Giulia Caminito
Il vademecum del piccolo scrittore / I
Un anno fa andai da un’amica con qualcosa che scrissi in un
periodo di transizione della mia vita, che a venticinque anni non ha visto un
granché in fondo, ma nel mio esiguo orizzonte quelle pagine avevano espresso
qualcosa. Lei lo ha letto, non l’ha del tutto cestinato, io ci ho lavorato
ancora, asciugandolo come un’aringa al sole e gliel’ho riportato. La sua
opinione a quel punto era che il “romanzo” non era malvagio, si doveva solo
correggere un po’ e che già poteva essere qualcosa da proporre in qualche modo.
Però mi fece una domanda, che cambiò le sorti circa il mio interessamento per
tale scritto: “Tu cosa vorresti dire?” Ovviamente pensavo di avere una sfilza
di cose interessantissime da dire e mi sono messa mentalmente a compilarla.
Alla fine ho stiracchiato tre o quattro frasi, di dubbia costruzione
grammaticale, balbettando e stropicciandomi le mani. Cosa volevo dire? Volevo
raccontare una parte del mio vissuto da venticinquenne studentessa di
filosofia, un po’ ironica, senza troppe pretese, con uno stile colloquiale,
mettere a parte il mondo della vita universitaria appena trascorsa. Era
abbastanza da dire? Forse sì forse no. La mia amica, e mi piace chiamarla così
perché i consigli datemi sono secondo me un segno di amicizia, non ha smontato
il mio castello dalle fragili fondamenta e ha solo detto: “Leggiti un paio di
questi libri”.
E me li ha presi dalla sua immensa libreria, che
praticamente non lascia scampo a un centimetro di muro nell’appartamento. Ho
pensato di condividerli con chi come me ha preso numerose pagine di word e le
ha cestinate, decidendo di non aver detto nulla fino a quel momento. Ripartendo
da zero. Così sono iniziati i mesi delle letture che ora vi riassumo e
propongo. Anche per chi invece non ha intenzione di scrivere nulla nella vita,
ma magari si intrattiene con le vicissitudini di un’esordiente senza speranze
alla ricerca del proprio quid da offrire al mercato globale.
Il mio “catalogo ideale dello scrittore esordiente”, non
solo non è detto che valga per tutti, ma non è neanche detto che valga per me,
visto che finora ho scritto solo venti pagine del nuovo progetto, e di
“esordire” non se ne parla neanche per sbaglio, però se avete un mese libero di
vacanza e questi libri ancora non li avete letti, vi consiglio un giretto in
libreria.
La lista inizia con un’enciclopedia fornitami da un altro
caro amico, che si sta prendendo l’onere di correggere ciò che scrivo, e che
nonostante la differenza d’età io considero una delle persone a me più affini
su questo pianeta. L’enciclopedia in questione è “La nuova enciclopedia” di
Alberto Savinio. La mia è un’edizione Adelphi del 1977 intervallata dai disegni
dell’autore che, come molti di voi sapranno, altri non era che il fratello di
De Chirico, e che in questo testo ha raccolto le proprie ricerche etimologiche
e non solo intorno ad alcuni vocaboli di proprio interesse. Quindi non si
tratta di un’enciclopedia come potremmo aspettarcela, ma della raccolta di un
punto di vista di un letterato sulle parole di uso comune. Lo definirei un prontuario
della curiosità che dimostra quanto si possa scoprire e quanti legami si
possano raccontare partendo da singole parole, che in qualche modo suscitano in
noi la domanda: “E cosa vorrà dire?” Il mio prezioso amico, consiglia di
iniziare dalla parola ‘giostra’ che si trova a pagina 198, perché a suo dire se
piace la descrizione di quella parola, non può non piacere il resto. Mi
raccontò di aver già consigliato tale lettura in passato sempre con questa
clausola della giostra. Io ovviamente sono partita da lì, saltellando poi alla
ricerca delle altre ricostruzioni linguistiche in caso di necessità. Questo
perché, più scrivo, più ho come la nefasta sensazione di avere un vocabolario
estremamente esiguo rispetto a ciò che si dovrebbe richiedere a qualcuno che ha
la pretesa di scrivere. Il linguaggio mi è parso finora, e credo che a lungo
avrà questo ruolo nella mia quotidianità, una sorta di bacinella d’acqua da cui
io cerco di bere con un cucchiaino. Guidata dall’arsura del voler scrivere sto
lì chinata a sorseggiare gocce che un secondo dopo finiscono nel mio corpo
andando perdute. C’è un certo affanno nel dimenticarsi le parole che mano mano
si leggono e io purtroppo ho una memoria ridicola, quindi Savinio rappresenta
per me una sorta di porto sicuro, o una cannuccia, per continuare la metafora
non troppo felice, che possa proteggermi o dissetarmi in caso di mancanza
linguistica. Leggerne alcune definizioni apre uno spazio sulle parole che dona
un certo senso di sollievo. Non dirò le mie parole preferite per non rovinarvi
la sorpresa delle parole contenute, ma diciamo che da quando è in mio possesso
vado a leggere l’indice nella speranza di trovare la parola x che quel giorno
mi tormenta, per poterne sapere di più. Non tutte ci sono è chiaro, ma se si è
fortunati nel trovarle dentro l’Enciclopedia si fanno scoperte che possono di
certo muovere qualche neurone volgendolo alla scrittura, perlomeno con me
funziona.
Dopo questa breve parentesi linguistica passo alla raccolta
delle conferenze di Flannery O’Connor intitolata: “Nel territorio del diavolo”,
edita da Minimum Fax nel 2003, che io ho letto anche in luoghi pubblici o per
strada. Per tal motivo una volta mi venne chiesto se fossi un’amante degli
horror. La risposta è no, anche se il sottotitolo qualcosa di terrificante lo
possiede: “Sul mistero di scrivere”. Da qui potrebbero partire lunghe diatribe
sulla possibilità di insegnare a scrivere, le scuole di scrittura, i manuali di
scrittura, le lauree americane in scrittura creativa che in Italia farebbero
riconsiderare la laurea in filosofia come socialmente utile, ma non è questo il
caso. Sia perché l’autrice chiaramente non ha nessuna intenzione di proporre né
regole né scorciatoie sia perché a mio avviso più che le sue parole alle
conferenze ciò che più dà un senso del cosa significa saper scrivere è il primo
capitolo introduttivo, un breve saggio sui pavoni posseduti dalla O’Connor. Lei
aveva una casa in campagna ed era arrivata a possedere quaranta pavoni,
creature bislacche, imprevedibili, molto vanesie, e anche molto chiassose, ma
da lei amate. Polli e pavoni aprono una mini guida sulla scrittura. E in
qualche modo scoraggiano perché se una donna sa scrivere così di polli e pavoni
rendendoli l’argomento più interessante che mai si possa immaginare, viene da
domandarsi se ognuno di noi sia in grado di fare lo stesso. Io probabilmente
no, ma questo non mi ha del tutto messa al tappeto, anzi, ha aperto una
finestra sulla trattazione successiva, oltre la quale mi sono lanciata.
Flannery, anche lei quindi entrata nella mia cerchia di amici, parla in
particolare dei racconti brevi, il che può essere e non essere utile a qualcuno
che vorrebbe scrivere un “romanzo” più corposo, io comunque ho trovato lì
grandi spunti. Il primo tra questi le pantofole dello scrivano. Flannery
riporta un breve brano tratto da Madame Bovary in cui per l’appunto si descrive
la presenza di pantofole di pezza possedute dal personaggio dello scrivano. Una
sorta di dito puntato sulla concretezza, che è poi la guida spirituale della
scrittrice: scrivere di realtà, e redenzione. Detta così suona banale, ma lo
sguardo, la ricerca, l’accumulo, il ragionamento, l’elaborazione, la conoscenza
di ciò di cui si vuole scrivere sono semplicità che però non tutti considerano
come dovrebbero, io per prima. Scrivere di concretezze dicendo qualcosa di
nuovo non è cosa da tutti, come scrivere di un pavone a raccontare in dieci
pagine la propria vita. L’insegnamento dell’essere attenti, dell’osservare, del
divenire come mosche sul muro del vissuto simile alla funzione del fotografo
trova dentro di me una risonanza importante. Forse Flannery direbbe dei piccoli
scrittori (ecco piccola scrittrice mi piace come definizione, la userò da ora
in poi), che sono prima di tutto occhi che guardano. Questo discorso ha
incontrato il mio favore perché ho una certa difficoltà a scrivere di luoghi in
cui non sono stata o di personaggi totalmente inventati senza prendere spunto
da qualcosa di visto o sentito. Ma credo valga anche per la fantasia che
comunque debba costruire un territorio da ciò che prima nel mondo si è
effettivamente trovato. Non amo i fantasy, ma men che mai amerei i fantasy
senza realtà. Alla lettura di Flannery ho aggiunto un tassello di
consapevolezza: guardati intorno e trova lì qualcosa da dire e, soprattutto,
metti pantofole di pezza a tutti gli scrivani che incontri.
Terza conoscenza amichevole del mese: l’ironia, a volte
indisponente e per questo a me ancora più cara, di Muriel Spark, con
“Atteggiamento sospetto”, un canguro della Feltrinelli datato 1990. Il romanzo,
in questo caso senza virgolette, narra le vicende di una giovane scrittrice
che, alla fine della Seconda Guerra Mondiale, entra all’interno di un circolo,
un’Associazione Autobiografica, in cui ogni membro trascrive la propria vita,
per poi metterla in cassaforte e conservarla finché ogni persona lì nominata,
presumibilmente dopo 70 anni dalla stesura, non sarà passata a miglior vita e
quelle memorie potranno essere pubblicate. Contemporaneamente la protagonista
Fleur sta finendo di ultimare il proprio romanzo d’esordio di cui inizia a
parlare a molti conoscenti. E qui, nella diffusione prematura del suo lavoro,
sta il grande errore. Perché dopo la lettura tutti intorno a lei iniziano ad
avere un atteggiamento sospetto, come quello di chi sosta sotto ai monumenti e
mangia una panino. Il primo fra tutti è il capo dell’Associazione, il quale
sente di essere stato descritto nel romanzo di Fleur e ne inizia a osteggiare
la pubblicazione. Non vi racconto il resto né il finale, per ovvie ragioni, ma
posso anticiparvi la presenza di una vecchietta esilarante che fa pipì ovunque,
un editore pauroso e scorretto, un monolocale sommerso di libri, e numerose
Rose Inglesi. Insomma, le peripezie di un’autrice esordiente alle prese con
plagi, finti amici, editori incompetenti, manoscritti rubati. Il tutto
raccontato da un’ironia, di fondo positiva più che sarcastica, che a fine
lettura predispone a mio avviso alla scrittura, ma senza addolcire troppo la
pillola. La terza lezione che ne ho tratto è: occhio, perché come dice
Flannery, questo è il territorio del diavolo.
Quarta lettura, breve questa volta, e sempre consigliata
dall’amica di cui sopra, che forse io avrei preferito mettere alla fine, ma che
credo possa star bene anche a metà percorso: “L’artista della sparizione” di
Anita Desai, Einaudi 2013. Si tratta di tre racconti, ma è il terzo che ha
fatto sorgere in me una riflessione. Il protagonista vive come un eremita sull’Himalaya,
senza nessun contatto con il resto della popolazione e la sua più grande
vocazione è l’osservazione della natura, ma soprattutto la volontà di sparire
senza doversi confrontare con una realtà esterna, prettamente umana. Una troupe
gira un documentario in zona, e, quando vede alcune delle opere naturali del
protagonista nella foresta, vuole a tutti i costi intervistarlo perché viene da
loro dichiarato un artista. Per Ravi, questo è il suo nome, inizia l’incubo
dell’apparizione. Da quel momento vive nel terrore del dover affrontare questa
nuova condizione che gli è stata imposta e attribuita. La dimensione pubblica
lo atterrisce a tal punto da costringerlo a nascondersi sotto mentite spoglie
pur di non farsi intervistare per il documentario, abbandonando la propria casa
e le proprie opere. Tutto ciò ha fatto squillare un campanello d’allarme e ho
percepito nella mia volontà, ma anche nella volontà di molti altri come me, di
voler vedere pubblicato il proprio testo come una corsa disperata verso l’apparizione
pubblica e il riconoscimento, una sorta di gara alla fiaccola: il primo che la
prende e viene illuminato vince. Noi piccoli scrittori, usiamo un plurale per
sentirci tutti più solidali e amici, viviamo in questo magma dell’anonimato,
passando anche giornate a inviare e-mail a concorsi letterari, case editrici,
riviste online, per poter essere presi in considerazione. Oggi l’autore
esordiente è un rompi coglioni, detta in modo spicciolo. Per forza di cose è
uno stalker dell’editoria, è costretto a esserlo e sa di esserlo, però
persiste, pur di prendere quella fiaccola. Non sarò ipocrita nel dire che io
non vorrei pubblicare qualcosa di mio e vederlo apprezzato e letto, ma questo
monito mi ha riscossa dalla foga della scrittura compulsiva e dell’obbiettivo
immediatamente raggiungibile. Non vorrei mai sparire, non sono così zen e così
al di sopra delle coercizioni sociali per farlo, ma starsene quieti e
attendere, pazientare e, in particolar modo, rifuggire dal credersi un artista,
credo possa essere definita come la lezione numero quattro. Non diventare
qualcuno che importuna il prossimo con ciò che scrive è il mio mantra. Perché
come direbbe la mia amica: anche scrivere troppo è una forma di maleducazione.
Passiamo così agli ultimi due consigli, che sono farina del
mio sacchetto: una raccolta di racconti e un romanzo. La raccolta addirittura
di più autori, quindi una specie di mosca bianca editoriale, visto che quando
osi dire “raccolta di racconti” tutti fuggono a gambe levate al grido di “in
Italia non si vendono queste cose”. Ma in America, e ora grazie a Minimum Fax,
anche un po’ in Italia, la situazione è diversa. Già il titolo appunto la dice
lunga: “Non vogliamo male a nessuno”, come a dire: ragazzi tranquilli i
racconti brevi non fanno male alla salute. Raccolta della rivista McSweeney’s
di Dave Eggers (chi mi conosce sa che è il mio scrittore preferito quindi non
ne farò mistero) quest’anno tradotta anche in italiano, finally. Non c’è
traccia di Dave ma di numerosi altri autori. A cosa può servire comprare questo
libro per qualcuno che vorrebbe essere un autore esordiente? Forse nulla, ma
nel mio caso leggere venti e passa stili di scrittura diversi, venti e passa
temi diversi, e venti a passa storie diverse, senza trovarne neanche una fiacca
è stato un grande esercizio. Sia perché apprezzo il genere, sia perché spesso
la surrealtà dei racconti americani riesce ad aprirmi a fine lettura una gamma
più vasta di possibilità per quanto riguarda gli argomenti da trattare. Non che
io induca alla presa di coscienza che gli USA siano la patria della buona
scrittura, solamente che quella raccolta di racconti a mio avviso è una buona
palestra. E poi come spesso accade, i racconti non hanno assolutamente finale,
come quelli di Carver d’altronde, semplicemente, puff, spariscono, finiscono,
si spengono. Fotografano quella cosa lì che li interessa e poi fine, non si saprà
niente di niente sul prima e sul dopo. Ma in fin dei conti va bene così. Quinto
insegnamento da me appreso: i racconti non sono il demonio e confondersi
leggendo mille scrittori simultaneamente lancia il cervello alla ricerca
dell’ancora salvifica: il proprio stile personale. A un certo punto, dopo aver
letto quaranta autori mi sono posta il problema di capire lì in mezzo, rispetto
a tutti loro, io come diavolo scrivo?
Ultimo, ma non ultimo, soltanto il libro che sto leggendo
ora, e quindi neanche terminato, ma non per questo da non annoverare: “L’eroe
quotidiano” di David Foenkinos, di e/o edizioni. Generalmente, con mio sommo
gaudio, a casa i miei genitori ricevono un pacco da e/o edizioni da cui io,
quando li vado a trovare, trafugo alcuni libri. Nella maggior parte dei casi la
scelta segue banalmente tre variabili: il titolo, la copertina, la minuscola
quarta di copertina che loro fanno, cioè una riga, a mio avviso utile e
d’impatto. In questo caso la copertina ha giocato la parte principale della
faccenda. Se non l’avete mai vista guardatela, io l’ho trovata davvero
attraente. L’eroe quotidiano riassume un po’ tutte le lezioni in un colpo solo.
Si tratta della vita di un uomo qualunque, niente di più e niente di meno. Non
accade niente di eclatante e non c’è una trama di fondo. Però ha uno stile
preciso, intervalla la narrazione delle vicende di vita ordinaria con piccoli
stralci, approfondimenti, su alcuni personaggi, a volte molto noti, menzionati
nei paragrafi. Io ho trovato questi intermezzi ancora più interessanti del resto.
Ma non è per questo che lo menziono quanto per il fatto che il protagonista
senza nome decide di lavorare come custode notturno in un hotel perché crede
che questo lavoro, poco convenzionale, lo renderà uno scrittore. Pensa di fare
esperienze strabilianti e inventare incredibili vicende stando lì la notte, avendo
tutto il tempo per pensare, e anche un discreto numero di persone da osservare.
E invece non accade nulla. Lui non ha nulla di cui scrivere, le trame gli
passano in mente e poi spariscono, si sente frustrato, fallito, imperfetto,
troppo ordinario per fare il grande scrittore. Alla fine, come è facile
dedurre, la sua vita ordinaria diventerà il libro stesso. Scene come quella in
cui lui e la nonna, appena trasferita in una casa di cura contro il proprio
volere, guardano il quadro di una vacca dipinta sul muro del corridoio, e lo
trovano orrendo, ma nel suo essere orrendo anche divertente e folle, e poi
tornano a guardarlo ogni giorno, tanto che la vacca diventa una compagnia,
credo possano avvicinarsi alla questione delle pantofole dello scrivano. Se mai
scriverò una scena come quella della vacca potrò ritenermi soddisfatta in
parte. Per ora non ci sono grandi frutti se non progetti, e non so se queste
elucubrazioni saranno utili a qualcuno o se queste letture vi doneranno rinfresco
estivo dalla torrida calura editoriale, come lo hanno donato a me, ma nel mio proposito
di divenire una piccola scrittrice hanno assunto un ruolo significativo, quindi
ho pensato di condividerle con altri piccoli scrittori e non. Se avrò modo vi
terrò aggiornati sul procedere della missione.
Piccola bibliografia:
La nuova enciclopedia, Alberto Savinio, Adelphi.
Nel territorio del diavolo, Flannery O’Connor, Minimum Fax.
L’artista della sparizione, Anita Desai, Einaudi.
Atteggiamento sospetto, Muriel Spark, Feltrinelli.
Non vogliamo male a nessuno, vari autori, Minimum Fax.
L’eroe quotidiano, David Foenkinos, edizioni e/o .
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