Nelle puntate precedenti: il Capitano Giona Missing, incolpevole protagonista dei romanzi da quattro soldi di Teo Marlo, sta riscrivendo il proprio destino a insaputa del suo autore...
Franca Rovigatti
INCONTRO
RAVVICINATO
Circa alle otto Teo
Marlo si svegliò. Così densa era stata la notte, tale l'annegamento, che si
sentiva come se si fosse svegliato (per usare una frase a lui cara) nel primo
mattino del mondo. Faceva fatica a ricordarsi chi fosse, non riconosceva
l’arredamento di casa.
Quel medesimo risveglio
sottrasse alla morte la coscienza del Capitano che, giovane com'era, faticò a
riambientarsi.
Diavolo!! Ma questo
mi è già successo! Mi ci sono già svegliato, qui... Ah, ma certo! Io sono il
Capitano e lui è il mio padrone, Teo Marlo!
Come che sia (che il
sonno senza sogni avesse messo in contatto i due cervelli, che il Capitano, col
passar del tempo, avesse acquisito una voce più sonora, come che sia) Teo
intese distintamente le parole di Giona.
Fece un salto, si voltò
di qua e di là.
Mormorò: "Chi c’è?
Chi ha parlato?".
Al Capitano il cuore
batteva all'impazzata. Possibile?!
Teo, non credo che
mi potrai vedere… Io stesso quasi non mi vedo... Questa del resto è la vita che
mi hai dato: essere nient’altro che coscienza e parola. Teo, sono la tua
creatura, il Capitano!
Oddio, biascicò tra sé
Teo, Oddio, sento le Voci. Oddio, il Capitano... Sto impazzendo!
No! No! Teo,
tranquillo, non sei pazzo! Io stesso, tuo prodotto, posseggo una coscienza
molto ragionevole, te lo posso
garantire!
Ora ti spiego. Sono
venuto fuori tre giorni fa, quando tu avevi appena spostato l'azione in
Indonesia. Chissà, forse è stato il brusco cambiamento di clima... Insomma,
come sia successo non lo so… Certo è che mi sono trovato qui, buttato dentro
la tua cucina.
In principio, devo
confessarlo, ti detestavo. Davo a te tutte le colpe delle mie sventure. Poi,
sentendo i tuoi pensieri, accorgendomi di quanto anche tu soffri, è cambiato
tutto. M'è venuta una...
"Una pena, vuoi
dire? Compassione? Pietà?" chiese Teo stridulo: "Dillo, dunque!
Dillo!"
Una tenerezza,
volevo dire: solo che mi sembra un termine troppo sdolcinato...
Un'empatia, ecco
cosa m'è venuta per te: em-pa-ti-a! Nel senso che patisco delle tue umiliazioni
e godo dei tuoi successi.
E' stato allora
che...
Ma che fai, Teo,
piangi?
Teo singhiozzava.
Ecco è finita! pensava,
sono davvero rovinato. Sto parlando con le voci, sono da manicomio... Questa è
la punizione, Dio Santo Benedetto, per aver osato sperare d'essere un vero
scrittore... Oddio, perdonami: non alzerò più gli occhi, farò sempre libracci
per von Z... Non telefonerò alla Coniglio... Non spererò più niente... Me ne
starò fermo e buono nella mia stanzetta a scrivere merda per Zeitmerde... Farò
la tartaruga, mi seppellirò... Farò lo struzzo...
Smettila, idiota!
Basta con gli atti di dolore! Ragiona! Se anche fosse pazzia, se pure io fossi
solo il prodotto della tua mente malata, che tipo di pazzia sarebbe?
Vergognosa? Pericolosa?
No, casomai una modesta follia
scrittoria.
Ma cosa credi? Che
Dostojewskij non parlasse con l'Idiota? Che Amleto non sussurrasse le sue
ideuzze all'orecchio di Shakespeare?...
"Io Shakespeare
non l'ho mai letto" sussurrò meccanicamente Teo.
Lo leggerai, lo
leggeremo insieme, sarà il caso!
La devi smettere di
avere tanta paura di vivere!
Teo! La vita non è
eterna. Non puoi perdere altro tempo... Non per essere scortese, ma hai già i
tuoi anni... Ti muovi, amico mio,
come se avessi davanti tre vite...
Il silenzio di Teo era
penoso. Dentro, aveva l’inferno, dibattendosi invano tra la prudenza e
l’ardimento.
Alla fine pensò in modo
intelligibile: bah, in fondo che ho da perdere? Mi conviene di starci, anche
perché questo non mi molla... Sospirò profondo, come un nuotatore prima di
tuffarsi, e chiese: "Allora, tu saresti il Capitano Giona Missing?"
Per servirti, in
immateriale mente e coscienza: per servirti, padron mio!
"E... ehm, saresti
emerso dalle pagine quando?”
Tre giorni fa, te
l'ho detto, nel primo pomeriggio. Ti ricordi che sei sceso a prenderti un
panino al bar? Tutto è successo mentre eri via. Sono stato scodellato in
cucina, ma sembrava un aeroporto cadente. Ero furibondo. Poi hai scritto, ti
ricordi?, che Leyla mi toccava l'uccello. E’ troppo!, penso, e ti faccio
svenire. Così riesco a cancellare
la frase. Allora...
"Come sarebbe a
dire: 'riesco a cancellare'?" interruppe Teo.
Non lo so come, Teo:
ci penso forte, e la scrittura spallidisce....
Una possibilità
mostruosa si presentò alla mente di Teo. Sussurrò: "Non è che c'entri tu
anche con la riscrittura? Con i nuovi capitoli?..."
Ah, Teo, aspettavo a
dirtelo, carissimo...
"Carissimo un
cazzo! Così mi ammazzi!" urlò Teo: "Allora è vero: non valgo una
sega! Le uniche cose belle che avevo scritto, adesso salta fuori che non le ho
scritte io...”
Teo, calmati.
Ascolta! Io l’ho vista la tua fantasia, ci sono stato dentro! C’è un tesoro!
Storie, storie infinite, è tutto un brulicare... Sentimenti, idee... Da lì ho
preso le mie invenzioni... Tutta farina del tuo sacco...
"Ah. Resta sempre
che non sono stato io a scrivere..." brontolò Teo, un po' riconsolato.
Poi chiese: "Che
hai fatto stanotte? Hai lavorato ancora?"
Ho finito il terzo e
il quarto. Venuti bene, credo.
Guarda tu stesso,
leggi!
Teo si portò il
manoscritto a letto. Leggendo, spuntò al suo sensorio il pensiero che forse, ma
sì!, un po’ del suo zampino c'era... Dopotutto, pensò, con l'aiuto di Giona
forse potrò scrivere cose come queste...
Anche meglio,
padrone! Tranquillo! Sono sicuro che, se lavoriamo insieme, i tuoi libri
saranno il non plus ultra.
Teo cercò invano
nell'aria le immateriali spalle per battervi una pacca di solidale affetto. O
mia guida, mio Virgilio, pensò.
Poi soggiunse,
ghignando: "Resta sempre che, finora, il meglio l'hai scritto tu..."
Ma io son te, Teo,
probabilmente...
DISTURBI
Teo s'era lavato. Anche
il tavolo era stato rassettato. Il Capitano aspettava con ansia di cominciare:
lavorare insieme, suonare la tastiera della scrittura a quattro mani! L’autore
e il personaggio, in coro, sostenendosi a vicenda! Quando mai s’era sentita una
simile meraviglia?
Teo si sedette, guardò
per l'aria invitando: "Allora, si va?".
Insomma, erano pronti
(partenza, via!), quando il citofono suonò arrogante.
(Quel citofono, che la
sera prima era sembrato gentile sotto le dita di Personne, aveva la capacità di
riprodurre, nel timbro, il carattere di chi lo suonava. Né si lasciava
ingannare dalle apparenze: se chi lo premeva con mano leggera era per esempio
un uomo malevolo, il citofono, su nel piccolo atrio di Marlo, risuonava
perfido...)
Il suono sgangherato
che ora emetteva Teo purtroppo lo conosceva bene: erano, ahilui, le sue quattro
figliole.
Andò alla porta strascicando i piedi, improvvisamente
depresso.
Alzò la cornetta e,
prima ancora di chiedere ‘chi è?’, fu investito da una mitragliata di
pernacchioni e schiocchi, intercalati dalla ripetizione nasale di un 'PAAAPI!?'
che sempre suonava alle sue orecchie come uno sgradito richiamo al dovere della
paternità.
"Ok, salite"
disse rassegnato.
"Vedrai"
confidò a Giona: "vedrai che incubo!".
Le accolse rigido sulla
porta: come a difendere, misero, il suo spazio. Ma le quattro, come sempre, penetrarono
nell’atrio, travolsero il corridoio, dilagarono nello studio, invasero la
camera da letto. Da una stanza all'altra, intercalando pernacchie a gorgoglii,
parlavano a voce altissima ed in perfetto coro, come se un'unica mente le
dirigesse, e forse così stavano le cose.
Le ragazze erano dotate
di una sconcertante peculiarità: i corredi genetici delle quattro, a due a due
gemelle, s'erano incrociati ad X. Violenta e Violante erano nate dieci mesi
dopo Mora e Mara: ma la scura, pelosa Violante era identica a Mora, e la
scialba fisionomia biondastra di Violenta sembrava la fotocopia di quella di
Mara.
Non si sarebbero potute
trovare in tutta Mongo delle ragazze tanto brutte, ottuse e cattive. Al tempo
di questi fatti, le quattro erano tra i dodici e i tredici anni: in quella
difficile età che quasi sempre offusca anche le più belle membra, figurarsi
loro! Goffe, pesanti, pallidissime, la pelle oleosa, i piccoli occhi miopi
strizzati entro palpebre grevi, sopra occhiaie livide, pieno il volto di pustole
e punti neri ribelli a qualsiasi cura, amavano l’eccesso. Si infronzolavano di
fiocchi e nappe, collane, cerchietti e orecchini, cinture, jabots, colletti.
Così si sentivano graziose.
"PAAAPI!?"
gracchiarono tutte insieme pensando di trillare: "MAMMA' CI HA LASCIATE DA
TE, CI DEVI DARE I SOLDINI PER DEI DELIZIOSI ABITUCCI RICAMATI CHE ABBIAMO
FERMATO DA 'JEUNE FILLE'..."
Strascicavano sempre la
A di 'papi', ci avevano spazzato marciapiedi, linoleum, corridoi. Nel tempo la
vocale s'era fatta laida: puzzava.
Teo guardava istupidito
quell'immensità di giovane carne femminile, quelle otto braccia tozze, quei
quattro sederoni fasciati nei jeans, e non si capacitava. Gli pareva
impossibile che quella montagna umana potesse essere uscita da lui, dai suoi
freddi lombi, da due distratti coiti coniugali di cui non aveva memoria.
Gli venivano i brividi
se pensava che le bambine erano quanto lui, geneticamente, trasmetteva al
futuro.
A meno che (gli sorrise
improvviso un angolo di mente), a meno che il suo messaggio ai posteri non
fossero piuttosto i libri: quelli che avrebbe scritto con Giona (figlio mio!,
sospirò).
"Non ho soldi,
ragazze," rispose: "zero via zero. Tra un po' probabilmente
guadagnerò di più. L'ho già detto a vostra madre!"
"LA SOLITA MERDA,
PRRR..." spernacchiarono inviperite e corali: "VABBE', CHE CI FREGA?
SE NON CE LI DAI, I SOLDINI, SALE SU MAMMA' A PRENDERSELI... LO SAI, NO,
PAAAPI?"
"Ok. Come
volete." disse Teo: “Ora scendete. E quando arriva vostra madre,
mandatemela su."
"E' UN TRUCCO! CI
SBATTI FUORI E POI NON RIAPRI... NO, CARO FESSO! NOI SIAMO FURBE! NON
SCENDIAMO!"
"Va bene, fate
come vi pare. Ma ora, signorine, dovete scusarmi, io vado a lavorare. Se vi
accomodate in cucina e non fate chiasso..." disse Teo, e scivolò dentro lo
studio richiudendosi la porta alle spalle.
Tre minuti (Teo aveva
appena fatto a tempo a sedersi e a riacquistare un po’ di calma), e il citofono
sbraitò di nuovo. Sollevato dalla forcella, ne esplose una tale violenza che
persino i fili della società dei citofoni cominciarono a tremare.
"MI MANDI GIU' I
MIEI TESORUCCI, COGLIONE?" tonitruò la signora Giudecca Troni.
"MAMMA',
MAMMA'" strepitarono le pupe, che s'erano precipitate all'apparecchio:
"LO STRONZO NON MOLLA UN CENTESIMO. SALI!"
Il ruggito che uscì
dall'incolpevole aggeggio fece tremare i vetri delle finestre.
Come un lampo, come il
tuono, Giudecca Troni straripò dalla porta dentro l'atrio: che tutto tremante
si ritrasse.
Effettivamente, la
signora faceva spavento. Grande, alta, grossa come un armadio contenente
materassi, vestiva un attillato tailleur rosso fiamma da cui si affacciava
urlando il verde pistacchio della camicia; una grande spilla color semaforo
dardeggiava sull'immenso petto. Le dita, tra i panciuti anelli, montavano
lunghi artigli scarlatti. I capelli, rafforzati in nero ‘Ala di Corvo’, si
appiccicavano in fitti ricciolini sul volto sudato e tinto di inverosimile
rosso. Accecava.
Possibile che quando
servono non so mai dove li ho messi?, sospirò Teo pensando agli occhiali scuri.
"MERDOSO CULO
FLOSCIO!" lo assalì quella che una volta era stata (ma come era potuto
accadere?) la signora Marlo: "TIRA FUORI SUBITO I SOLDI O TI FACCIO
NERO!"
"Giudecca, ho in
linea la polizia": mentì Teo. "Se ti azzardi a menarmi, saranno qui
in due minuti. I soldi non li ho. Pensa che prima stavo per telefonarti per
chiederti un piccolo prestito: solo per un mese, sai, sto per consegnare il
libro!"
(Questa era una balla.
Chiedere un prestito a Giudecca, se appena la conoscevi, era impensabile).
"AAARGH! MA SEI
MATTO?" boccheggiò l'armadio (pieno di materassi): "L'HO SEMPRE
SAPUTO CHE SEI UN CRETINO, UNO SCEMO, UN IDIOTA, UN DEMENTE, UN
COGLIONE..."
"Grazie"
mormorò Teo: che cominciava a divertirsi.
"LO SANNO TUTTI
CHE SEI UNO SCIOCCO, UN BABBEO... MA MATTO, NO. MATTO, NON LO SAPEVO..."
"Ok, lo chiederò a
qualcun altro, il prestito, stai calma": sussurrò il nostro.
"BENEBENEBENE"
ruggì Giudecca protendendo minacciosa gli artigli verso il collo di Teo:
"ALLORA MI PRENDERO' LA CATENINA DI QUELLA POVERA CRISTA DI TUA MADRE.
VARRA' PURE QUALCOSA..."
(Teo, la sua bellissima
madre, l’aveva adorata, e dalla sua morte ne portava al collo la catenina. La
medaglia, una sommaria riproduzione della Madonna della Lacrima, se la
ricordava spenzolare tra gli amati seni. Per nulla al mondo se ne sarebbe
separato.)
"AAAAH!"
gridò Marlo: "MOLLA L’OSSO, BIECA CICCIONA!": e levò alta una sedia,
come fosse clava.
Lo stupore fu tale,
talmente assoluto, che Giudecca si afflosciò, ripiegò su se stessa come una
mongolfiera bucata. La violenza colorata dei vestiti parve impallidire. La voce
le uscì spenta mentre chiamava a raccolta le gemelle, le spingeva alla porta,
scivolava giù per le scale senza far rumore.
Teo controllò che
fossero uscite proprio tutte. Mise giù la sedia, chiuse la porta col catenaccio, e scoppiò a
ridere di gusto.
Accanto a lui,
chiaramente udibile, anche Giona rideva.
(12 - continua)
Poeta, artista visiva, organizzatrice culturale, Franca Rovigatti ha fondato nel 1997 il festival RomaPoesia e nello stesso anno ha pubblicato per Sottotraccia il "romanzo di viaggio immaginario" Afàsia.
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