martedì 6 agosto 2013

Louise Brooks, la ragazza con l'elmetto nero/1

G. Luca Chiovelli




Louise Brooks (Cherryvale, Kansas, 14 Novembre 1906 - Rochester, New York, 8 Agosto 1985) è la più importante attrice del cinema muto. Questo è indubitabile, benché la sua fama riposi su una manciata di film e una dozzina di eccellenti scritti sugli anni Venti americani e i suoi protagonisti, più o meno prossimi a quell'età felice e unica. Le star vanno e vengono, le mode trascorrono, gli effetti speciali assordano, ma la Brooks rimane un simbolo di resistenza e anticonformismo che lavora nell'ombra e ricrea continuamente la propria leggenda, ormai inalterabile.

Dove è nata, Miss Brooks?

A Cherryvale, una piccola città del Kansas. Nel 1919 ci trasferimmo nella capitale dello Stato, Wichita.

Può descrivere la sua famiglia?

Mio padre, Leonard Porter, era un onesto avvocato di provincia, così onesto che, secondo una voce maligna, ma non infondata, il suo segretario faceva più soldi di lui. In tutta la vita ebbe due soli amori, la moglie e la giurisprudenza. Discendeva da una famiglia di coloni inglesi che, nel 1871, si spinse dal Tennessee al Kansas a bordo di un carro coperto e fece in tempo a vedere gli ultimi indiani Pawnee e Cherokee venire massacrati dalla cavalleria bianca. Mia madre, Myra Rude, era una donna colta che, dopo aver duramente accudito i fratelli in tenera età, decise di adorare il vitello d’oro della libertà, per tutta la sua esistenza. Quando si sposò rese chiaro a Leonard che eventuali marmocchi avrebbero dovuto cavarsela da soli e non interferire colle proprie occupazioni. Lei aveva altro da fare, suonare il pianoforte (era una bravissima interprete di Debussy), recensire libri, tenere conferenze sul Ring di Wagner. Ebbi tre fratelli, Martin, Theodore e June.

Due bei tipi i suoi genitori.

Con un innato senso della verità e un senso dell’umorismo tutto brooksiano. Una volta mio fratello Martin rivelò di avermi scaraventata per la scala di servizio; mio padre, imperturbabile, suggerì: “La prossima volta, Martin, fallo dalla scala principale sul primo pianerottolo. È più sicuro”. Anche mia madre, che alle nostre malefatte opponeva una risata liquidatoria, sembrava impermeabile al quotidiano: quando confessai che avevo rotto una tazza del suo prezioso servizio Haviland si limitò a dire senza togliere le dita dai tasti del pianoforte: “Non annoiarmi, cara, mentre sto cercando di apprendere Bach”.
Un distacco emozionale che, già a pochi anni, rese autonomo il mio spirito e gli trasmise quel peculiare amore per una brutale sincerità responsabile, in seguito, dei miei guai a Hollywood; e nella vita in generale.



Entrambi, però, le fecero amare la lettura e la danza.

Mio padre, che era anche un discreto suonatore di violino, aveva una biblioteca enorme che fece sprofondare di parecchi centimetri le fondamenta di casa. Oltre ai libri sul diritto, c’erano tutti i vittoriani, Dickens, Thackeray, Carlyle, Tennyson e i migliori americani, Emerson, Hawthorne e Twain. Lessi tutto con gioia anche se capivo la metà di quel che c’era scritto. La magia della parola mi aveva preso a cinque anni quando ascoltai rapita Alice nel paese delle meraviglie, recitata ad alta voce da mia madre. E fu proprio lei ad avviarmi alla danza, prima a Cherryvale, con lezioni private, poi a Wichita, presso la scuola della signora Alice Campbell.

E fu responsabile anche del famoso taglio dei capelli, se non sbaglio.

La mutilazione delle mie trecce, come la chiamò mio padre, avvenne prima dell’adolescenza. Mi aggiustarono i capelli alla maschietta (the bob), una pettinatura abbastanza comune allora.

Miss Campbell la cacciò dalla sua classe …

Disse che ero viziata, stizzosa e offensiva. Era vero; era colpa di quell’atteggiamento di cui parlavo prima, dettato dal mio congenito amore per la schiettezza che in privato si elogia come virtù e, in pubblico, come maleducazione. Perché fingere? Non ho mai sopportato le bugie che ti rendono amabile e gradevole in società. A mia discolpa posso aggiungere che ho sempre rivolto quegli strali acuminati anche verso me stessa. Posso dire d’esser stata il mio più severo giudice.

Infatti non volle rivedersi nei suoi film per decenni, giudicandosi pessima. Nel novembre 1921 avvenne il primo incontro fatale, con il ballerino Ted Shawn.

Lui e Ruth St. Denis avevano fondato la compagnia Denishawn, una delle prime in America a presentare la danza moderna. La tournée a Wichita fu un successo straordinario. Quelle coreografie perfette e la grande varietà delle musiche, da Erik Satie e Scarlatti, inebriarono i nostri sensi provinciali. Mi decisi: dovevo assolutamente seguire la compagnia a New York. Le resistenze dei miei vennero presto abbattute. A quindici anni partii per la capitale d’America assieme ad Alice Mills, una trentaseienne anche lei innamorata di Shawn, che mi fece da guida e protettrice.


A quindici anni
Su questo episodio si è scritto un recente libro, The chaperone. C’è anche un prossimo film in cantiere.

Davvero? Sono proprio a corto d’idee allora!

Nei Denishawn Dancers assieme a lei c’era anche Martha Graham, la futura regina della danza moderna americana.

Sì, fu la mia maestra. Lei era già una professionista affermata, aveva dodici anni più di me. Una ballerina rivoluzionaria, meravigliosa, un genio, come Picasso lo fu nella pittura. Ho imparato a recitare osservandola mentre danzava.

Lei non può saperlo, ma nelle memorie della Graham, Blood memory, del 1991, Louise Brooks è direttamente ricordata ed elogiata.

Davvero? Si ricorda il passo?

Le cito l’inizio: “Louise Brooks era di una bellezza mozzafiato. Portava i capelli alla maschietta. Tutto quello che faceva era bello. Ero assolutamente assorbita dalla sua bellezza e da tutto ciò che faceva … prima ancora che me la presentassero, la notai, sedicenne, fra le altre ragazze della compagnia. Erano vestite tutte uguali … ma lei era unica. Possedeva una potenza interiore che la faceva spiccare su tutte le altre, una forza che avvertivi subito in sua presenza … ed anche un carattere solitario e autodistruttivo …”.

Mi ha sistemato proprio bene direi! Ma anche Martha aveva un pessimo carattere, facile a esplosioni di rabbia incontrollate. Una volta ero accanto a lei, ci stavamo preparando per uno spettacolo, le boccette del trucco allineate davanti a noi. Martha infilava fiori nei capelli. Non so cosa stesse pensando in quel momento, ma ebbe uno dei suoi attacchi di furia irlandese. Col volto improvvisamente deformato dall’ira, afferrò una bottiglietta di crema e la scagliò con violenza contro lo specchio, che andò in mille pezzi. Fu un attimo, poi il suo volto affilato si ricompose nella tranquillità, e lei continuò con calma innata a sistemare quei fiori …

E lei cosa fece?

Niente. Presi i miei trucchi e, in silenzio, mi trasferii presso uno specchio ancora integro.

Era così calma quando Ruth St. Denis la cacciò dai Denishawn Dancers?

Non faccia lo spiritoso. Ero con la mia amica Barbara Bennett, arrivai tardi a una riunione del gruppo. Cercammo di sgattaiolare verso gli ultimi posti, ma Barbara inciampò nel buio e si sedette rumorosamente con la sua tipica risata gracidante. Miss St. Denis, che non tollerava alcuna interruzione, anche garbata, disse: “Sei tu Louise?”. Con un filo di voce risposi: “Sì, Miss Ruth”. Non volava una mosca. “Bene” proseguì gelida, mentre artigliava una lunga collana di giada “andiamo subito al sodo. Non voglio allontanarti dai tuoi più pressanti impegni. Ti allontano dalla compagnia. Tu vuoi la vita servita su un piatto d’argento [a silver salver] e questo non va. Non è il caso che resti con noi”. Fu un verdetto terribile e l’umiliazione più nera della mia vita. Oltretutto non sapevo nemmeno neanche cosa diavolo fosse un ‘salver’.

Mancanza di disciplina. Ruth St. Denis in realtà la stimava parecchio. Pochi decenni dopo disse: “Louise Brooks era una delle più brave allieve che abbia mai avuto. Se avesse continuato con me sarebbe diventata una grande ballerina”.  Chi era Barbara Bennett?

Vorrei prima rivendicare con orgoglio che a diciassette anni mi cacciarono anche da due alberghi, l’Algonquin e il Martha Washington. La prima volta, dall’Algonquin, a causa di un vestitino rosa, molto corto. Credevano avessi quattrordici anni e sospettavano chissà quale ignobile commercio; la seconda, presso il Martha Washington, perché alcune signore del palazzo di fronte mi avevano vista fare ginnastica con un pigiama trasparente …

Torniamo a Barbara …

Semplicemente la pecora nera dei Bennett, una famiglia di attori. Il papà, Richard, fece persino in tempo a recitare in due film di Orson Welles, L’orgoglio degli Amberson e Terrore sul Mar Nero. La mamma, Adrienne Morrison, figlia di attori anch’essa, fu modella per Vogue. Le bellissime sorelle, Constance e Joan, bionde e occhiazzurrine, ebbero una grande carriera a Hollywood; lavorarono per Fritz Lang, Cukor, McLeod, Zoltan Korda. Solo Barbara fallì. Fallì anche quattro suicidi. Al quinto abbrancò quel premio che aveva inseguito tutta la vita. A diciassette anni era già una adorabile perdente, per questo la amavo come una sorella. Ci conoscemmo al Mariarden, una specie di campo estivo, metà scuola metà teatro, in cui operava anche Ted Shawn. Il padre l’aveva mandata lì per raddrizzarne le vaghe aspirazioni artistiche. Appena mi vide Barbara capì che ero una provincialotta senza speranza e cercò di sgrezzarmi a modo suo …

Lingua, vestiti?

Per la lingua aveva già provveduto un barista che studiava alla Columbia University. Mi dava ripetizioni gratis mentre serviva il banana split. Non watter - ripeteva - come hotter, ma water, come daughter; non mulk, ma milk; non hep, ma help, maledetta zoticona del Middle West, help, help! Vestiti, sicuramente. Quando mi presentai a casa Bennett, la piccola Joan mi compatì: “Dove hai preso quel vestito da vecchia?”. Barbara mi accompagnò pure al Saveli, un famoso parrucchiere alla moda; lì perfezionai la frangetta appena sopra alle sopracciglia e il canonico caschetto. E poi sigarette, liquori, ragazzi e una pressoché inesauribile collezione di limerick osceni. Ne vuole sentire uno?

Perché no, siamo gente di mondo.

Era il mio preferito:

"In fairy town
In fairy town
They don’t go up
They all go down.
Even the chief of police is queer
Oops my dear
Listen here
The elevator’s there they say
They don’t go up
Just the other way
Holy Bejesus
There’s lots of paresis
In fairy town (1)

A quei tempi non mi arrivava molto ossigeno al cervello; possiamo affermare che ero abbastanza avventata, un eufemismo che mette a tacere riferimenti diretti alla mia stupidità. Barbara mi presentò pure ad un gruppo di facoltosi signori di Wall Street. Quei brillanti scapoli di trent’anni erano terrorizzati dalle ragazze che celavano madri cacciatrici di dote, così reclutavano carne fresca dal sottobosco teatrale di New York, disponibile e poco ricattatorio. Fu allora che potei permettermi abiti costosi e gioielli. I soldi giravano, era un dolce vivere.

Nel frattempo, dopo la cacciata Denishawn, lei, sempre grazie alla Bennett, era entrata negli Scandals di George White, a Broadway.

Era il 1924. Facevo parte del corpo di ballo delle George White Girls, assieme a Dorothy Sebastian, fidanzata di Buster Keaton, Alice White e Dolores Costello. Gli Scandals, ovviamente, non erano i Denishawn. Introdussero a New York la black bottom dance, da New Orleans, e si avvalevano di collaboratori notevoli come George Gershwin. La gavetta era dura, le rivalità parecchie.

Quindi passò in Inghilterra, al Café de Paris.

Era il ritrovo di gente come Tallulah Bankhead e Noël Coward. Resistetti poco pure lì. Ritornai a New York e trovai lavoro presso le Follies di Florenz Ziegfeld.

Ricordiamo che Ziegfeld era il più prestigioso organizzatore del vaudeville americano, una forma di teatro in cui si incrociavano la rivista, l’operetta, il café chantant. Parecchia Hollywood del tempo passò di lì.

Le Follies era il trampolino di lancio per la carriera cinematografica o, se andava male, per qualche matrimonio favoloso. Barbara Stanwyck, Lupe Velez, Mae West, Irene Dunne recitarono nelle Follies. E anche cantanti sublimi come Ruth Etting ed Ethel Shutta; o ballerine come Anastasia Reilly, bellissima, e Ruby Keeler e Ann Pennington, che aveva danzato con George White. Poiché nessuna delle ragazze voleva dividere il camerino con me, Ziegfeld mi destinò a quello di Dorothy Knapp, la superstar dello spettacolo e attrice fallita a tempo perso. La creatura più amabile era, però, Peggy Fears, un tesoro di ragazza dalla voce dolce e squillante, di una modestia rara, sempre vestita come una scolaretta, con gonne e maglioni. In quell’anno io e Peggy ballammo insieme ad una quattordicenne, Paulette Goddard, futura moglie di Charlie Chaplin.

Con Chaplin ebbe una veloce avventura …

Era l'estate del 1925, Chaplin era a New York per la presentazione de La febbre dell'oro. Quando non era fuori per i suoi impegni mondani e di lavoro, ci riunivamo nella suite di A. C. Blumenthal all'hotel Ambassador. Lì Charlie era sé stesso, perfettamente folle e felice; faceva imitazioni tutto il tempo. Aveva appena sbeffeggiato Isadora Duncan, quando disse "Guarda Louise, indovina chi sto imitando". Si allontanò da me, dimenando il sedere, oh, in un modo così disgustosamente sciocco. Naturalmente capii. Si girò e guardò la mia faccia; era bianca e torva. Avevo solo diciotto anni. Si precipitò e disse: "Oh, non è come credi, non stavo imitando te!". Naturalmente era così, e mi ci vollero anni per liberarmi da quella ridicola camminata che avevo coltivato così accuratamente alle Follies. Pensavo che fosse straordinaria fino a quando Chaplin non la rifece in quella camera d’albergo.

Ricorda altre personalità alle Follies?

A caso: Susan Fleming, “the girl with the million dollar legs”, che avrebbe invece sposato Harpo Marx, Billie Burke, la Strega Buona del Mago di OZ. Mio Dio! Stavo dimenticando Helen Morgan, la mia cantante preferita. Deve sapere che a quel tempo nell’ambiente del teatro circolavano veri gangster. Uomini come Capone. Erano gli zotici più idioti e disgustosi. Ma, incredibilmente, possedevano un istinto molto fine nel riconoscere il talento. Il talento di Helen Morgan, per esempio. Nessuno la voleva. Aveva una voce piccola e delicata, lunghissime gambe e un ampio petto che allora non era di moda; non era molto vivace, sedeva al piano e non voleva usare un microfono. I gangster la amavano. La fecero esibire in un night club chiamato The Backstage, e improvvisamente Ziegfeld, diciamo così, fu indotto a scoprirla. Alle Follies conobbi anche W.C. Fields, un grande comico. Povero Bill! Anche lui, come tutti, fu completamente mistificato.

W. C. Fields
In che senso?

Nel 1778 Samuel Johnson disse: “Aforismi taglienti e risposte acute vagano liberamente nel mondo, e vengono successivamente attribuiti ai personaggi di moda in un dato momento”. Quando arrivai a New York appresi decine di aneddoti, battute e scherzi che riguardavano le stelle, del cinema o del teatro. Negli anni successivi, nelle varie biografie che lessi, ritrovai quegli stessi aneddoti attribuiti arbitrariamente a questa o quella celebrità. Di solito i lettori ammiravano, con instancabile stupidità, due variazioni sul tema: l’attrice-donna-di-mondo scandalosa e l’attore-alcolizzato le cui crudeltà sono considerate divertenti. Fields ricadeva ovviamente nel secondo caso. In realtà egli fu anzitutto un uomo solitario. Da giovane si era proteso verso la bellezza e l’amore, ma ne era stato respinto. Gli anni della gavetta, passati viaggiando come prestigiatore, gli avevano insegnato il valore della solitudine. Aborriva i bar, i night-club, le feste e le case altrui, ma ebbe sempre il terrore di essere lasciato a morire fra la spazzatura di Hollywood, come un vecchio arnese. Se continuare ad essere acclamato significava sacrificare la propria vera intimità al luogo comune dell’ubriacone cinico, bene, lui era disposto a pagare. Il bere gli serviva solo a respingere la realtà in una lontana visione di ombre innocue. Non sembra che abbia lasciato lettere, diari o altro materiale autobiografico. La maggior parte della sua vita resterà sconosciuta. E, come ha detto Ruskin, la vita di un uomo non è mai uno scherzo.

Con Fields reciterà in It’s the old Army game, nel 1927, ma lei aveva già debuttato nel cinema proprio nell’anno delle Follies, nel 1925.

Avevo avuto una particina minuscola in The street of forgotten men, di Herbert Brenon. L’anno successivo ottenni una parte di bellezza al bagno in The American Venus, in cui recitava Miss America, la bella Esther Ralston. All’uscita del film siglai un contratto di cinque anni con la Paramount. Neanche ventenne ero già entrata nel tritacarne.

[continua]

[1] Canzoncina a doppio taglio. Può intendersi così: “Nella città fatata/nella città fatata/non salgono/scendono tutti./Anche il capo della polizia è bizzarro/Su caro, ascolta qua/Dicono che c’è l’ascensore./Ma non salgono/Anzi, al contrario/ Santo Dio/Quanta paralisi c’è/ nella città fatata”, ma significa colà: “Nella città dei finocchi/a nessuno gli si alza/ce l’hanno tutti giù/Anche il capo della polizia è una checca./Su caro, ascolta qua/Dicono che c’è l’ascensore/Ma non salgono, anzi, al contrario lo prendono./Santo Dio/È pieno di sifilitici/nella città dei finocchi”.

Consigli di lettura

Louise Brooks, silent film star (sito in italiano). Con una bibliografia italiana e internazionale molto ampia.

Louise Brooks Society; Louise Brooks Society blog (siti in inglese curati da Thomas Gladysz).

Barry Paris, Louise Brooks, Knopf, 1989; University of Minnesota Press, 2000. Pubblicato in francese nel 1993 per i tipi della PUF. Biografia (e testo fondamentale sull’attrice), non ancora tradotta in italiano. L'editoria del bel paese ha priorità tutte sue.

Louise Brooks, Lulu a Hollywood, Ubulibri, 1984, 2003, Raccolta di sei scritti di Louise Brooks: Dal Kansas a New York, Sul set con Billy Wellman, La nipote di Marion Davies, Humphrey e Bogey, L’altra faccia di W. C. Fields, Lillian Gish e Greta Garbo, Pabst e Lulu.

Martha Graham, Memoria di sangue, Garzanti, 1992.

Laura Moriarty, The chaperone, Penguin Books, 2012.

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