lunedì 5 agosto 2013

mvl Teatro, Genet nel segreto della Fortezza


Brunella Antomarini
Ogni volta che ci succede qualcosa che confonde le distinzioni abituali che ci servono a vivere, dopo ci sentiamo diversi. Questo effetto lo chiamiamo rituale, o arte. Anche se né l'arte né il rituale ce l'hanno come scopo, perché il loro scopo è quello o religioso, o etico, o estetico.
La Compagnia della Fortezza invece ce l'ha come scopo principale. Vuole ottenere quell'effetto. Si preoccupa che chi entra, esca (dalle distinzioni), proprio come fa chi sta già dentro e vuole uscire (anche se non dalle distinzioni, ma proprio dal carcere). Il carcere è infatti la più grande distinzione, artificiale come tutte le distinzioni e necessaria come tutte le distinzioni, perciò violenta e presuntuosa.
Le sbarre dicono che alcuni individui devono essere separati e quindi definiti (de-finire in latino vuol dire delineare confini) come separati. Sono quelli che non capiscono le distinzioni sociali o ne hanno altre incompatibili con quelle sociali normali. Ma se la Compagnia dell Fortezza venisse qui descritta con Foucault, non daremmo il giusto valore ai suoi componenti. Se cioè introducessimo qui il solito discorso sulla violenza della normalità, sarebbe come dire che in fondo siamo tutti detenuti, siamo tutti criminali, eccetera - retorica falsa perché usa contro-distinzioni che sono invecchiate anche quelle.
Nel Medioevo i luoghi di pena erano chiamati segrete, cioè si puniva in luoghi nascosti, per indicare forse la vergogna collettiva di una colpa. Il carcere istituito nelle società occidentali moderne invece ci tiene a esibire la punizione - la colpa non è di tutti quelli che non riescono a tenere l'ordine, ma solo di chi non lo capisce: l'esibizione scagiona la società e trasforma il detenuto in una pseudo-specie - è quindi teatro. E' narcisismo del guardarsi al di qua della scena-patibolo, il piacere di un dolore che non ci tocca (da Aristotele a Réné Girard, eccetera).
L'idea, ai cittadini moderni, gli dev'essere venuta dal successo pedagogico delle sacre rappresentazioni medioevali, che davanti al sagrato richiamavano le persone più disparate, soprattutto quelle illetterate, e le univano nella commozione e nella fede.
Quando Lorenzo de' Medici fece costruire la Fortezza di Volterra, deve aver dato per scontata questa struttura mentale e sociale di mostrare a tutti il luogo della distinzione. Chi era cittadino stava fuori della fortezza. Chi entrava (soprattutto i suoi nemici) ne veniva segregato, messo in segreto, nascosto alla città e esibito dentro il luogo altro, dove c'è la pena, il risarcimento, la tortura, la giustizia da rifare sempre. Il teatro della giustizia è così, un ossimoro: ti mostra come le cose dovrebbero essere e le nasconde come sono. (Si vede il portone del carcere all'improvviso, subito dopo una curva, al centro del paese). Quindi il carcere è sempre anche un teatro. Ma allora possiamo dire che il teatro è sempre un carcere? Carcer indicava le sbarre del circo: il gioco è un uscire per fare una sorpresa, per meravigliare e poi rientrare; il gioco delle distinzioni e delle distruzioni delle distinzioni - il bambino che costruisce il giocattolo e poi lo distrugge e lo rifa.
Il teatro del carcere nasce insomma con la città e più complessa la città più complesse le punizioni e distinte le colpe. Ma anche se nasce dalla città stessa, la naturalizzazione del carcere non ci può portare all'indifferenza confusa (la retorica degli anni Settanta): la violenza è un fatto e chi la subisce vuole che la città lo protegga da chi la fa. Da qui la giustizia esibita con la pena e la scena adibita, e da qui l'ingiustizia della giustizia (con Foucault), che approfitta per trasformare una necessità di fatto in un valore simbolico. E qui che comincia il lavoro teatrale sulla distinzione: dove finisce il fatto del crimine e dove comincia il valore simbolico, che serve alla coesione sociale e usa capri espiatori? La distinzione non è arbitraria, eppure il confine è sfumato, come tutti i confini, che sono artificiali.
E infatti il regista e direttore della Compagnia della Fortezza, Armando Punzo, ha scelto quest'anno per festeggiare i 25 anni dell'attività della Compagnia, tutta formata da detenuti-attori - quest'anno 50 - testi di Jean Genet, interpretandoli e rileggendo lo scrittore gay che passò molto tempo della sua vita in carcere, in chiave queer: ogni detenuto-attore incarna un essere maschile-femminile: la distinzione dentro la distinzione; e scoppiano tutte e lasciano il posto a un'indistinzione complessa: il vero attore può essere solo un detenuto, se il teatro serve a esibire il segregato, se il maschio è anche una femmina e viceversa. Il luogo dev'essere quello che storicamente, in un unico gesto, protegge dalla violenza e ne trae piacere, custodisce un ordine e tortura.

Si entra, dunque. Dopo esser passati dalle sbarre, si legge il nome di ogni spazio, ognuno dedicato a uno scrittore: Spazio Leopardi, Spazio Artaud, Spazio Kafka..., si passa sotto un tunnel di marinai (per ricordare Querelle), che come discoboli antichi fanno con le braccia un ponte di accoglienza e di passaggio altrove, con sfondo musicale e sonorità campestri. Si entra accalcandosi per uno spazio di pochi metri sovrastato da due personaggi-corpi che con potente fisicità invitano a procedere o a destra o a sinistra, dove si allineano una dietro l'altra in uno stretto corridoio piccole stanze o celle. A tutte le pareti sono appesi specchi, tanti specchi e tendaggi. Siamo attaccati uno all'altro cercando di avanzare e specchiandoci, mentre i personaggi di questa scena che non fa distinzione con il pubblico, ci vengono incontro recitando testi di Genet, a memoria. Ogni tanto si specchiano. La corporeità però non è ideologica, ha una qualità reale (dovuta alla sapienza del regista che non fa nessuna concessione meta-teatrale; dovuta alla potenza dei corpi rinchiusi che ora qui si possono dire, mostrare, da dentro a fuori, ci buttano addosso un'interiorità che si fa conoscere senza sforzo. Le voci sono forti, apprese dall'istinto e non disturbate da lezioni di dizione, con accenti locali di molte parti d'Italia o con lingue straniere, cinese, arabo o lingue africane, incomprensibili e che trasmettono con il loro ritmo, il loro tono, più che con ogni comunicazione linguistica. Gli abiti (Emanuela Dall'Aglio), come le musiche (Andrea Salvadori) e gli arredamenti (Alessandro Marzetti, Silvia Bertoni, Armando Punzo), sono barocchi, romantici, esagerati, sublimi; le scene sono tante e simultanee, l'adattamento drammaturgico (Alice Tocacieli e la collaborazione di Lidia Riviello e Giacomo Trinci) perfetto. Accanto a una bara con una sposa in bianco, su un trono dorato e sovrastante si avvicendano personaggi e lingue diverse. In un'altra stanza tre personaggi cinesi recitano e cantano nella loro lingua, ma non suona straniera. C'è una qualità sensoriale (visiva, acustica e soprattutto tattile) nel movimento che si stabilisce tra attori e pubblico, data dall'avvicinamento di corpi, dal disagio dei corpi, che però accolgono il gioco perché è fatto in un modo che assomiglia a un rito di purificazione.
In una stanza più ampia il regista-attore, Armando Punzo (formato alla scuola di Grotowsky) recita versi con una voce che tra Jacopone e Majakovsky fa da direttore d'orchestra, unifica tutti gli accenti, dà il là e qualità corale in un ambiente fortemente individualizzato. Si è presi in un vortice, si suda e si fatica ad ascoltare, si capisce e a volte non si capisce ma così è il vero teatro, quello che non c'è più nei teatri.
E' l'ultimo teatro possibile - l'unico teatro che avrebbe senso come teatro stabile - perché non istituzionalizzabile: di un carcere non ci si può appropriare mediaticamente più di tanto, per sua struttura 'segreta' e per la qualità corporea, tattile della presenza che richiede. Funzionale solo a se stesso, può stabilmente sostenere l'instabilità sociale che lo determina, può lasciare che i suoi attori insieme al suo pubblico si auto-presentino, si presentino a se stessi, si guardino e portino fuori quello che accade 'tra sé e sé', senza problemi di ruolo, o questioni di riproduzione indefinita delle sue performances.
E' come se il teatro moribondo - per i costi, per i compromessi con le istituzioni, per la professionalità offesa dalla ripetizione di chiqués artistici, inclusi quelli delle neo-avanguardie - avesse trovato rifugio qui, dove rinasce, per vocazione del luogo e della sua naturalezza - e per i costi incredibilmente bassi con cui Armando Punzo riesce ogni anno a fare tutto quello che sarebbe costosissimo altrove. Armando Punzo non ha scopi altri - questo teatro non ha una forza unificante di cittadini, perché non lo siamo più - né di valori politici - perché non ne abbiamo più - e benché poi sia un evento profondamente terapeutico, non ha scopi terapeutici - e dice: "Non è un problema di carcere, non lo è stato mai" e ancora: "E' una lotta con il reale". L'unico scopo è di accadere: teatro auto-referenziale e globale, di pura relazionalità, tutto quello che non ci può essere più 'a' teatro. Qui c'è il gioco della lotta, del teatro che si auto-fa, dove il pubblico viene guardato e si guarda (dagli specchi), gli attori-personaggi vengono guardati (dal pubblico) e si guardano (risolvendo nel gioco la frustrazione narcisistica).

Le sbarre restano. Ma nel lunghissimo applauso finale, chi sta di qua e batte e mani si vede arrivare correndo chi sta di là, finché se li trova davanti, vicini e sorridenti - ci si stringe timidamente la mano - in una catarsi collettiva e un'espiazione reciproca, un liberarsi di forze che servono solo a essere liberate, un abbandono di sé e del proprio dolore - tutte cose che non esistono più né nelle chiese morte, né nelle piazze non in rivolta, né tantomeno nei teatri.
Poi finisce a alcuni escono altri no. Ma non si sa più chi esce da che cosa. Il gioco crudelissimo del teatro in carcere è l'ultimo teatro possibile, il primo teatro reale.

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