Maria Cristina Reggio
Da un po’ di tempo a questa parte, al termine di
funerali sempre più silenziosi - in cui pochi, anzi, pochissimi, pregano -, scrosci
di applausi commossi salutano il defunto, come se la comunità di parenti e
conoscenti radunati occasionalmente in chiesa avesse bisogno, di fronte al
vuoto della morte, di sentirsi unita in un fragoroso abbraccio, piuttosto che
raccogliersi in un più composto silenzio. In questo caso l’applauso, un gesto prelevato
dalla televisione e dallo spettacolo in genere, che viene eseguito in piedi e
non seduti in una comoda poltrona, non significa un apprezzamento conclusivo per
una rappresentazione ben riuscita, ma è un segno che chiaramente istituisce una
cesura sonora con la liturgia funebre e che apre le porte a un omaggio corale,
solo civile: rispettoso verso il defunto e coesivo per la comunità radunata in
chiesa. Un’ovazione di questo genere, con spettatori in piedi per dieci minuti,
ha concluso il 25 giugno al Teatro
Argentina di Roma l’ultimo lavoro di Ricci
Forte, Still Life,
con cui i due autori hanno voluto celebrare il ventennale della rassegna di
teatro omosessuale Garofano Verde, ideata
e curata da Rodolfo Di Giammarco e da tanti anni ospitata nella più piccola, ma
non meno fascinosa cornice del Teatro
Belli a Trastevere. Si è trattato di una celebrazione che, più che a un
compleanno, si ispirava a un funerale e alla morte, un tema, questʼultimo, corteggiato
con attenzione e con gran successo di pubblico dai Ricci-Forte, come in Imitation of Death al Roma Europa
Festival 2012.
I suoi autori hanno definito la loro una
performance non come uno spettacolo tout
court, ma come una "conferenza emotiva", realizzata dai performer
Anna Gualdo, Giuseppe Sartori, Fabio Gomiero, Liliana Laera, Francesco
Scolletta. Questo il tema della conferenza: prendendo spunto dal suicidio di un
giovane quindicenne romano che a novembre si è tolto la vita impiccandosi, perché
additato nella scuola e nella pagina facebook come omosessuale, gli autori denunciano
un atteggiamento omologato e omologante nei confronti dell’omosessualità e
delle "differenze" di pensiero, di genere, di stili di vita. Il
momento e luogo topico dello spettacolo, sottolineato da una colonna sonora
musicale sparata come in una discoteca, è costituito dalla citazione visiva di
un pestaggio eseguito mediante nere pedate che vengono "stampate" con
vera violenza simulata da un gruppetto di aggressori sulla pelle di un
bellissimo quanto glabro giovinetto, insanguinandolo (ma non si era già vista
una scena simile, nel 2003, con tanto di sangue finto versato da una bottiglia
di plastica, nell’Episodio #04 Bruxelles della
Tragedia Endogonidia della Socìetas
Raffello Sanzio?).
La bellezza di questa immagine verosimile di gran
violenza, sonora e visiva, attira verso la rabbia e lʼimpotenza il cuore degli
spettatori improvvisati voyeur. Il resto, infatti, è tutto un andirivieni dei
performer dal palco, anzi, dalla pedana (dal momento che il teatro è negato), verso
gli spettatori, fino a farli salire letteralmente sopra, come veri interpreti
di se stessi: prima i performer distribuiscono, a chi tra loro li vuole, veri
baci sulla bocca, poi molti astanti lasciano le loro poltrone per andare a
scrivere pubblicamente il vero nome del loro amato, o amata. Nessuna frattura
tra teatro e vita, ma uno scorrere continuo dal palco, pardon, dalla pedana politico-televisiva,
alla platea e viceversa, in un gioco di fusione tra il vero e il simulato, il
cui modello, non criticato, ma accolto con rabbioso e determinato sarcasmo, proviene
tutto dai format televisivi: il presentatore o la presentatrice che fanno il
loro sermone, i "veri" partecipanti che si baciano in pubblico con la
lingua, una “bella musica” a volumi strepitosi che intervalla o sottolinea
furbescamente i momenti più commoventi, i soliti spettatori emozionati che "interagiscono"
(sic!) come nel più vero dei talk show, per finire con i nomi - delle vittime
uccise dalla prepotenza omofoba, forse - che scorrono su uno schermo grande
come il sipario tagliafuoco. Il reality è modello, la violenza si fa
spettacolo, lo spettatore trionfante si arma di un applauso di gruppo contro la
morte.
L’ovazione finale, oltre che il sentito plauso di
ogni spettatore verso se stesso come facente parte di una platea unisona,
sembra essere anche un ringraziamento agli autori che gli hanno permesso,
dandogli continuamente del "tu", di partecipare in prima persona,
come un vero performer, alla singolare conferenza della "giusta
rabbia": "È il momento di incazzarti", ammonisce infatti, a un
certo punto, un finto presentatore. Vien
voglia di obiettare che il teatro dovrebbe essere ben altra cosa dalla tv e da
una conferenza o un comizio e che, quando assume i linguaggi della piazza, deve
farlo criticamente, così come accade per esempio in molti spettacoli di Peter
Sellars. Se invece li scimmiotta con compiaciuto nichilismo, corre il rischio di
rinunciare alla sua natura di grimaldello critico nei confronti del reale e
diventa uno strumento di ulteriore omologazione, per platee plaudenti
preconfezionate, facili prede della rabbia in luogo del dubbio e del pensiero.
Di fronte al suicidio di un ragazzino di quindici anni le tv e i politici
urlanti additano i colpevoli, invitano all’odio, mentre in teatro la tragedia più
grande, il dolore più atroce, come ci insegna ancora Walter Benjamin ne Il dramma barocco tedesco, sprofonda
nel più tetro dei silenzi.
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