mercoledì 7 agosto 2013

Parola di capitano / 7


Nelle puntate precedenti: Eroe involontario dei romanzacci seriali di Teo Marlo, il Capitano Giona Missing vuole imprimere una svolta al destino che lo affligge, e anche il suo "creatore" ne porta beneficio.

Franca Rovigatti

SMARRIMENTI
Teo Marlo si sentiva un altro uomo. Persino il suo corpo si sentiva un altro corpo. La schiena non si insaccava, la testa stava su, gli arti sceglievano movimenti sicuri, quasi eleganti, nello scendere le scale. E fischiettava! Veri fischi! Dalle labbra gli uscivano suoni, wow!, udibili: la lingua aveva trovato il posto, si appoggiava ai denti senza sforzo...
Lo seguiva e precedeva, gli circolava intorno, aura invisibile e felice, il Capitano. Fischiettava vigorosamente anche lui, e dal secondo piano fino in strada modularono in coro l'aria ripida di “Sur le Pont d'Avignon”.
Erano passate da poco le otto, la strada andava spegnendo le insegne dei negozi, mostrando la desolazione che l'assale ad ogni notte.
"Non qui, Giona..." mormorò tra sé Teo (che spesso quando parlava da solo si rivolgeva al Capitano): "Andiamo altrove a festeggiare la vittoria. Questo è un momento da ricordare per la vita..."

Vengo, Padrone. Ti seguo! Dove vuoi tu, per sempre.

Sussurrò Giona. Intanto Teo percorreva con passo lesto una traversa che, sgusciando tra gli stipiti confinari di altri quartieri, puntava dritto giù all’Animula.

Dalle periferie tutta attorno incentrandosi, Mongo è una città in discesa: come il calco di un'immensa pancia, come l’impronta di un gigantesco seno che si fosse a lungo appoggiato sul terreno in era quaternaria.

Un impudico estensore di guide cittadine aveva definito Animula "l’ombelico di Mongo”. Il quartiere infatti, in posizione centrale rispetto al resto della città, è a pianta perfettamente circolare e ha al centro una voragine. Le stradine medioevali si inanellano rotonde e strette intorno al buco, le cui pareti di alabastro sembrano scivolare giù all'infinito, restringendosi via via. Giù in fondo, giù che neppure lo sguardo ci arriva, sembrò a qualcuno di scorgere lumicini, di sentire fruscii, voci, crepiti.
Teo amava molto quel quartiere. Appena sentiva che per una qualche ragione se l'era meritato, ratto imboccava la discesa che avrebbe potuto fare ad occhi chiusi, dritto si scodellava giù. Suo sogno era d'andarci ad abitare. Ma era un sogno tanto impraticabile che neanche a se stesso Teo lo pronunciava.

Quando arrivò, era quasi buio. Nelle vecchie botteghe si accendevano fari e lanterne, dal fondo delle mescite usciva il suono di pensieri etilici. Pochi passi, ed ecco la voragine. Teo appoggiò le braccia sul bordo della ringhiera, e guardò giù. I pensieri si inanellavano, un grande cavatappi che scendeva sturando ogni malinconia, svaporandola all’aria della sera... Nessun malumore, Teo, stasera: ma un’allegra aspettativa scorre per le misteriosi pareti, arriva giù: dove spiritelli attenti fanno festa con i sentimenti degli uomini...

Solo e lieto, ignorando d'avere di fronte la sua creatura, Teo Marlo desinò al lume delle candele del Roi des Coeurs, Cucina Francese: un piccolo locale le cui pareti di pietra a secco erano vecchie mille anni. Scoprì di avere fame, la saziò con crostini di cacciagione, soupe aux oignons, tacchino ripieno di castagne con purea di mele, formaggio di capra e una dolcissima île flottante. Bevve Borgogna d'annata, e già dopo il terzo bicchiere discuteva animosamente con se stesso su percentuali e anticipi alternando alla propria la voce di von Z. Alla fine l'editore cedette, e Teo si fece promettere una delle più alte percentuali della storia del diritto d'autore...
Uscì in stato di ebbra beatitudine, stringendo al petto la preziosa cartellina (serrato a lui, il Capitano sentiva gli ineguali battiti del cuore). Era quasi mezzanotte, le insegne sfolgoravano nel buio, dalle porte socchiuse uscivano nenie e canti.
"Andiamo, mio carissimo Giona" sussurrò a se stesso Marlo, dandosi nel fianco una gomitatina d'intesa: "andiamo a libare, adesso...".
Prese la prima porta che si trovò sotto mano, ed entrò nella fumosa saletta dell'Ariel: bettola malfamata, nella quale Marlo fino ad allora non aveva mai osato mettere piede. I tavoli e divanetti erano tutti occupati, sicché Teo si diresse ondulando al banco. Trangugiando tre porti, due pernod e un imprecisato numero di grappe, confidò al barista il suo Glorioso Futuro di Scrittore. Poi crollò in un sonno scomodo. Aggrappato al bancone, appollaiato sul sedile, i sogni si sciupavano. Il Capitano, costernato, svolazzava intorno al pericolare di Teo, cercando di prevederne e pararne le cadute...

Dio mio, diavolo, è davvero un coglione!
Povero idiota, non regge l'alcol, e ha bevuto di tutto… Come me lo porto a casa, adesso?

Quando alle ore piccole l'Ariel stava per chiudere i battenti, Teo Marlo si svegliò. Con un soprassalto di dignità annebbiata si ravviò i capelli, pagò il conto e si diresse alla porta mettendo con puntiglio un piede avanti all'altro.
 
Dimenticò sul banco (non vedeva, non sapeva nulla) la cartella. Insieme al manoscritto, chiaro, lasciò anche il Capitano. Mentre le luci si spegnevano, la porta veniva serrata e la saracinesca abbassata, Giona gridava:

TEO! TEOOO!!! Ahimé, mi ha lasciato...

Nulla, nessun malessere, cefalea o prurito, invase il sensorio di Marlo. Troppo il cerebro era colmo di vapori ottundenti e dei residui di mal sognati sogni.

(7 - continua)
Poeta, artista visiva, organizzatrice culturale, Franca Rovigatti ha fondato nel 1997 il festival RomaPoesia e nello stesso anno ha pubblicato per Sottotraccia il "romanzo di viaggio immaginario" Afàsia.

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