G. Luca Chiovelli
Louise Brooks (Cherryvale, Kansas, 14 Novembre 1906 - Rochester, New York, 8 Agosto 1985) è la più importante attrice del cinema muto. Questo è indubitabile, benché la sua fama riposi su una manciata di film e una dozzina di eccellenti scritti sugli anni Venti americani e i suoi protagonisti, più o meno prossimi a quell'età felice e unica. Le star vanno e vengono, le mode trascorrono, gli effetti speciali assordano, ma la Brooks rimane un simbolo di resistenza e anticonformismo che lavora nell'ombra e ricrea continuamente la propria leggenda, ormai inalterabile.
Dove
è nata, Miss Brooks?
A Cherryvale, una piccola città del Kansas. Nel 1919 ci
trasferimmo nella capitale dello Stato, Wichita.
Può
descrivere la sua famiglia?
Mio padre, Leonard
Porter, era un onesto avvocato di provincia, così onesto che, secondo una voce
maligna, ma non infondata, il suo segretario faceva più soldi di lui. In tutta
la vita ebbe due soli amori, la moglie e la giurisprudenza. Discendeva da una
famiglia di coloni inglesi che, nel 1871, si spinse dal Tennessee al Kansas a
bordo di un carro coperto e fece in tempo a vedere gli ultimi indiani Pawnee e
Cherokee venire massacrati dalla cavalleria bianca. Mia madre, Myra Rude, era
una donna colta che, dopo aver duramente accudito i fratelli in tenera età,
decise di adorare il vitello d’oro della libertà, per tutta la sua esistenza.
Quando si sposò rese chiaro a Leonard che eventuali marmocchi avrebbero dovuto
cavarsela da soli e non interferire colle proprie occupazioni. Lei aveva altro
da fare, suonare il pianoforte (era una bravissima interprete di Debussy),
recensire libri, tenere conferenze sul Ring di Wagner. Ebbi tre fratelli,
Martin, Theodore e June.
Due
bei tipi i suoi genitori.
Con
un innato senso della verità e un senso dell’umorismo tutto brooksiano. Una
volta mio fratello Martin rivelò di avermi scaraventata per la scala di
servizio; mio padre, imperturbabile, suggerì: “La prossima volta, Martin, fallo dalla scala principale sul primo
pianerottolo. È più sicuro”. Anche mia madre, che alle nostre malefatte
opponeva una risata liquidatoria, sembrava impermeabile al quotidiano: quando
confessai che avevo rotto una tazza del suo prezioso servizio Haviland si
limitò a dire senza togliere le dita dai tasti del pianoforte: “Non annoiarmi,
cara, mentre sto cercando di apprendere Bach”.
Un distacco emozionale che, già a pochi anni, rese autonomo il mio spirito e gli trasmise quel peculiare amore per una brutale sincerità responsabile, in seguito, dei miei guai a
Hollywood; e nella vita in generale.
Entrambi,
però, le fecero amare la lettura e la danza.
Mio padre, che era anche un
discreto suonatore di violino, aveva una biblioteca enorme che fece sprofondare
di parecchi centimetri le fondamenta di casa. Oltre ai libri sul diritto,
c’erano tutti i vittoriani, Dickens, Thackeray, Carlyle, Tennyson e i migliori
americani, Emerson, Hawthorne e Twain. Lessi tutto con gioia anche se capivo la
metà di quel che c’era scritto. La magia della parola mi aveva preso a cinque
anni quando ascoltai rapita Alice nel
paese delle meraviglie, recitata ad alta voce da mia madre. E fu proprio lei
ad avviarmi alla danza, prima a Cherryvale, con lezioni private, poi a Wichita,
presso la scuola della signora Alice Campbell.
E
fu responsabile anche del famoso taglio dei capelli, se non sbaglio.
La mutilazione delle mie
trecce, come la chiamò mio padre, avvenne prima dell’adolescenza. Mi aggiustarono
i capelli alla maschietta (the bob),
una pettinatura abbastanza comune allora.
Miss
Campbell la cacciò dalla sua classe …
Disse che ero viziata,
stizzosa e offensiva. Era vero; era colpa di quell’atteggiamento di cui parlavo
prima, dettato dal mio congenito amore per la schiettezza che in privato si
elogia come virtù e, in pubblico, come maleducazione. Perché fingere? Non ho
mai sopportato le bugie che ti rendono amabile e gradevole in società. A mia
discolpa posso aggiungere che ho sempre rivolto quegli strali acuminati anche verso
me stessa. Posso dire d’esser stata il mio più severo giudice.
Infatti
non volle rivedersi nei suoi film per decenni, giudicandosi pessima. Nel
novembre 1921 avvenne il primo incontro fatale, con il ballerino Ted Shawn.
Lui e Ruth St. Denis
avevano fondato la compagnia Denishawn, una delle prime in America a presentare
la danza moderna. La tournée a Wichita fu un successo straordinario. Quelle
coreografie perfette e la grande varietà delle musiche, da Erik Satie e
Scarlatti, inebriarono i nostri sensi provinciali. Mi decisi: dovevo
assolutamente seguire la compagnia a New York. Le resistenze dei miei vennero
presto abbattute. A quindici anni partii per la capitale d’America assieme ad
Alice Mills, una trentaseienne anche lei innamorata di Shawn, che mi fece da guida
e protettrice.
A quindici anni |
Su
questo episodio si è scritto un recente libro, The chaperone. C’è anche un prossimo film in cantiere.
Davvero? Sono proprio a
corto d’idee allora!
Nei
Denishawn Dancers assieme a lei c’era anche Martha Graham, la futura regina
della danza moderna americana.
Sì, fu la mia maestra. Lei
era già una professionista affermata, aveva dodici anni più di me. Una
ballerina rivoluzionaria, meravigliosa, un genio, come Picasso lo fu nella
pittura. Ho imparato a recitare osservandola mentre danzava.
Lei
non può saperlo, ma nelle memorie della Graham, Blood
memory, del 1991, Louise Brooks è
direttamente ricordata ed elogiata.
Davvero? Si ricorda il passo?
Le cito l’inizio: “Louise Brooks era di una
bellezza mozzafiato. Portava i capelli alla maschietta. Tutto quello che faceva
era bello. Ero assolutamente assorbita dalla sua bellezza e da tutto ciò che
faceva … prima ancora che me la presentassero, la notai, sedicenne, fra le altre
ragazze della compagnia. Erano vestite tutte uguali … ma lei era unica. Possedeva
una potenza interiore che la faceva spiccare su tutte le altre, una forza che
avvertivi subito in sua presenza … ed anche un carattere solitario e
autodistruttivo …”.
Mi ha sistemato proprio bene
direi! Ma anche Martha aveva un pessimo carattere, facile a esplosioni di
rabbia incontrollate. Una volta ero accanto a lei, ci stavamo preparando per
uno spettacolo, le boccette del trucco allineate davanti a noi. Martha infilava
fiori nei capelli. Non so cosa stesse pensando in quel momento, ma ebbe uno dei
suoi attacchi di furia irlandese. Col volto improvvisamente deformato dall’ira,
afferrò una bottiglietta di crema e la scagliò con violenza contro lo specchio,
che andò in mille pezzi. Fu un attimo, poi il suo volto affilato si ricompose
nella tranquillità, e lei continuò con calma innata a sistemare quei fiori …
E
lei cosa fece?
Niente. Presi i miei trucchi
e, in silenzio, mi trasferii presso uno specchio ancora integro.
Era
così calma quando Ruth St. Denis la cacciò dai Denishawn Dancers?
Non faccia lo spiritoso. Ero
con la mia amica Barbara Bennett, arrivai tardi a una riunione del gruppo.
Cercammo di sgattaiolare verso gli ultimi posti, ma Barbara inciampò nel buio e
si sedette rumorosamente con la sua tipica risata gracidante. Miss St. Denis,
che non tollerava alcuna interruzione, anche garbata, disse: “Sei tu Louise?”.
Con un filo di voce risposi: “Sì, Miss Ruth”. Non volava una mosca. “Bene”
proseguì gelida, mentre artigliava una lunga collana di giada “andiamo subito
al sodo. Non voglio allontanarti dai tuoi più pressanti impegni. Ti allontano
dalla compagnia. Tu vuoi la vita servita su un piatto d’argento [a silver
salver] e questo non va. Non è il caso che resti con noi”. Fu un verdetto
terribile e l’umiliazione più nera della mia vita. Oltretutto non sapevo nemmeno
neanche cosa diavolo fosse un ‘salver’.
Mancanza
di disciplina. Ruth St. Denis in realtà la stimava parecchio. Pochi decenni
dopo disse: “Louise Brooks era una delle più brave allieve
che abbia mai avuto. Se avesse continuato con me sarebbe diventata una grande
ballerina”. Chi era Barbara Bennett?
Vorrei prima rivendicare con
orgoglio che a diciassette anni mi cacciarono anche da due alberghi,
l’Algonquin e il Martha Washington. La prima volta, dall’Algonquin, a causa di
un vestitino rosa, molto corto. Credevano avessi quattrordici anni e
sospettavano chissà quale ignobile commercio; la seconda, presso il Martha
Washington, perché alcune signore del palazzo di fronte mi avevano vista fare
ginnastica con un pigiama trasparente …
Torniamo
a Barbara …
Semplicemente la pecora
nera dei Bennett, una famiglia di attori. Il papà, Richard, fece persino in
tempo a recitare in due film di Orson Welles, L’orgoglio degli Amberson e Terrore
sul Mar Nero. La mamma, Adrienne Morrison, figlia di attori anch’essa, fu
modella per Vogue. Le bellissime sorelle, Constance e Joan, bionde e
occhiazzurrine, ebbero una grande carriera a Hollywood; lavorarono per Fritz
Lang, Cukor, McLeod, Zoltan Korda. Solo Barbara fallì. Fallì anche quattro
suicidi. Al quinto abbrancò quel premio che aveva inseguito tutta la vita. A
diciassette anni era già una adorabile perdente, per questo la amavo come una
sorella. Ci conoscemmo al Mariarden, una specie di campo estivo, metà scuola
metà teatro, in cui operava anche Ted Shawn. Il padre l’aveva mandata lì per
raddrizzarne le vaghe aspirazioni artistiche. Appena mi vide Barbara capì che
ero una provincialotta senza speranza e cercò di sgrezzarmi a modo suo …
Lingua,
vestiti?
Per la lingua aveva già
provveduto un barista che studiava alla Columbia University. Mi dava
ripetizioni gratis mentre serviva il banana split. Non watter - ripeteva - come hotter, ma water, come daughter; non mulk, ma milk; non hep, ma help,
maledetta zoticona del Middle West, help, help! Vestiti, sicuramente. Quando mi
presentai a casa Bennett, la piccola Joan mi compatì: “Dove hai preso quel vestito da vecchia?”. Barbara mi accompagnò pure
al Saveli, un famoso parrucchiere alla moda; lì perfezionai la frangetta appena
sopra alle sopracciglia e il canonico caschetto. E poi sigarette, liquori,
ragazzi e una pressoché inesauribile collezione di limerick osceni. Ne vuole
sentire uno?
Perché
no, siamo gente di mondo.
Era il mio preferito:
"In fairy town
In fairy town
They don’t go up
They all go down.
Even the chief of police is queer
Oops my dear
Listen here
The elevator’s there they say
They don’t go up
Just the other way
Holy Bejesus
There’s lots of paresis
In fairy town (1)
A quei
tempi non mi arrivava molto ossigeno al cervello; possiamo affermare che ero
abbastanza avventata, un eufemismo che mette a tacere riferimenti diretti alla
mia stupidità. Barbara mi presentò pure ad un gruppo di facoltosi signori di
Wall Street. Quei brillanti scapoli di trent’anni erano terrorizzati dalle
ragazze che celavano madri cacciatrici di dote, così reclutavano carne fresca dal
sottobosco teatrale di New York, disponibile e poco ricattatorio. Fu allora che
potei permettermi abiti costosi e gioielli. I soldi giravano, era un dolce
vivere.
Nel
frattempo, dopo la cacciata Denishawn, lei, sempre grazie alla Bennett, era
entrata negli Scandals di George White, a Broadway.
Era il 1924. Facevo parte
del corpo di ballo delle George White Girls, assieme a Dorothy Sebastian,
fidanzata di Buster Keaton, Alice White e Dolores Costello. Gli Scandals,
ovviamente, non erano i Denishawn. Introdussero a New York la black bottom dance,
da New Orleans, e si avvalevano di collaboratori notevoli come George Gershwin.
La gavetta era dura, le rivalità parecchie.
Quindi
passò in Inghilterra, al Café de Paris.
Era il ritrovo di gente come
Tallulah Bankhead e Noël Coward. Resistetti poco pure lì. Ritornai a New York e
trovai lavoro presso le Follies di Florenz Ziegfeld.
Ricordiamo
che Ziegfeld era il più prestigioso organizzatore del vaudeville americano, una
forma di teatro in cui si incrociavano la rivista, l’operetta, il café
chantant. Parecchia Hollywood del tempo passò di lì.
Le Follies era il
trampolino di lancio per la carriera cinematografica o, se andava male, per
qualche matrimonio favoloso. Barbara Stanwyck, Lupe Velez, Mae West, Irene
Dunne recitarono nelle Follies. E anche cantanti sublimi come Ruth Etting ed
Ethel Shutta; o ballerine come Anastasia Reilly, bellissima, e Ruby Keeler e
Ann Pennington, che aveva danzato con George White. Poiché nessuna delle
ragazze voleva dividere il camerino con me, Ziegfeld mi destinò a quello di
Dorothy Knapp, la superstar dello spettacolo e attrice fallita a tempo perso.
La creatura più amabile era, però, Peggy Fears, un tesoro di ragazza dalla voce
dolce e squillante, di una modestia rara, sempre vestita come una scolaretta,
con gonne e maglioni. In quell’anno io e Peggy ballammo insieme ad una
quattordicenne, Paulette Goddard, futura moglie di Charlie Chaplin.
Con
Chaplin ebbe una veloce avventura …
Era l'estate del 1925,
Chaplin era a New York per la presentazione de La febbre dell'oro. Quando non era fuori per i suoi impegni mondani
e di lavoro, ci riunivamo nella suite di A. C. Blumenthal all'hotel Ambassador.
Lì Charlie era sé stesso, perfettamente folle e felice; faceva imitazioni tutto
il tempo. Aveva appena sbeffeggiato Isadora Duncan, quando disse "Guarda Louise, indovina chi sto imitando".
Si allontanò da me, dimenando il sedere, oh, in un modo così disgustosamente
sciocco. Naturalmente capii. Si girò e guardò la mia faccia; era bianca e
torva. Avevo solo diciotto anni. Si precipitò e disse: "Oh, non è come credi, non stavo imitando te!".
Naturalmente era così, e mi ci vollero anni per liberarmi da quella ridicola
camminata che avevo coltivato così accuratamente alle Follies. Pensavo che
fosse straordinaria fino a quando Chaplin non la rifece in quella camera
d’albergo.
Ricorda
altre personalità alle Follies?
A caso: Susan Fleming, “the
girl with the million dollar legs”, che avrebbe invece sposato Harpo Marx,
Billie Burke, la Strega Buona del Mago di OZ. Mio Dio! Stavo dimenticando Helen
Morgan, la mia cantante preferita. Deve sapere che a quel tempo nell’ambiente
del teatro circolavano veri gangster. Uomini come Capone. Erano gli zotici più
idioti e disgustosi. Ma, incredibilmente, possedevano un istinto molto fine nel
riconoscere il talento. Il talento di Helen Morgan, per esempio. Nessuno la
voleva. Aveva una voce piccola e delicata, lunghissime gambe e un ampio petto
che allora non era di moda; non era molto vivace, sedeva al piano e non voleva
usare un microfono. I gangster la amavano. La fecero esibire in un night club
chiamato The Backstage, e improvvisamente Ziegfeld, diciamo così, fu indotto a
scoprirla. Alle Follies conobbi anche W.C. Fields, un grande comico. Povero
Bill! Anche lui, come tutti, fu completamente mistificato.
W. C. Fields |
In
che senso?
Nel 1778 Samuel Johnson
disse: “Aforismi taglienti e risposte acute vagano liberamente nel mondo, e
vengono successivamente attribuiti ai personaggi di moda in un dato momento”.
Quando arrivai a New York appresi decine di aneddoti, battute e scherzi che
riguardavano le stelle, del cinema o del teatro. Negli anni successivi, nelle
varie biografie che lessi, ritrovai quegli stessi aneddoti attribuiti
arbitrariamente a questa o quella celebrità. Di solito i lettori ammiravano,
con instancabile stupidità, due variazioni sul tema: l’attrice-donna-di-mondo
scandalosa e l’attore-alcolizzato le cui crudeltà sono considerate divertenti.
Fields ricadeva ovviamente nel secondo caso. In realtà egli fu anzitutto un
uomo solitario. Da giovane si era proteso verso la bellezza e l’amore, ma ne
era stato respinto. Gli anni della gavetta, passati viaggiando come
prestigiatore, gli avevano insegnato il valore della solitudine. Aborriva i
bar, i night-club, le feste e le case altrui, ma ebbe sempre il terrore di
essere lasciato a morire fra la spazzatura di Hollywood, come un vecchio arnese.
Se continuare ad essere acclamato significava sacrificare la propria vera
intimità al luogo comune dell’ubriacone cinico, bene, lui era disposto a pagare.
Il bere gli serviva solo a respingere la realtà in una lontana visione di ombre
innocue. Non sembra che abbia lasciato lettere, diari o altro materiale
autobiografico. La maggior parte della sua vita resterà sconosciuta. E, come ha
detto Ruskin, la vita di un uomo non è mai uno scherzo.
Con
Fields reciterà in It’s the old Army game, nel 1927, ma lei aveva già debuttato nel cinema proprio nell’anno
delle Follies, nel 1925.
Avevo avuto una particina
minuscola in The street of forgotten men,
di Herbert Brenon. L’anno successivo ottenni una parte di bellezza al bagno in The American Venus, in cui recitava Miss
America, la bella Esther Ralston. All’uscita del film siglai un contratto di
cinque anni con la Paramount. Neanche ventenne ero già entrata nel
tritacarne.
[continua]
[1] Canzoncina a doppio taglio. Può
intendersi così: “Nella città
fatata/nella città fatata/non salgono/scendono tutti./Anche il capo della
polizia è bizzarro/Su caro, ascolta qua/Dicono che c’è l’ascensore./Ma non
salgono/Anzi, al contrario/ Santo Dio/Quanta paralisi c’è/ nella città fatata”,
ma significa colà: “Nella città dei finocchi/a nessuno gli si alza/ce l’hanno tutti
giù/Anche il capo della polizia è una checca./Su caro, ascolta qua/Dicono che
c’è l’ascensore/Ma non salgono, anzi, al contrario lo prendono./Santo Dio/È
pieno di sifilitici/nella città dei finocchi”.
Consigli di lettura
Louise Brooks, silent film star (sito in italiano). Con una bibliografia italiana e internazionale molto
ampia.
Louise Brooks Society; Louise Brooks Society blog (siti in inglese
curati da Thomas Gladysz).
Barry Paris, Louise Brooks, Knopf, 1989; University of
Minnesota Press, 2000. Pubblicato in francese nel 1993 per i tipi
della PUF. Biografia (e testo fondamentale sull’attrice), non ancora tradotta in italiano. L'editoria del bel paese ha priorità tutte sue.
Louise Brooks, Lulu a Hollywood, Ubulibri,
1984, 2003, Raccolta di sei scritti di Louise Brooks: Dal Kansas a New York, Sul
set con Billy Wellman, La nipote di Marion Davies, Humphrey e Bogey,
L’altra faccia di W. C. Fields, Lillian Gish e Greta Garbo, Pabst e Lulu.
Martha Graham, Memoria di sangue, Garzanti, 1992.
Laura Moriarty, The chaperone, Penguin Books, 2012.
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