Bianca
Maria Vaglio
Ogni
pomeriggio, come nella fiaba del Pifferaio magico, la seguivamo in
fila attraverso le strette stradine del paese fino alla mitica
spiaggia “dei sassi”. Eravamo un folto gruppo di bambini, dai sei
ai quattordici anni. Lei ci precedeva senza perderci di vista; era
poco più alta di noi, bionda ed esile, indossava sempre vestiti
attillati che mettevano in risalto la vita piccola e le forme
femminili. A metà strada facevamo una sosta per salutare l’asino
Rosinello che riposava nella stalla, dopo le fatiche del mattino.
Ognuno di noi bambini gli accarezzava il muso, ricambiando il suo
sguardo di una struggente bontà. Poi riprendevamo il cammino.
Arrivati sulla spiaggia, ci sedevamo in cerchio intorno a lei. Non
c’era quasi mai nessuno a quell’ora. Un pescatore solitario,
immerso con le gambe nell’acqua, cercava polpi fra gli scogli.
Quando ne aveva preso uno, tirava fuori di scatto il braccio a cui
era aggrappato il polpo, con l’altro braccio si liberava dei
tentacoli, poi sbatteva con forza la testa del polpo sulle rocce. Il
mare si tingeva per un po’ di un liquido nero. Il pescatore buttava
la sua preda in un grosso secchio e ricominciava. Talvolta una donna
del paese si avvicinava alla riva, sollevava la gonna nera e
immergeva i piedi nell’acqua, in cerca di refrigerio. Ci guardavano
stupiti.
Lei
ci raccontava favole. Ma non erano quelle che si leggono nei libri.
C’erano nelle sue favole echi di tutte le favole mescolati insieme,
ma prive degli aspetti più tristi, cupi di cui le favole abbondano;
i re cattivi che amano troppo le loro figlie, le regine cattive che
odiano le figliastre, i genitori che abbandonano i loro bambini o che
li perdono nei boschi, gli orchi, le streghe, le prove crudeli cui si
sottopongono gli eroi.