntate precedenti: il Capitano Giona Missing, eroe involontario dei romanzacci seriali di Teo Marlo, cerca di riappropriarsi del suo destino.





Franca Rovigatti

IL BENEFATTORE

E tuttavia al Capitano ora prudono le mani per la voglia di scrivere. Si mette sotto. Il nono capitolo gli scorre nel corpo, tra le dita. Ora lo sa, dove andare!
Leyla e Giona si accampano nel folto di palme dietro la Fabbrica, che incombe sulla giungla, sui respiri, sensi, sogni, sui pensieri, amen.
La notte c’è una festa al villaggio. Le donne portano coppe di fiori, lucerne e frutti ai piedi di un albero grande come un tempio, gli si mettono intorno a cerchio e lo abbracciano. L’albero trema ramo a ramo, fa cadere una pioggia di frutti neri, che sul terreno si dispongono a forma di cuore. Una donna spiega a Leyla che questo è un buon presagio: che quest’anno le cose per il villaggio andranno bene, niente malattie, poche morti, un buon raccolto... Parlando con Gedè, una sorta di gnomo, Giona viene a sapere che, nel luogo dove ora sorge la Fabbrica, c'era stato, due secoli prima, il tempio di un dio ferocissimo: che pretendeva offerte di ragazzi, carne fresca. Forse per questo la Fabbrica viene considerata una necessità fatale.

(Al Capitano, comunque, la storia che sta scrivendo fa un pessimo effetto. Via via che la vive -la tira giù sulle pagine-, si sente sempre più depresso. Una storia mortale. Un greve senso di fatalità gli fa uscire stente e lente le parole...

Argh! Aiuto! Bisogna uscirne, merda!)

Il decimo capitolo sputa fuori una mattina fresca. Nuvole nere viaggiano veloci, sospinte da un vento infuriato. A mezzogiorno raffica giù una gran pioggia. Il meccanico rumore delle pale di un elicottero invade la radura. Dall'abitacolo scendono due figuri: uno, lungo e sottile, si muove come se avesse il cuore di un anellide; l'altro, goffo e loffio, è Crocque-l'-Enfant. I due entrano da padroni nella Fabbrica. Quando escono, sembrano molto soddisfatti. Salutano benedicenti, mentre l'elicottero si alza.

Durante la visita di Lungo e Palla, il Capitano, finalmente!, concepisce un piano. Saboterà la Fabbrica! Quella notte stessa! Raduna chiavi inglesi, spranghe, seghe, raspe; si munisce di trapani, bulloni, succhielli.
E’ notte, nella giungla. Leyla dorme, nel sonno geme. Il Capitano, annerito il viso, parte per la sua missione. Silenzioso oltrepassa gli steccati. Dormon le guardie, sguscia entro le porte...

...la Fabbrica è basilica di morte
tubi efferati, gigantesche storte.
Giona piazza bulloni nei condotti
spezza, sega raccordi e manicotti
storce le dritte, raddrizza le storte
apre chiusini, scardina le porte
sabota sopra e sotto, a destra e a manca,
furioso, pazzo, eroe che non si stanca.
Non alza gli occhi, ma pure gli pare
che la Fabbrica inizi a maledire...

La mattina dopo da ogni giunto e tubatura esce una poltiglia disgustosa. Invade il pavimento, allaga la radura, minaccia la giungla giavanese.
Giona e Leyla, missione compiuta!, sono già lontani, in viaggio.

Finito! Un gran buon lavoro! Giona è soddisfatto, anche se si sente stanco, svuotato. Adesso, pensò, sarebbe ben ora che Teo si svegliasse. Sbirciò l'orologio appeso alla parete, dove oche meccaniche e galline annuendo segnavano ore che, perciò stesso, sembravano cretine. Già le due e mezza!
Sussurrò nell'orecchio di Teo una filastrocca che gli ritornava alla bocca provenendo da luoghi remoti (Staccia Buratta / Mattino della Gatta / La Gatta va al Mulino / Per Fare un Covaccino / Coll'Olio col Sale / Coll'Unto di Maiale...). Da quale Svizzera immaginata, da quale infanzia di Teo dimenticata?

ZEITMERDE NON CI CAPISCE UN TUBO

Che gli era successo? pensò Teo svegliandosi. Era svenuto, ecco cosa! Troppo stress, povero me! Von Z. è un killer, finisce che mi fa fuori... Ah, ma stavolta, tremolò tra sé, gliele canto chiare! Non può continuare così!
Le due e mezza! Oddio, senza conoscenza per ben due ore: c'è da lasciarci la pelle, garantito!
Strano come si sentisse, invece, fresco e riposato. Strano che gli girasse nelle orecchie quella vecchia filastrocca... Come faceva? "Staccia berretta...". No, no! "Staccia Buratta", ecco! Gliela cantava sua nonna con la voce sommessa di chi si sa stonato. Avrebbe dovuto scrivere, una volta o l'altra, qualcosa su sua nonna, l'unica che l'avesse un poco amato...
Basta! Non doveva perdere altro tempo, sennò era fottuto...
Fottutissimo, altroché! Alle sette doveva stare dal suo aguzzino. Oddio! Con dieci capitoli!

Riprese il manoscritto. Ci posò gli occhi.
E fece (letteralmente, dico: lo fece) un salto.
I dieci capitoli erano tutti lì, cotti a puntino, come aveva ordinato von Z.
Teo non si capacitava. Ma come? Se prima di svenire era arrivato alle prime righe del nono...
Due capitoli in due ore: neanche Superman, neanche Shakespeare! Due capitoli in due ore da svenuto: neanche Dio!
Cominciò a leggere. Signore, e com'erano scritti bene! C'erano i pensieri, il sentimento: roba che a lui, di solito, lo confondeva. C'erano le idee, non solo la trama (quella, lui, la sapeva anche imbastire). Ma le idee! Roba di classe!
Si grattò la testa, sconcertato. Povera forfora cadde sulle pagine. Il Capitano, che nel suo immateriale angolino sorrideva beato, ebbe, a quella corporea nevicata, un accesso di tosse.

Teo lesse tutto. Alla fine se la spiegò così. Che, da svenuto, in trance, lui stesso aveva scritto come un matto per due ore filate. Del resto, vedete, era difficile pensare ad un'altra spiegazione: quella era la sua grafia. E chi mai si sarebbe preso la briga di entrare di soppiatto in cucina (senza effrazioni, tra l'altro, aveva controllato) a scrivergli i capitoli mancanti, per di più imitando la sua scrittura? Ridicolo! Impossibile!
Ma che signor scrittore sonnambulo era! Da non credere... Un autore di classe! Ah, te la faccio vedere io, von Z.! Se posso scrivere così nel sonno, vedrai da sveglio! Vuoi le classifiche, stronzo? Le avrai! Vuoi i premi? Non saprai dove metterli!
Davanti a Teo si spalancavano immense le porte del sollievo. Una vita nuova! Non più lo scribacchino vilipeso, non più la vergogna! Forse, come aveva sognato da ragazzo, forse la gloria. La ricchezza, i diritti, le traduzioni, le riduzioni cinematografiche...
Basta, taci!, si disse. Porta male. Non parlare più. Le cose si disfano, se le pronunci a voce alta. Se è vero, succederà. Se son rose, fioriranno.

Corse in bagno, fece una doccia eterna. Si rasò, spremette le ultime odorose gocce al dopobarba. Trasse dal fondo dei cassetti una camicia stirata, infilò un pantalone grigio non troppo stropicciato. Si spazzolò le scarpe, sputando sulla pelle mocassina.
Quando si guardò allo specchio, si trovò quasi bello. I radi capelli biondastri, pettinati all'indietro, scoprivano una fronte delicata. La pelle era innaturalmente bianca, del colore albino di una pianta che stia da troppo tempo al buio. Intorno agli occhi si illividivano aloni profondi. La bocca sottile, contratta, nascondeva nelle pieghe una straziata debolezza, come una traccia d'infanzia invecchiata senza essere mai potuta crescere. Però, pensò Teo guardandosi da ogni lato, niente male… Una faccia insolita, che nei risvolti di copertina può anche risultare affascinante...
Erano quasi le sei... Accidenti, bisognava muoversi! Prese il manoscritto, lo ficcò in una cartellina azzurra, legò i nastri e scese le scale canterellando l'arietta neutra di “Staccia Buratta”. Uscì dalla porta a vetri del casermone.

Così, il primo contatto col mondo il Capitano (che pur avendo percorso in lungo e in largo tutti i continenti, era la prima volta che metteva il naso fuori) lo ebbe nello stradone principale del Basso, quartiere di periferia se mai ve ne fu uno.
La prima cosa che vide fu l'insegna del macellaio di fronte a casa di Teo Marlo, carica di grappoli di corni scaramantici (trovavasi per sua sventura, la bottega, porta a porta con un’impresa di pompe funebri). Poi vide il sozzo neon del Bar Scirocco, i fiori stenti, garofani e gladioli, del banco tenuto dalla zoppa, la merceria che esponeva smisurate mutande e reggiseni, l'emporio d'angolo con la vetrina tutta occupata da una tenda per doccia a bolli rossi.
Montò con Teo sul vecchio tram che scendeva al centro. Scesero alla fermata della Cupola, quartiere semicentrale: una sequenza di vie perpendicolari all’infinito, guardate a vista dalle case a sei piani. Tutte uguali le facciate scrostate, identici i negozi che vendevano jeans e scarpe da due soldi. Sorto come quartiere semi elegante alla fine dell'Ottocento, ora il quartiere s’era degradato, e brulicava di pensioncine equivoche, di luridi uffici di investigatori privati, assicuratori, editori da strapazzo. Negli appartamenti da cent’anni dormivano, brutte addormentate, vecchie signore sole.
L'edificio in cui avevano sede le Oral Edizioni era identico a tutte le altre case del quartiere. Teo (e Giona) salirono in un ascensore cigolante pervaso dell'odore composito dell'edificio, in cui gli scadenti dopobarba perdevano la loro ultima battaglia contro la persistenza centenaria del cavolo, della cipolla, della polvere.
La porta mezzo vetro cigolò penosamente mentre Teo la scostava per entrare.

Nel vederlo affacciarsi, Woodroow von Zeitmerde sogghignò pregustando la prossima umiliazione del microbo. (Vedete, non si può esserne certi, ma sembra abbastanza plausibile che l’editore avesse scelto proprio quel lavoro e mantenesse il suo modesto standard per avere a portata di zanne scassatissimi autori, sicuri brocchi: da poter mortificare all'infinito. Il prepoter sul misero può anche essere, purtroppo, una vocazione).
"Mi hai portato i dieci capitoli, caro Teo?" ruggì mieloso von Z.
"Certo che glieli ho portati, dottore..." rispose Teo: "Ma dovrà sbrigarsi a leggere: tra un'ora, mi spiace, ho un appuntamento."
(Non era vero, naturalmente. Teo non aveva mai appuntamenti, con nessuno. Ma, per la prima volta in vita sua, adottava la tecnica della sottrazione. Si faceva prezioso.)
"Un'ora?!" ruggì l'editore: "Scherzi, idiota? Dovrei leggermi due capitoli dei tuoi in un'ora?! Rimanderai il tuo appuntamento!".
"Impossibile, mi spiace, dottore... E' importante. Assolutamente escluso che io lo possa spostare. Ma legga, sono già passati tre minuti!"
Von Z. si guardò intorno, quasi a cercare inesistenti testimoni della metamorfosi. Poi, masticando tra i denti la logora desinenza del suo cognome, attaccò a leggere dall’ottavo capitolo.

Macinava pagine, triturava frasi, von Zeitmerde. Le masticava con rabbia e con stupore. Che gli è successo, al coglione? Questa è roba buona.
Andò indietro alle pagine iniziali, sfogliò il primo capitolo, l’inizio del secondo.
"Hai rivisto anche questi?" mormorò depresso.
Non aspettò risposta. Ormai era chiaro, tutto quanto riscritto.
Roba di prima scelta. Un gran bel libro.
Perciò, dunque (a von Z. si accese come un faro nel cervello), per questo lo stronzetto ora si permette di fare il prezioso. Ha perso ogni umiltà, l’idiota, ogni paura. Lui lo sa che le sue quotazioni cresceranno...
"Chi l'ha rivisto? Chi ha scritto gli ultimi capitoli?": chiese con voce spenta.
"Ma che dice, dottore? Non le piace?" rispose ilare Teo.
"Va bene, ok, come vuoi tu... Oggi non me lo vuoi dire che cazzo è successo... E hai l'appuntamento. Imprescindibile. Va bene, Teo. E' bello, il libro: ma questo già lo sai. Molto, molto bello!"
(A Teo l'anima danzava in petto. Quasi quasi era persino grato a von Z., che diceva: 'bello!'...)
Agguantò il manoscritto, se lo ficcò sotto il braccio e prese la porta, sussurrando: "La chiamo io, dottore, non mi cerchi. Ho bisogno di tranquillità."

(6 - continua)

Poeta, artista visiva, organizzatrice culturale, Franca Rovigatti ha fondato nel 1997 il festival RomaPoesia e nello stesso anno ha pubblicato per Sottotraccia il "romanzo di viaggio immaginario" Afàsia.

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