Maria Teresa Carbone
Cave of Forgotten Dreams, la grotta dei sogni dimenticati, è il titolo del documentario che Werner Herzog ha realizzato nel 2010, calandosi dentro gli stretti cunicoli della grotta Chauvet
nell'Ardèche, in Francia, per riprendere le meravigliose pitture
rupestri risalenti al Paleolitico Superiore, circa 30.000 anni fa, e
scoperte nel 1994 dall'archeologo che ha dato alla caverna il suo nome. A
un certo punto la videocamera di Herzog inquadra una parete su cui sono
dipinte in cerchio molte teste di cavallo, incredibilmente nitide e
espressive. Ma oltre alla straordinaria bellezza del ciclo, a colpire il
regista, e noi che lo seguiamo nel suo viaggio dentro i budelli della
terra e di un passato lontanissimo, è che questi cavalli furono dipinti
in un arco di 5.000 anni. Osserva Herzog: "Oggi noi siamo
prigionieri del tempo".
Commento laconico, che l'accento tedesco e la
voce ruvida del regista rendono più tagliente. Ma come non essere
d'accordo? Quel formidabile spartiacque che fu, e continua a essere,
l'invenzione della scrittura, se da un lato ha fornito alla specie umana
un potente congegno per muoversi attraverso i secoli, dall'altro pone
rigidi limiti al nostro orizzonte mentale.
“Due secoli fa la preistoria non esisteva” scrive l'archeologo britannico Colin Renfrew in apertura del saggio Preistoria. L'alba della mente umana
(Einaudi 2011), notando come solo a partire dalla metà del XIX secolo
si affermi l'idea di una “antichità dell'uomo” non riconducibile a
testimonianze scritte. È paradossalmente una storia breve, quella della
preistoria, il che spiega perché anche oggi non sia facile concepire che
migliaia di generazioni di esseri umani uguali a noi si siano succedute
in un arco temporale ben più lungo di quello illuminato dal cono di
luce della parola scritta.
Eppure nel passato remoto della nostra specie, in quella
che ci appare una buia penombra, molto è accaduto. Lo rivelano gli
stupendi dipinti della grotta Chauvet e lo confermano le nuove ricerche
in base alle quali dobbiamo di continuo rivedere le ipotesi che
temerariamente azzardiamo sulle nostre origini. Lo studio più recente,
pubblicato ai primi di luglio sulla rivista “Frontiers in Language
Sciences” da un gruppo di scienziati dell'Istituto Max Planck per la psicolinguistica, ci porta più indietro rispetto alle pitture dell'Ardèche, al tempo in cui sul territorio europeo si ritrovarono a convivere l'Homo sapiens, di cui noi siamo i pronipoti, e l'Homo neanderthalensis, destinato a estinguersi – due specie diverse ma “cugine”, discendenti entrambe da un comune antenato, l'Homo heidelbergensis.
Fondandosi sulle ultime scoperte paleoantropologiche e
soprattutto su una analisi accurata dell'antico Dna, gli studiosi del
Max Planck, guidati da Dan Dediu e Stephen C. Levinson, sono arrivati
alla conclusione che le origini del linguaggio moderno, solitamente
situate circa cinquantamila anni fa, risalgano a un periodo molto
precedente, circa mezzo milione di anni indietro, quando appunto apparve
l'Homo heidelbergensis. In base a questa teoria, il linguaggio
non sarebbe il frutto di una mutazione improvvisa, ma il risultato
lento e graduale di una lunga serie di trasformazioni biologiche e
culturali. Per Dediu e Levinson, quindi, non solo l'Homo sapiens, ma anche i neandertaliani svilupparono forme di linguaggio,
e i contatti tra le due specie portarono a incroci genetici e culturali
dei quali – e qui sta la vera novità – anche le lingue contemporanee
conserverebbero alcune tracce. In altri termini, i due studiosi
ritengono che almeno in parte l'attuale diversità linguistica che
caratterizza le popolazioni del pianeta sarebbe dovuta a quegli
antichissimi incontri, una idea – aggiungono Dediu e Levinson – che “si
potrà verificare attraverso un confronto delle proprietà strutturali
delle lingue africane e non africane e una serie di minuziose
simulazioni al computer della diffusione linguistica”.
Per sapere se questa ipotesi è fondata o se invece, come sostengono tra gli altri gli autori di una ricerca recente condotta dall'università di Oxford, Homo sapiens e Homo neanderthalensis
non si incrociarono mai, dovremo quindi aspettare nuove verifiche e
controlli. Ma di fronte alla constatazione, questa sì condivisa, che nel
nostro Dna ci sono tracce di geni neandertaliani (dovute agli incroci
diretti tra le due specie per gli uni, all'antenato comune heidelbergensis per gli altri), c'è chi non ha aspettato: aziende come la 23andme
propongono per una cifra relativamente abbordabile (un centinaio di
dollari) una analisi del Dna, promettendo di rivelare la percentuale di
Neanderthal che è in noi. Poco più di un gioco, a dispetto della
“scientificità” del test, ma anche un modo per sentire più vicini i
nostri antichissimi predecessori, per cercare di rintracciare dentro di
noi i loro sogni dimenticati.
Questo articolo è uscito il 13 agosto sul magazine online dell'università di Padova, il Bo, con il titolo Il sogno di pietra.
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