Brunella Antomarini
Ogni
volta che ci succede qualcosa che confonde le distinzioni abituali
che ci servono a vivere, dopo ci sentiamo diversi. Questo effetto lo
chiamiamo rituale, o arte. Anche se né l'arte né il rituale ce
l'hanno come scopo, perché il loro scopo è quello o religioso, o
etico, o estetico.
La
Compagnia della Fortezza invece ce l'ha come scopo principale. Vuole
ottenere quell'effetto. Si preoccupa che chi entra, esca (dalle
distinzioni), proprio come fa chi sta già dentro e vuole uscire
(anche se non dalle distinzioni, ma proprio dal carcere). Il carcere
è infatti la più grande distinzione, artificiale come tutte le
distinzioni e necessaria come tutte le distinzioni, perciò violenta
e presuntuosa.
Le
sbarre dicono che alcuni individui devono essere separati e quindi
definiti (de-finire in latino vuol dire delineare confini) come
separati. Sono quelli che non capiscono le distinzioni sociali o ne
hanno altre incompatibili con quelle sociali normali. Ma se la
Compagnia dell Fortezza venisse qui descritta con Foucault, non
daremmo il giusto valore ai suoi componenti. Se cioè introducessimo
qui il solito discorso sulla violenza della normalità, sarebbe come
dire che in fondo siamo tutti detenuti, siamo tutti criminali,
eccetera - retorica falsa perché usa contro-distinzioni che sono
invecchiate anche quelle.
Nel
Medioevo i luoghi di pena erano chiamati segrete, cioè si puniva in
luoghi nascosti, per indicare forse la vergogna collettiva di una
colpa. Il carcere istituito nelle società occidentali moderne invece
ci tiene a esibire la punizione - la colpa non è di tutti quelli che
non riescono a tenere l'ordine, ma solo di chi non lo capisce:
l'esibizione scagiona la società e trasforma il detenuto in una
pseudo-specie - è quindi teatro. E' narcisismo del guardarsi al di
qua della scena-patibolo, il piacere di un dolore che non ci tocca
(da Aristotele a Réné Girard, eccetera).
L'idea,
ai cittadini moderni, gli dev'essere venuta dal successo pedagogico
delle sacre rappresentazioni medioevali, che davanti al sagrato
richiamavano le persone più disparate, soprattutto quelle
illetterate, e le univano nella commozione e nella fede.
Quando
Lorenzo de' Medici fece costruire la Fortezza di Volterra, deve aver
dato per scontata questa struttura mentale e sociale di mostrare a
tutti il luogo della distinzione. Chi era cittadino stava fuori della
fortezza. Chi entrava (soprattutto i suoi nemici) ne veniva
segregato, messo in segreto, nascosto alla città e esibito dentro il
luogo altro, dove c'è la pena, il risarcimento, la tortura, la
giustizia da rifare sempre. Il teatro della giustizia è così, un
ossimoro: ti mostra come le cose dovrebbero essere e le nasconde come
sono. (Si vede il portone del carcere all'improvviso, subito dopo
una curva, al centro del paese). Quindi il carcere è sempre anche un
teatro. Ma allora possiamo dire che il teatro è sempre un carcere?
Carcer indicava le sbarre del circo: il gioco è un uscire per fare
una sorpresa, per meravigliare e poi rientrare; il gioco delle
distinzioni e delle distruzioni delle distinzioni - il bambino che
costruisce il giocattolo e poi lo distrugge e lo rifa.
Il
teatro del carcere nasce insomma con la città e più complessa la
città più complesse le punizioni e distinte le colpe. Ma anche se
nasce dalla città stessa, la naturalizzazione del carcere non ci può
portare all'indifferenza confusa (la retorica degli anni Settanta):
la violenza è un fatto e chi la subisce vuole che la città lo
protegga da chi la fa. Da qui la giustizia esibita con la pena e la
scena adibita, e da qui l'ingiustizia della giustizia (con Foucault),
che approfitta per trasformare una necessità di fatto in un valore
simbolico. E qui che comincia il lavoro teatrale sulla distinzione:
dove finisce il fatto
del crimine e dove comincia il valore simbolico,
che serve alla coesione sociale e usa capri espiatori? La distinzione
non è arbitraria, eppure il confine è sfumato, come tutti i
confini, che sono artificiali.
E
infatti il regista e direttore della Compagnia della Fortezza,
Armando Punzo, ha scelto quest'anno per festeggiare i 25 anni
dell'attività della Compagnia, tutta formata da detenuti-attori -
quest'anno 50 - testi di Jean Genet, interpretandoli e rileggendo lo
scrittore gay che passò molto tempo della sua vita in carcere, in
chiave queer: ogni detenuto-attore incarna un essere
maschile-femminile: la distinzione dentro la distinzione; e scoppiano
tutte e lasciano il posto a un'indistinzione complessa: il vero
attore può essere solo un detenuto, se il teatro serve a esibire il
segregato, se il maschio è anche una femmina e viceversa. Il luogo
dev'essere quello che storicamente, in un unico gesto, protegge dalla
violenza e ne trae piacere, custodisce un ordine e tortura.
Si entra,
dunque. Dopo esser passati dalle sbarre, si legge il nome di ogni
spazio, ognuno dedicato a uno scrittore: Spazio Leopardi, Spazio
Artaud, Spazio Kafka..., si passa sotto un tunnel di marinai (per
ricordare Querelle), che come discoboli antichi fanno con le braccia
un ponte di accoglienza e di passaggio altrove, con sfondo musicale e
sonorità campestri. Si entra accalcandosi per uno spazio di pochi
metri sovrastato da due personaggi-corpi che con potente fisicità
invitano a procedere o a destra o a sinistra, dove si allineano una
dietro l'altra in uno stretto corridoio piccole stanze o celle. A
tutte le pareti sono appesi specchi, tanti specchi e tendaggi. Siamo
attaccati uno all'altro cercando di avanzare e specchiandoci, mentre
i personaggi di questa scena che non fa distinzione con il pubblico,
ci vengono incontro recitando testi di Genet, a memoria. Ogni tanto
si specchiano. La corporeità però non è ideologica, ha una qualità
reale (dovuta alla sapienza del regista che non fa nessuna
concessione meta-teatrale; dovuta alla potenza dei corpi rinchiusi
che ora qui si possono dire, mostrare, da dentro a fuori, ci buttano
addosso un'interiorità che si fa conoscere senza sforzo. Le voci
sono forti, apprese dall'istinto e non disturbate da lezioni di
dizione, con accenti locali di molte parti d'Italia o con lingue
straniere, cinese, arabo o lingue africane, incomprensibili e che
trasmettono con il loro ritmo, il loro tono, più che con ogni
comunicazione linguistica. Gli abiti (Emanuela Dall'Aglio), come le
musiche (Andrea Salvadori) e gli arredamenti (Alessandro Marzetti,
Silvia Bertoni, Armando Punzo), sono barocchi, romantici, esagerati,
sublimi; le scene sono tante e simultanee, l'adattamento
drammaturgico (Alice Tocacieli e la collaborazione di Lidia Riviello
e Giacomo Trinci) perfetto. Accanto a una bara con una sposa in
bianco, su un trono dorato e sovrastante si avvicendano personaggi e
lingue diverse. In un'altra stanza tre personaggi cinesi recitano e
cantano nella loro lingua, ma non suona straniera. C'è una qualità
sensoriale (visiva, acustica e soprattutto tattile) nel movimento che
si stabilisce tra attori e pubblico, data dall'avvicinamento di
corpi, dal disagio dei corpi, che però accolgono il gioco perché è
fatto in un modo che assomiglia a un rito di purificazione.
In
una stanza più ampia il regista-attore, Armando Punzo (formato alla
scuola di Grotowsky) recita versi con una voce che tra Jacopone e
Majakovsky fa da direttore d'orchestra, unifica tutti gli accenti, dà
il là e qualità corale in un ambiente fortemente individualizzato.
Si è presi in un vortice, si suda e si fatica ad ascoltare, si
capisce e a volte non si capisce ma così è il vero teatro, quello
che non c'è più nei teatri.
E'
l'ultimo teatro possibile - l'unico teatro che avrebbe senso come
teatro stabile - perché non istituzionalizzabile: di un carcere non
ci si può appropriare mediaticamente più di tanto, per sua
struttura 'segreta' e per la qualità corporea, tattile della
presenza che richiede. Funzionale solo a se stesso, può stabilmente
sostenere l'instabilità sociale che lo determina, può lasciare che
i suoi attori insieme al suo pubblico si auto-presentino, si
presentino a se stessi, si guardino e portino fuori quello che accade
'tra sé e sé', senza problemi di ruolo, o questioni di riproduzione
indefinita delle sue performances.
E'
come se il teatro moribondo - per i costi, per i compromessi con le
istituzioni, per la professionalità offesa dalla ripetizione di
chiqués artistici, inclusi quelli delle neo-avanguardie - avesse
trovato rifugio qui, dove rinasce, per vocazione del luogo e della
sua naturalezza - e per i costi incredibilmente bassi con cui Armando
Punzo riesce ogni anno a fare tutto quello che sarebbe costosissimo
altrove. Armando Punzo non ha scopi altri - questo teatro non ha una
forza unificante di cittadini, perché non lo siamo più - né di
valori politici - perché non ne abbiamo più - e benché poi sia un
evento profondamente terapeutico, non ha scopi terapeutici - e dice:
"Non è un problema di carcere, non lo è stato mai" e
ancora: "E' una lotta con il reale". L'unico scopo è di
accadere: teatro auto-referenziale e globale, di pura relazionalità,
tutto quello che non ci può essere più 'a' teatro. Qui c'è il
gioco della lotta, del teatro che si auto-fa, dove il pubblico viene
guardato e si guarda (dagli specchi), gli attori-personaggi vengono
guardati (dal pubblico) e si guardano (risolvendo nel gioco la
frustrazione narcisistica).
Le
sbarre restano. Ma nel lunghissimo applauso finale, chi sta di qua e
batte e mani si vede arrivare correndo chi sta di là, finché se li
trova davanti, vicini e sorridenti - ci si stringe timidamente la
mano - in una catarsi collettiva e un'espiazione reciproca, un
liberarsi di forze che servono solo a essere liberate, un abbandono
di sé e del proprio dolore - tutte cose che non esistono più né
nelle chiese morte, né nelle piazze non in rivolta, né tantomeno
nei teatri.
Poi
finisce a alcuni escono altri no. Ma non si sa più chi esce da che
cosa. Il gioco crudelissimo del teatro in carcere è l'ultimo teatro
possibile, il primo teatro reale.
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