Nelle puntate precedenti: il Capitano Giona Missing, eroe involontario dei romanzacci seriali di Teo Marlo, cerca di riappropriarsi del suo destino.
Franca Rovigatti
IL BENEFATTORE
E tuttavia al Capitano
ora prudono le mani per la voglia di scrivere. Si mette sotto. Il
nono capitolo gli scorre nel corpo, tra le dita. Ora lo sa, dove
andare!
Leyla e Giona si
accampano nel folto di palme dietro la Fabbrica, che incombe sulla
giungla, sui respiri, sensi, sogni, sui pensieri, amen.
La notte c’è una festa
al villaggio. Le donne portano coppe di fiori, lucerne e frutti ai
piedi di un albero grande come un tempio, gli si mettono intorno a
cerchio e lo abbracciano. L’albero trema ramo a ramo, fa cadere una
pioggia di frutti neri, che sul terreno si dispongono a forma di
cuore. Una donna spiega a Leyla che questo è un buon presagio: che
quest’anno le cose per il villaggio andranno bene, niente malattie,
poche morti, un buon raccolto... Parlando con Gedè, una sorta di
gnomo, Giona viene a sapere che, nel luogo dove ora sorge la
Fabbrica, c'era stato, due secoli prima, il tempio di un dio
ferocissimo: che pretendeva offerte di ragazzi, carne fresca. Forse
per questo la Fabbrica viene considerata una necessità fatale.
(Al Capitano, comunque,
la storia che sta scrivendo fa un pessimo effetto. Via via che la
vive -la tira giù sulle pagine-, si sente sempre più depresso. Una
storia mortale. Un greve senso di fatalità gli fa uscire stente e
lente le parole...
Argh! Aiuto! Bisogna
uscirne, merda!)
Il decimo capitolo sputa
fuori una mattina fresca. Nuvole nere viaggiano veloci, sospinte da
un vento infuriato. A mezzogiorno raffica giù una gran pioggia. Il
meccanico rumore delle pale di un elicottero invade la radura.
Dall'abitacolo scendono due figuri: uno, lungo e sottile, si muove
come se avesse il cuore di un anellide; l'altro, goffo e loffio, è
Crocque-l'-Enfant. I due entrano da padroni nella Fabbrica. Quando
escono, sembrano molto soddisfatti. Salutano benedicenti, mentre
l'elicottero si alza.
Durante la visita di
Lungo e Palla, il Capitano, finalmente!, concepisce un piano.
Saboterà la Fabbrica! Quella notte stessa! Raduna chiavi inglesi,
spranghe, seghe, raspe; si munisce di trapani, bulloni, succhielli.
E’ notte, nella
giungla. Leyla dorme, nel sonno geme. Il Capitano, annerito il viso,
parte per la sua missione. Silenzioso oltrepassa gli steccati. Dormon
le guardie, sguscia entro le porte...
...la Fabbrica è
basilica di morte
tubi efferati,
gigantesche storte.
Giona piazza bulloni nei
condotti
spezza, sega raccordi e
manicotti
storce le dritte,
raddrizza le storte
apre chiusini, scardina
le porte
sabota sopra e sotto, a
destra e a manca,
furioso, pazzo, eroe che
non si stanca.
Non alza gli occhi, ma
pure gli pare
che la Fabbrica inizi a
maledire...
La mattina dopo da ogni
giunto e tubatura esce una poltiglia disgustosa. Invade il pavimento,
allaga la radura, minaccia la giungla giavanese.
Giona e Leyla, missione
compiuta!, sono già lontani, in viaggio.
Finito! Un gran buon
lavoro! Giona è soddisfatto, anche se si sente stanco, svuotato.
Adesso, pensò, sarebbe ben ora che Teo si svegliasse. Sbirciò
l'orologio appeso alla parete, dove oche meccaniche e galline
annuendo segnavano ore che, perciò stesso, sembravano cretine. Già
le due e mezza!
Sussurrò nell'orecchio
di Teo una filastrocca che gli ritornava alla bocca provenendo da
luoghi remoti (Staccia Buratta / Mattino della Gatta / La Gatta va al
Mulino / Per Fare un Covaccino / Coll'Olio col Sale / Coll'Unto di
Maiale...). Da quale Svizzera immaginata, da quale infanzia di Teo
dimenticata?
ZEITMERDE NON CI
CAPISCE UN TUBO
Che gli era successo?
pensò Teo svegliandosi. Era svenuto, ecco cosa! Troppo stress,
povero me! Von Z. è un killer, finisce che mi fa fuori... Ah, ma
stavolta, tremolò tra sé, gliele canto chiare! Non può continuare
così!
Le due e mezza! Oddio,
senza conoscenza per ben due ore: c'è da lasciarci la pelle,
garantito!
Strano come si sentisse,
invece, fresco e riposato. Strano che gli girasse nelle orecchie
quella vecchia filastrocca... Come faceva? "Staccia
berretta...". No, no! "Staccia Buratta", ecco! Gliela
cantava sua nonna con la voce sommessa di chi si sa stonato. Avrebbe
dovuto scrivere, una volta o l'altra, qualcosa su sua nonna, l'unica
che l'avesse un poco amato...
Basta! Non doveva perdere
altro tempo, sennò era fottuto...
Fottutissimo, altroché!
Alle sette doveva stare dal suo aguzzino. Oddio! Con dieci capitoli!
Riprese il manoscritto.
Ci posò gli occhi.
E fece (letteralmente,
dico: lo fece) un salto.
I dieci capitoli erano
tutti lì, cotti a puntino, come aveva ordinato von Z.
Teo non si capacitava. Ma
come? Se prima di svenire era arrivato alle prime righe del nono...
Due capitoli in due ore:
neanche Superman, neanche Shakespeare! Due capitoli in due ore da
svenuto: neanche Dio!
Cominciò a leggere.
Signore, e com'erano scritti bene! C'erano i pensieri, il sentimento:
roba che a lui, di solito, lo confondeva. C'erano le idee, non solo
la trama (quella, lui, la sapeva anche imbastire). Ma le idee! Roba
di classe!
Si grattò la testa,
sconcertato. Povera forfora cadde sulle pagine. Il Capitano, che nel
suo immateriale angolino sorrideva beato, ebbe, a quella corporea
nevicata, un accesso di tosse.
Teo lesse tutto. Alla
fine se la spiegò così. Che, da svenuto, in trance, lui stesso
aveva scritto come un matto per due ore filate. Del resto, vedete,
era difficile pensare ad un'altra spiegazione: quella era la sua
grafia. E chi mai si sarebbe preso la briga di entrare di soppiatto
in cucina (senza effrazioni, tra l'altro, aveva controllato) a
scrivergli i capitoli mancanti, per di più imitando la sua
scrittura? Ridicolo! Impossibile!
Ma che signor scrittore
sonnambulo era! Da non credere... Un autore di classe! Ah, te la
faccio vedere io, von Z.! Se posso scrivere così nel sonno, vedrai
da sveglio! Vuoi le classifiche, stronzo? Le avrai! Vuoi i premi? Non
saprai dove metterli!
Davanti a Teo si
spalancavano immense le porte del sollievo. Una vita nuova! Non più
lo scribacchino vilipeso, non più la vergogna! Forse, come aveva
sognato da ragazzo, forse la gloria. La ricchezza, i diritti, le
traduzioni, le riduzioni cinematografiche...
Basta, taci!, si disse.
Porta male. Non parlare più. Le cose si disfano, se le pronunci a
voce alta. Se è vero, succederà. Se son rose, fioriranno.
Corse in bagno, fece una
doccia eterna. Si rasò, spremette le ultime odorose gocce al
dopobarba. Trasse dal fondo dei cassetti una camicia stirata, infilò
un pantalone grigio non troppo stropicciato. Si spazzolò le scarpe,
sputando sulla pelle mocassina.
Quando si guardò allo
specchio, si trovò quasi bello. I radi capelli biondastri, pettinati
all'indietro, scoprivano una fronte delicata. La pelle era
innaturalmente bianca, del colore albino di una pianta che stia da
troppo tempo al buio. Intorno agli occhi si illividivano aloni
profondi. La bocca sottile, contratta, nascondeva nelle pieghe una
straziata debolezza, come una traccia d'infanzia invecchiata senza
essere mai potuta crescere. Però, pensò Teo guardandosi da ogni
lato, niente male… Una faccia insolita, che nei risvolti di
copertina può anche risultare affascinante...
Erano quasi le sei...
Accidenti, bisognava muoversi! Prese il manoscritto, lo ficcò in una
cartellina azzurra, legò i nastri e scese le scale canterellando
l'arietta neutra di “Staccia Buratta”. Uscì dalla porta a vetri
del casermone.
Così, il primo contatto
col mondo il Capitano (che pur avendo percorso in lungo e in largo
tutti i continenti, era la prima volta che metteva il naso fuori) lo
ebbe nello stradone principale del Basso, quartiere di periferia se
mai ve ne fu uno.
La prima cosa che vide fu
l'insegna del macellaio di fronte a casa di Teo Marlo, carica di
grappoli di corni scaramantici (trovavasi per sua sventura, la
bottega, porta a porta con un’impresa di pompe funebri). Poi vide
il sozzo neon del Bar Scirocco, i fiori stenti, garofani e gladioli,
del banco tenuto dalla zoppa, la merceria che esponeva smisurate
mutande e reggiseni, l'emporio d'angolo con la vetrina tutta occupata
da una tenda per doccia a bolli rossi.
Montò con Teo sul
vecchio tram che scendeva al centro. Scesero alla fermata della
Cupola, quartiere semicentrale: una sequenza di vie perpendicolari
all’infinito, guardate a vista dalle case a sei piani. Tutte uguali
le facciate scrostate, identici i negozi che vendevano jeans e scarpe
da due soldi. Sorto come quartiere semi elegante alla fine
dell'Ottocento, ora il quartiere s’era degradato, e brulicava di
pensioncine equivoche, di luridi uffici di investigatori privati,
assicuratori, editori da strapazzo. Negli appartamenti da cent’anni
dormivano, brutte addormentate, vecchie signore sole.
L'edificio in cui avevano
sede le Oral Edizioni era identico a tutte le altre case del
quartiere. Teo (e Giona) salirono in un ascensore cigolante pervaso
dell'odore composito dell'edificio, in cui gli scadenti dopobarba
perdevano la loro ultima battaglia contro la persistenza centenaria
del cavolo, della cipolla, della polvere.
La porta mezzo vetro
cigolò penosamente mentre Teo la scostava per entrare.
Nel vederlo affacciarsi,
Woodroow von Zeitmerde sogghignò pregustando la prossima umiliazione
del microbo. (Vedete, non si può esserne certi, ma sembra abbastanza
plausibile che l’editore avesse scelto proprio quel lavoro e
mantenesse il suo modesto standard per avere a portata di zanne
scassatissimi autori, sicuri brocchi: da poter mortificare
all'infinito. Il prepoter sul misero può anche essere, purtroppo,
una vocazione).
"Mi hai portato i
dieci capitoli, caro Teo?" ruggì mieloso von Z.
"Certo che glieli ho
portati, dottore..." rispose Teo: "Ma dovrà sbrigarsi a
leggere: tra un'ora, mi spiace, ho un appuntamento."
(Non era vero,
naturalmente. Teo non aveva mai appuntamenti, con nessuno. Ma, per la
prima volta in vita sua, adottava la tecnica della sottrazione. Si
faceva prezioso.)
"Un'ora?!"
ruggì l'editore: "Scherzi, idiota? Dovrei leggermi due capitoli
dei tuoi in un'ora?! Rimanderai il tuo appuntamento!".
"Impossibile, mi
spiace, dottore... E' importante. Assolutamente escluso che io lo
possa spostare. Ma legga, sono già passati tre minuti!"
Von Z. si guardò
intorno, quasi a cercare inesistenti testimoni della metamorfosi.
Poi, masticando tra i denti la logora desinenza del suo cognome,
attaccò a leggere dall’ottavo capitolo.
Macinava pagine,
triturava frasi, von Zeitmerde. Le masticava con rabbia e con
stupore. Che gli è successo, al coglione? Questa è roba buona.
Andò indietro alle
pagine iniziali, sfogliò il primo capitolo, l’inizio del secondo.
"Hai rivisto anche
questi?" mormorò depresso.
Non aspettò risposta.
Ormai era chiaro, tutto quanto riscritto.
Roba di prima scelta. Un
gran bel libro.
Perciò, dunque (a von Z.
si accese come un faro nel cervello), per questo lo stronzetto ora si
permette di fare il prezioso. Ha perso ogni umiltà, l’idiota, ogni
paura. Lui lo sa che le sue quotazioni cresceranno...
"Chi l'ha rivisto?
Chi ha scritto gli ultimi capitoli?": chiese con voce spenta.
"Ma che dice,
dottore? Non le piace?" rispose ilare Teo.
"Va bene, ok, come
vuoi tu... Oggi non me lo vuoi dire che cazzo è successo... E hai
l'appuntamento. Imprescindibile. Va bene, Teo. E' bello, il libro: ma
questo già lo sai. Molto, molto bello!"
(A Teo l'anima danzava in
petto. Quasi quasi era persino grato a von Z., che diceva:
'bello!'...)
Agguantò il manoscritto,
se lo ficcò sotto il braccio e prese la porta, sussurrando: "La
chiamo io, dottore, non mi cerchi. Ho bisogno di tranquillità."
(6 - continua)
Poeta, artista visiva, organizzatrice culturale, Franca Rovigatti ha fondato nel 1997 il festival RomaPoesia e nello stesso anno ha pubblicato per Sottotraccia il "romanzo di viaggio immaginario" Afàsia.
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