Nelle puntate precedenti: Eroe suo malgrado dei romanzacci seriali di Teo Marlo, il Capitano Giona Missing sfugge alle pagine che lo tengono prigioniero e cerca di riscrivere il suo destino. Ci riuscirà?
Franca Rovigatti
L’IMPAZIENZA DI
GIOBBE
Non seppe mai come,
poiché era ubriaco come una cucuzza e di se stesso non ricordava
nulla. Ma in qualche dannato modo Teo Marlo risalì la città e
atterrò nel suo letto.
Si svegliò nel
pomeriggio, avvolto in lenzuola vomitate, con sulla faccia lo stampo
dell’insultato fegato. Era distrutto. Gli girava e rigirava per la
mente la lampante intuizione d'essere un cretino. Ma come, proprio il
giorno che scopre d’essere un Vero Scrittore, che fa? Si ubriaca,
spreca tempo prezioso vaneggiando, si trascina per la città, vomita
il letto... Un coglione! Un perfetto idiota.
Vai poi a vedere se è
davvero buona la roba che ha scritto... Forse rileggendola gli
sembrerà mediocre: e i sogni di grandezza si riveleranno
nient’altro che illusione... Si guardò intorno, cercando la
cartellina. Il fegatoso spirito critico del dopo-sbornia gli
rabbuiava il cuore. In quel buio si rese conto di aver smarrito il
suo tesoro. Unica copia.
Inutile che vi descriva
lo sgomento. Inutile che enumeri la quantità e specie delle accuse
che Teo si mosse. Poi, graziaddio, decise che era meglio tentare
qualcosa. Scese in strada, prese al volo il primo taxi. L'arcigno
autista lo lasciò ad Animula quando erano, ancora afose, le sei di
pomeriggio.
E il Capitano? Che gli è
successo?
Il Capitano ha passato la
notte in solitudine, appollaiato sulla cartella in bilico sull'orlo
del bancone. Nel chiuso della taverna, puzza di alcol, tanfo di fumo
vecchio. Buoi, vacche, pensava, porci. E guarda quel coglione, pensò.
Quell’idiota cretino: che neanche mi ha trovato e già mi
abbandona...
Ma poiché era abituato
alle situazioni critiche, cessò di compiangersi, trovò scusanti al
comportamento di Marlo, lo assolse. Mi ritroverà, pensò, sono
troppo prezioso per lui! E si mise ad aspettarlo.
Mentre le ore della
notte, e poi dell’alba, trascorrevano sottolineate dai meccanici
rintocchi della pendola dietro il banco, Giona si rassegnò
definitivamente al fatto di essere nato: e cioè di essere insieme un
personaggio da romanzo e un portatore di coscienza. Una posizione
difficile, delicata, in cui non si sapeva se si stava di qua o di là,
cosa era vero e cosa no, qual era il sogno e quale la realtà. Un
equilibrio arduo, in bilico tra due nature… In tale condizione
–privo, tra l’altro, di corpo, voce, senza autonomia di
movimento, senza ombra di esperienza-, in tale condizione diciamo
pure mostruosa, non era facile accettare il destino. Eppure il
Capitano era curioso e la sua anima –ma questo lui ancora non lo
sapeva- era piena di speranza e desiderio.
Suonavano le nove quando
Giona udì dei rumori. Qualcosa, qualcuno scalpicciava, arrancava dal
retro. Giobbe, infatti, il decrepito uomo delle pulizie, stava
entrando dalla porta di servizio per compiere la sua quotidiana
fatica. Che consisteva in sparecchiare, vuotare posacenere,
spolverare ripiani, gettar via cartacce, eccetra. Spazzare e passare
lo straccio, lavare bicchieri e posacenere, sistemarli nelle apposite
rastrelliere, eccetra.
Pur avendo fatto per
quasi sessant'anni (ogni giorno che dio mandava al mondo,
precisamente alle nove) quell'identico lavoro con pazienza infinita,
da qualche tempo Giobbe era irritabile. Per un nonnulla scattava. Gli
tornavano alla mente i torti subiti quando era ragazzo, soprusi di
cui allora neanche s’era accorto. Ora gli bastava il ricordo, e
bestemmiava: come un turco, come un maremmano.
"Dio cana"
biascicò: "guarda che casino, madosca mala, hanno lasciato i
porci! Mira che merda. Tanto c'è la pazienza di Giobbe, coglioni,
che gli risistema tutto a puntino... A prendersela ‘n culo, che
hanno floscio e rotto, dovrebbero anda' tutti quanti..."
Intanto, di mala grazia,
raccattava i bicchieri, agguantava i posacenere, scatarrava per
terra, passava un lurido straccio sui tavoli e sul banco.
Ed ecco, accadde quello
che doveva accadere (aveva un bel rintanarsi in immateriali angolini
il Capitano!).
"E questa merdolina
azzurra che sarebbe? Un quaderno? Ma va! So' fogli! Scritti piccolo
piccolo: cacca di pulce fegatosa. E chìssi crede d'èsse questo
merdaiolo, pe' scrive? Crede d'avecce li pensieri meglio dell'altri,
eh? Ma andate a cacare, lo dico sempre, è la meglio sapienza. Cacca
solida e ben formata, vuoi mettere?"
Sfogliava con mani
artritiche e cattive le paginette rosa, che al contatto
rabbrividivano.
"I Polli non hanno
Venerdì, pensa un po'… Cacato nel cervello sei, merda cacata nella
merda, stronzo! Guarda, madonna lupo, se s'ha da scrive così… Deve
aveccene di tempo ‘l signorino! Nessuna stramaledetta fatica: tanto
c’è Giobbe, tanto c’è il poro Giobbe, merda..."
Fu colto da uno dei suoi
improvvisi accessi di autocommiserazione. Conosceva il rimedio. Tirò
giù dallo scaffale una bottiglia di kummel, se ne versò nel
gargarozzo due sorsate, e scoppiò a ridere.
"Eh, lo so ben io
che t'ho da fare, Pollo! Ti fo torna’ ‘n patria! Ti beatifico!…
Dritto ‘n culo, ti rispedisco! Ecco, fogliettini belli, vi prendo,
vi porto a casa, caco come dio comanda, e co’ voi mi ci ripulisco
per bene... Altroché! Così le parole di merda saranno ricoperte di
cacca, cadranno nello sciacquone, si perderanno nella fogna, se le
mangeranno i topi..."
Il Capitano, fattosi
piccolo piccolo nell'angolo più distante dalla presa di Giobbe, era
atterrito. Che fine indegna… Ah, Teo, Teo, perché mi hai
abbandonato?… Teo!!!
Ecco che faccio! Lo
faccio svenire come Teo, questo stronzo, pensò.
Ora mi faccio sentire,
pensò. E iniziò a strillare:
Giobbe! Giobbe!!
GIOBBE!!! Stronzo! Merdaiolo!! Cacacazzi!!! GIOBBE!!!
Continuò a lungo,
inventò invettive fiorite:
Ti possa cadere l'ano
secco a terra, se lo divorino vermi e tarme! Che la merda risalga su
l'esofago e ti si fermi in gola! Che tu possa soffocare! Un mare di
merda ti sommerga la casa: tu ci nuoti dentro e affoghi! Ti venga lo
scacazzo da mane a sera! La sciolta anche di domenica!
Era giunto quasi al
limite dell'afonia, quando vide che i suoi sforzi cominciavano a
produrre effetti. Il vecchio Giobbe, infatti, aveva cominciato a
sentire strani pruriti e pizzicori qua e là, sicché prese a fare
salti, a zompettare saturnino per la sala, urtando seggiole,
rovesciando tavolini. Accasciatosi ansante su un sofà, preso da
forte tremito, non riuscendo più neanche a fiatare dalla paura, le
parole del Capitano gli invasero il cervello, presero lo stomaco,
assalirono a morsi l'intestino. Giobbe svenne, e gli sfinteri,
rilasciandosi, zupparono di molli escrementi la povera biancheria, i
pantaloni, i convolvoli rossi stampati sulla fodera del divanetto.
Svenne nella sua merda.
La qual cosa sembrò al
Capitano un degno contrappasso.
L'Ariel sembrava un campo
di battaglia quando alle cinque e mezza entrarono gestore, barista e
cameriere. Fu subito tutto un agitarsi e trafficare: tirar su Giobbe
("un malore!" "misericordia, è qui dentro dalle
nove!" "oddio!, capace che ci muore!" “porca
miseria, quanto mi costerà questo scherzetto?!”), sistemare alla
meno peggio, chiamare il medico, areare, lavare piatti e bicchieri,
eccetra. Avvisare l'avvocato, spazzare, deodorare, telefonare
all'ambulanza, spolverare, tirar lo straccio, eccetra.
Alle sei l'Ariel era
tirato a lucido, Giobbe viaggiava a sirene spiegate verso l’ospedale
più vicino, il padrone e i suoi aiutanti tiravano un sospiro di
sollievo mentre alla porta si affacciavano i primi avventori.
Il Capitano, sistemato
dal cameriere insieme al manoscritto sotto il cuscino del divano dei
convolvoli, se ne stava quieto, cercando di respirare il meno
possibile. Per quanto risciacquato, il cuscino ancora esalava il
fetore sfinterico di Giobbe...
A quell’ora Teo si
trovava a vagolare per le viuzze e bettole di Animula continuando a
maledirsi con tutte le sue forze. Entrò al Martin Eden, al
Cartagena, al Roxy, passò al Piviere Stanco e alla Mandragola, scese
nei sotterranei al Moby Dick, salì da Stella.
Chiedeva timido a baristi
e camerieri se la notte prima lui fosse stato lì: se avessero
trovato, chissà, una cartellina... Lo guardavano come fosse un
fantasma, scuotevano la testa: no, no, nessuna cartellina...
Entrò infine all'Ariel,
l'ultima mescita di Animula, la meno probabile, nell'ipotetica mappa
che Teo aveva messo assieme a tentoni. Ormai era disperato. Sicché
non chiese nulla, si appoggiò al banco stordito, infelice.
"Come si sente,
stasera, signore?" gli sussurrò il barman: "Ha avuto
problemi, nel tornare a casa?"
(Oddio, grazie! pensò
Teo. Grazie Signore!)
"Ieri? No, no,
nessun problema, penso... Lei è gentile... Però ho lasciato qui una
cartellina: l'avete trovata?"
"Non credo..."
sputò il barista, cui erano tornati alla mente all'improvviso i
vaneggiamenti di Teo: "Io non l'ho vista. Provi a chiedere a
Korlo, il cameriere"
Korlo si avvicinò. Alla
richiesta di Marlo, ricordò di aver ficcato qualcosa di simile da
qualche parte... Dove, con tutta la confusione che c'era stata, non
sapeva più. Mentre cercava, parcheggiò il livido Teo su un
divanetto laterale con la fodera stampata a convolvoli rossi.
Il Capitano, all'erta, di
là sotto cominciò a sbracciarsi. Gridò:
Qui, Teo! Mi hai sotto
al culo! QUI!!! TEO! SCOSTA IL CUSCINO!
Teo Marlo sentì
qualcosa. Certo, un suono flebile, confuso... Come l’eco
lontanissima di una voce nota.
Guardò sotto il tappeto,
sul tavolino. Niente. Tastò infine sotto il sedere, sotto l'umido
cuscino.
E fece un salto. Un salto
altissimo, volava. Tenendo tra le braccia il suo bambino. Il perduto,
lo smarrito, il prezioso, unica copia. Il romanzo ritrovato.
(8 - continua)
Poeta, artista visiva, organizzatrice culturale, Franca Rovigatti ha fondato nel 1997 il festival RomaPoesia e nello stesso anno ha pubblicato per Sottotraccia il "romanzo di viaggio immaginario" Afàsia.
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