Teju Cole, Città aperta (Open City)
traduzione di Gioia Guerzoni
Einaudi, pp. 270, euro 17, 50
Fabio Pedone
«Ho esplorato me stesso»: il
frammento di Eraclito che, non denunciato, fa da titolo alla seconda
parte di Città aperta di Teju Cole (Einaudi, traduzione di
Gioia Guerzoni) delinea il rapporto tra io e mondo in questa
esperienza sì ibrida ma tutt’altro che caotica; aperta come la
città da cui prende spunto ma composta, piana, intessuta di
sensazioni sottili e di ricordi, soprassalti, momenti di conoscenza
inaspettata. Questo “romanzo” in realtà è il resoconto calmo,
disponibile a ogni deviazione dettata dalla memoria o dal caso, dei
vagabondaggi newyorkesi del protagonista. Ennesimo attraversamento
spaesato di una città su cui così tanto è stato scritto. Open
city: New York come città aperta alle migrazioni e alla varietà
di contatti ed esperienze interetniche, ma anche la città come libro
da leggere e “museo di tutto” carico di segni che vanno colti
seguendo le vie inaspettate dello sguardo (optic) e
decodificati con l’aiuto dei più vari e vitali riferimenti
culturali, delle opere storiche, dei resti del passato esposti nei
musei (op. cit.). Viviamo un’epoca eminentemente
frammentaria. Relitti e frantumi di un altro tempo si incistano nel
presente, nella forma attuale di una città, mutati in
immagini-ombra. Ma è la città che infine legge l’uomo, lo
squaderna a se stesso; lasciando però punti ciechi e angoli sfocati
in quel testo interiore.
Julius, cresciuto in Nigeria ed
emigrato a New York da adolescente, proprio come l’autore, è un
casuale flâneur. Non colleziona, bensì intercetta i segni
che il passato ha lasciato sparsi per la città malgrado tutte le sue
trasformazioni. Psichiatra nella vita, Julius lavora nella parte
dell’ombra, da dove (come stelle la cui luce arriva ancora a noi
dallo spazio profondo ma che potrebbero essere già scomparse) gli
fanno cenno i milioni di dimenticati, rimossi dal cuore stesso
dell’America: le minoranze, i perseguitati, gli schiavi neri su cui
le banche hanno costruito le loro fortune immani; le ossa di quegli
uomini e donne riaffiorano ancora oggi a migliaia dai terreni
dell’antico Negro Burial Ground su cui si ergono i
grattacieli della finanza. E Julius passeggia, si perde, osserva
immagini e ascolta storie, ricomponendo in sé i sedimenti della
città.
Non c’è nulla di nuovo in una
modalità di percezione che intende New York quale metonimia del
mondo intero, né nella visione della città come coacervo di found
imagery, palinsesto eternamente cancellato e riscritto; ma ciò
che impedisce a questo libro di essere uno slegato collage di
impressioni e ne fa un’opera coerente e intensa è il più fondante
dei ritrovati narrativi: una voce interiore che da sola, nel proprio
flusso, crea la finzione di una coscienza umana, un tono
introspettivo ma mai compiaciuto o imperioso che trasferisce le
tessere di esperienza, le sopravvivenze e le cose nascoste trovate
dall’open eye nello spazio intimo di un open I. Il
quale a sua volta si scopre specchio di una città e dell’aria di
un’epoca. Come l’individuo anonimo sulla cartolina che appenderà
a una parete del proprio nuovo studio, Julius è un testimone e un
osservatore: un common man aduso all’estraneità, al
muoversi al margine del proprio stesso distacco, alieno agli
entusiasmi politici e all’afflato delle grandi cause, ma il cui
scetticismo non gli impedisce di trarre lezioni per il presente
dall’esperienza concreta.
Libro d’ombre, Città
aperta. Perché, proprio quando più crediamo di toccare corpi
saldi, abbiamo sempre a che fare con ombre. Si sa quali siano le più
incombenti a New York. Di fronte alla voragine di Ground Zero,
attraversata incredibilmente da un treno della metropolitana come una
vena ancora pulsante in un cadavere, il protagonista può
interrogarsi sulla fatalità atroce che nella tragedia vuole
l’annullamento delle ombre, la sparizione dei corpi, negati alla
nostra epoca fatta di immagini fantasma. Oppure può chiedersi come
fanno i ruandesi che degustano aperitivi a Bruxelles a simulare
innocenza dopo le violenze a cui, da ragazzi, hanno assistito o anche
partecipato; e ancora medita se non vi sia un dolore planetario e
imperscrutabile dietro la morte delle api o l’invasione delle
cimici. Invano Julius tenta di coltivare una saggezza della
superficie mossa da gangli di immagini, che lo mantenga nel suo
distacco. Tutto questo attraversare e farsi attraversare non ne
riscatta l’interiorità dal confronto con i lutti non elaborati, ed
è questo il centro attorno al quale orbita il libro. Il lutto del
mondo convoca quelllo dell’io. Che anche Julius debba inaugurare
una ricerca dell’origine ne è un segnale chiaro. E tutto diviene
allegoria per chi sappia leggere la faccia in ombra della realtà, il
senso di una perdita irreparabile e il peso che ne deriva. Così per
il narratore i ricordi hanno la stessa concretezza dei palazzi e dei
volti anonimi della folla spettrale che incontra per strada, e il
dolore del mondo che risuona nel proprio lo porta a pensare ai
prigionieri, ai vinti, a chi ha perso tutto. Epperò, come lo stesso
Cole scrive a proposito dell’ultimo Mahler, al centro di questo
dolore sospeso, di questa incertezza, può covare un’inesausta fame
di vita, quella che ci spinge fuori da noi stessi, a scrivere, a
vivere, a testimoniare la nostra presenza e quella degli altri.
Man mano che Città aperta
intreccia le sue piste emergono i toni di una fedeltà
fondamentale a un istinto intimamente americano, quello che ha fatto
scrivere a Whitman «Chi tocca questo libro tocca un uomo». Perciò
questo non è un libro su una città in particolare più di quanto
non lo sia su un individuo, sulla sua ricerca di quanto resta
visibile, nell’ora, di dolori e tragedie strappati a forza dal muro
della memoria. Ci si interroga poi sul senso della fine
proprio perché niente è definitivo. In un finale notturno, una
visione di sapore ominoso svela i piedi d’argilla del mito
americano e fa pensare che come la ricerca di un modo umano di stare
nel mondo, anche quella della verità su se stessi non sarà mai
pacificata.
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