Nelle puntate precedenti: Eroe involontario dei romanzacci seriali di Teo Marlo, il Capitano Giona Missing vuole imprimere una svolta al destino che lo affligge, e anche il suo "creatore" ne porta beneficio.
Franca Rovigatti
SMARRIMENTI
Teo Marlo si sentiva un
altro uomo. Persino il suo corpo si sentiva un altro corpo. La
schiena non si insaccava, la testa stava su, gli arti sceglievano
movimenti sicuri, quasi eleganti, nello scendere le scale. E
fischiettava! Veri fischi! Dalle labbra gli uscivano suoni, wow!,
udibili: la lingua aveva trovato il posto, si appoggiava ai denti
senza sforzo...
Lo seguiva e precedeva,
gli circolava intorno, aura invisibile e felice, il Capitano.
Fischiettava vigorosamente anche lui, e dal secondo piano fino in
strada modularono in coro l'aria ripida di “Sur le Pont d'Avignon”.
Erano passate da poco le
otto, la strada andava spegnendo le insegne dei negozi, mostrando la
desolazione che l'assale ad ogni notte.
"Non qui, Giona..."
mormorò tra sé Teo (che spesso quando parlava da solo si rivolgeva
al Capitano): "Andiamo altrove a festeggiare la vittoria. Questo
è un momento da ricordare per la vita..."
Vengo, Padrone. Ti
seguo! Dove vuoi tu, per sempre.
Sussurrò Giona. Intanto
Teo percorreva con passo lesto una traversa che, sgusciando tra gli
stipiti confinari di altri quartieri, puntava dritto giù
all’Animula.
Dalle periferie tutta
attorno incentrandosi, Mongo è una città in discesa: come il calco
di un'immensa pancia, come l’impronta di un gigantesco seno che si
fosse a lungo appoggiato sul terreno in era quaternaria.
Un impudico estensore di
guide cittadine aveva definito Animula "l’ombelico di Mongo”.
Il quartiere infatti, in posizione centrale rispetto al resto della
città, è a pianta perfettamente circolare e ha al centro una
voragine. Le stradine medioevali si inanellano rotonde e strette
intorno al buco, le cui pareti di alabastro sembrano scivolare giù
all'infinito, restringendosi via via. Giù in fondo, giù che neppure
lo sguardo ci arriva, sembrò a qualcuno di scorgere lumicini, di
sentire fruscii, voci, crepiti.
Teo amava molto quel
quartiere. Appena sentiva che per una qualche ragione se l'era
meritato, ratto imboccava la discesa che avrebbe potuto fare ad occhi
chiusi, dritto si scodellava giù. Suo sogno era d'andarci ad
abitare. Ma era un sogno tanto impraticabile che neanche a se stesso
Teo lo pronunciava.
Quando arrivò, era quasi
buio. Nelle vecchie botteghe si accendevano fari e lanterne, dal
fondo delle mescite usciva il suono di pensieri etilici. Pochi passi,
ed ecco la voragine. Teo appoggiò le braccia sul bordo della
ringhiera, e guardò giù. I pensieri si inanellavano, un grande
cavatappi che scendeva sturando ogni malinconia, svaporandola
all’aria della sera... Nessun malumore, Teo, stasera: ma un’allegra
aspettativa scorre per le misteriosi pareti, arriva giù: dove
spiritelli attenti fanno festa con i sentimenti degli uomini...
Solo e lieto, ignorando
d'avere di fronte la sua creatura, Teo Marlo desinò al lume delle
candele del Roi des Coeurs, Cucina Francese: un piccolo locale le cui
pareti di pietra a secco erano vecchie mille anni. Scoprì di avere
fame, la saziò con crostini di cacciagione, soupe aux oignons,
tacchino ripieno di castagne con purea di mele, formaggio di capra e
una dolcissima île flottante. Bevve Borgogna d'annata, e già dopo
il terzo bicchiere discuteva animosamente con se stesso su
percentuali e anticipi alternando alla propria la voce di von Z. Alla
fine l'editore cedette, e Teo si fece promettere una delle più alte
percentuali della storia del diritto d'autore...
Uscì in stato di ebbra
beatitudine, stringendo al petto la preziosa cartellina (serrato a
lui, il Capitano sentiva gli ineguali battiti del cuore). Era quasi
mezzanotte, le insegne sfolgoravano nel buio, dalle porte socchiuse
uscivano nenie e canti.
"Andiamo, mio
carissimo Giona" sussurrò a se stesso Marlo, dandosi nel fianco
una gomitatina d'intesa: "andiamo a libare, adesso...".
Prese la prima porta che
si trovò sotto mano, ed entrò nella fumosa saletta dell'Ariel:
bettola malfamata, nella quale Marlo fino ad allora non aveva mai
osato mettere piede. I tavoli e divanetti erano tutti occupati,
sicché Teo si diresse ondulando al banco. Trangugiando tre porti,
due pernod e un imprecisato numero di grappe, confidò al barista il
suo Glorioso Futuro di Scrittore. Poi crollò in un sonno scomodo.
Aggrappato al bancone, appollaiato sul sedile, i sogni si sciupavano.
Il Capitano, costernato, svolazzava intorno al pericolare di Teo,
cercando di prevederne e pararne le cadute...
Dio mio, diavolo, è
davvero un coglione!
Povero idiota, non
regge l'alcol, e ha bevuto di tutto… Come me lo porto a casa,
adesso?
Quando alle ore piccole
l'Ariel stava per chiudere i battenti, Teo Marlo si svegliò. Con un
soprassalto di dignità annebbiata si ravviò i capelli, pagò il
conto e si diresse alla porta mettendo con puntiglio un piede avanti
all'altro.
Dimenticò sul banco (non
vedeva, non sapeva nulla) la cartella. Insieme al manoscritto,
chiaro, lasciò anche il Capitano. Mentre le luci si spegnevano, la
porta veniva serrata e la saracinesca abbassata, Giona gridava:
TEO! TEOOO!!! Ahimé,
mi ha lasciato...
Nulla, nessun malessere,
cefalea o prurito, invase il sensorio di Marlo. Troppo il cerebro era
colmo di vapori ottundenti e dei residui di mal sognati sogni.
(7 - continua)
Poeta, artista visiva, organizzatrice culturale, Franca Rovigatti ha fondato nel 1997 il festival RomaPoesia e nello stesso anno ha pubblicato per Sottotraccia il "romanzo di viaggio immaginario" Afàsia.
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