sabato 30 novembre 2013

Libri digitali in formato playlist


Ieri, 29 novembre, a Padova si è inaugurata a Padova la nuova sede di una libreria della catena Ibs che - copiamo pari pari dal comunicato stampa - propone "un’importante novità: la vendita in store di ebook. Dopo aver scelto l’ebook da un’apposita postazione pc, i clienti stamperanno una cartolina con cui potranno dirigersi alla cassa e pagare in contanti il contenuto digitale scelto. A quel punto potranno decidere se effettuare il download del libro sfruttando la connessione wi-fi gratuita all’interno della libreria o farlo a casa propria". Il comunicato prosegue: "Partendo da questa novità, la riapertura della libreria di Padova nella nuova sede di via Altinate, segna un importante traguardo per la catena a marchio IBS.it concretizzando l’obiettivo iniziale di lanciare sul mercato un nuovo format di punto vendita: una libreria che sia per il pubblico il perfetto punto di incontro tra editoria tradizionale e nuova frontiera del digitale". Inquieti per quello che sta succedendo negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, dove le librerie di catena ansimano di fronte alla vendita online, i grandi marchi italiani cercano di assumere quella che Mauro Zerbini, amministratore delegato di Ibs, definisce "un'ottica multicanale". Ma può darsi che non basti (leggete qui sotto).
Maria Teresa Carbone
C'è stato un tempo (qualcuno se lo ricorda? diciamo una trentina d'anni fa) in cui comprare musica voleva dire andare in un negozio di dischi e uscirne con sottobraccio uno o più astucci di cartoncino piatti e quadrati, al cui interno era racchiuso – appunto – un disco (a volte due o tre) di vinile, il cosiddetto 33 giri o lp (long playing) o infine album, dal momento che ognuna delle due facciate conteneva di solito un certo numero di brani. Da allora il mercato musicale è stato investito da una rivoluzione dopo l'altra, a partire dal cd (compact disc), presentato all'inizio degli anni Ottanta come un oggetto imperituro e oggi pressoché defunto, giù giù fino alla vendita via internet di singoli brani musicali da scaricare (il modello iTunes) e, infine, all'abbonamento mensile, con ascolto in streaming, il cui esempio di maggiore successo è oggi Spotify. A questo proposito, il direttore economico della compagnia svedese, Will Page, ha dichiarato l'estate scorsa alla “Stampa” che nei suoi primi sei mesi in Italia Spotify ha registrato 610 milioni di stream. Un risultato notevole, sulla cui durata – come si è visto – sarebbe imprudente scommettere.

mvl Cinema: "Il passato", separazioni difficili nella banlieue parigina

Patrizia Vincenzoni
 
Il passato
Regia: Asghar Farhadi
Interpreti: Bérénice Bejo, Tahar Rahim, Ali Mosaffa, Sabrina Ouazani, Pauline Burlet, Elyes Aguis, Babak Karimi, Valeria Cavalli, Jeanne Jestin
Durata: 130 min

Asghar Farhadi costruisce un film che esplora, ancora una volta e con abilità,  i contesti familiari  e le difficoltà  che possono percorrerli, turbarli, come già nel precedente La separazione, miglior film straniero  agli Oscar  2012. Questa nuova  pellicola è ambientata non più in Iran ma in una  banlieue parigina,  dove vive Marie, madre di due figlie avute da un precedente matrimonio: il rapporto con la primogenita  Lucie  è difficile, conflittuale, contrassegnato da una rabbiosità espressa per lo più  da una presenza 'assente' e reattiva della ragazza verso la madre e verso le sue scelte sentimentali che negli anni si sono susseguite.  La donna da poco convive con Samir, emigrato anni prima dal nord Africa, e il figlio piccolo di questi avuto  dalla moglie Céline, parigina, in coma da sette mesi dopo un tentato suicidio attuato nella lavanderia di cui l'uomo è proprietario. La relazione fra i due è precedente al drammatico evento in questione. 

venerdì 29 novembre 2013

Bibliomania e bibliofollia / 5 - Francesco Petrarca, Il mio amore insaziabile per i libri

"Nei libri", scrive Francesco Petrarca, "c'è qualcosa di singolare: l'oro, l'argento, le gemme, le vesti di porpora, le case adorne di marmi, i campi ben coltivati, i dipinti, i cavalli ben bardati, e le altre cose di questo genere danno un piacere muto e superficiale; i libri dilettano nel fondo dell'animo, parlano con noi, ci consigliano e con noi si uniscono con viva e vivace familiarità; né solamente ciascuno di essi penetra nell'animo del lettore, ma suggerisce il nome di altri; e l'uno gli dà il desiderio dell'altro".
I libri della vita formano un cosmo vivo e personale: ognuno rimanda all'altro e ognuno fa amare l'altro: Platone chiama Solone, Svetonio Plinio, Cicerone Senofonte. In Petrarca tutto parla di un ordine classico, sovranamente inteso: ogni suo libro è una ricapitolazione dell'universo, ordinato in gerarchie immutabili; i pensieri ivi espressi sono colonne su cui poggiano architravi concettuali equilibrati e inscalfibili; tutte le pagine vengono disegnate calligraficamente, su ottima carta, con minuzia implacabile, e ideate per una durata degna di un classico, poiché i concetti ch'essa esprime sono eterni, come furono eterne la la tradizione greca, poi quella romana e, quindi, a compimento fatale, la cristiana; e nessuna critica contingente può scuotere l'andamento stoico del Petrarca prosatore: in esso vige una fermezza d'animo e a un sentimento d'accettazione del destino mutuato da Seneca e ch'egli volge, grazie ai Padri della Chiesa, come l'amato Sant'Agostino, in un quieto pessimismo.

giovedì 28 novembre 2013

Voci lontane sempre presenti / 2 (Ancora Valle Aurelia, ma si finisce a parlare di calcio e della disfatta dell'Italia)


[Cliccare per ingrandire] [Qui la prima parte]

G. Luca Chiovelli 

Oltre il viale si allarga. Ecco la piazzetta, dove il 495 si trascina a girare impacciato e lento come un bacarozzo. Edifici tirati a nuovo si alternano a quelli diruti; le finestre murate sono bocche impedite nel racconto. A perpendicolo, rispetto al cammino, dipartono i vicoli: Via dei Laterizi, Via delle Ceramiche, Via degli Embrici, Via delle Campigiane; una toponomastica lieve e dolcissima che incapsula la memoria degli eventi come l'ambra fa con gli insetti.

Le fornaci spente
Si scorgono architetture insolite, in cui l'amore degli abitanti nulla concede alle secchezze del funzionalismo. La cura quotidiana arrotonda gli spigoli, si concede spazi inusitati fra le tramezzature. Ecco le porte, gli infissi di legno, le persiane verdi, i terrazzini che traboccano di fiori, i civici decorati incassati nelle mura. A destra le fabbriche ormai barrate, le fornaci spente; dagli opifici deserti, la seconda ciminiera sopravvissuta punta verso un cielo che si compone nelle striature dei cirri.
Ancora avanti il lastrico del viale si sfibra lentamente nello sterrato del parco, qui ancora arruffato e selvaggio; una barra semovente segna il confine fra l'abitato e la vegetazione quali diverse regioni della coscienza. La oltrepasso. Al di là il campo da gioco della squadra Valle Aurelia.
Abbandonato anch'esso, ma ancora visibile. Sopravvivono le strutture dei riflettori, altissimi: altane da cui custodire un segreto dimenticato. A lato, un roveto inestricabile avviluppa gli scheletri metallici degli spalti come misteriosi reperti precolombiani. Ancora in piedi: un casotto. Del campetto sopravvive una sola porta: i tre pali metallici disegnano un rettangolo fatale che inquadra, desolato, il nulla.

Il silenzio è assoluto.

mercoledì 27 novembre 2013

Il cane di Petrarca

Francesco Petrarca fu sempre un amante della vita campestre.
Lo si sente da come parla del proprio rifugio nella campagna, Valchiusa (Fontaine-de-Vaucluse, nella Provenza), accanto alla fonte del fiume Sorga. Ecco una lettera indirizzata all'amico Guido Sette:

" ... quei campi rappresentano il luogo della pace, la casa del riposo, il porto delle fatiche, l'ospizio della serenità, l'officina della solitudine ... Non vi si sente il fragore delle armi, il tripudio vano dei trionfi o l'inconsulta tristezza che può nascere per ragioni opposte, e dalla quale siamo ora angosciati. Guizzano i pesci argentei nell'onda cristallina, sparsi per i prati lontano muggiscono i buoi, sussurrano i venti leggermente muovendo le fronde, diversamente cantano gli uccelli sui rami ..." (1)
La prosa del poeta Francesco Petrarca è, ahi, spesso superiore alla prosa del prosatore Giovanni Boccaccio. E qui, in tali passi, essa ha un gusto assolutamente sincero, tanto che i rimandi, coltissimi, alla classicità, si stemperano in un'aria dolcemente bucolica.

A cento anni dalla nascita di Federico Caffè


L'I.I.S. Federico Caffè, la Biblioteca IIS Federico Caffè, il Centro studi Federico Caffè e il Centro creatività innovazione Federico Caffè organizzano, per la ricorrenza del centenario della nascita di Federico Caffè (Pescara 6 gennaio 1914 - Roma 15 aprile 1987), una serie di seminari, indirizzati agli studenti, tenuti da docenti universitari e esperti, che, a suo tempo, sono stati allievi, collaboratori e colleghi del prof. Federico Caffè:
1) ECONOMIA E VALORI: prof. Roberto Schiattarella dell'Università di Camerino, il 29 novembre 2013;
2) "LEGGI ECONOMICHE" E COSTITUZIONE: dottor Giuseppe Amari della Fondazione Giuseppe Di Vittorio, il 24 gennaio 2014;
3) EUROPA E GLOBALIZZAZIONE: prof. Bruno Amoroso, docente emerito dell'Università di Roskilde, Danimarca, il 21 febbraio 2014;

4) C'E' UN FUTURO PER LO STATO SOCIALE'?: prof. Roberto Pizzuti dell'Università LA SAPIENZA di Roma, il 21 marzo 2014.
Alla fine dei seminari: Tavola Rotonda (periodo di svolgimento, aprile 2014) con Paolo Leon, docente emerito dell'Università ROMATRE, con Roberto Schiattarella, con Bruno Amoroso, con Giuseppe Amari, con Roberto Pizzuti e con un Ministro in carica. Coordina la giornalista Roberta Carlini.

"...Federico Caffè dispiega una ricca e multiforme operosità scientifica, anche come fondatore di una fiorente scuola di allievi..(...).come economista si mosse sempre all'interno della grande tradizione che da Adam Smith passa per John S. Mill, Alfred Marshall, Arthur C. Pigou e John M. Keynes, per arrivare a Jan Tinbergen, John R. Hicks, James E. Meade e James Tobin. Egli fece propria una concezione del progresso della scienza economica come risultato di un'«opera costante, continua e successiva, per cui l'edificio della scienza stessa risulta come una serie di piani che si aggiungono a quelli precedenti, in modo da costituire un tutto armonico» (Economia senza profeti, 1977, pp. 10-11). Una concezione che può sembrare whig, cioè ottimisticamente progressiva, ma che ammette continue interruzioni nell'evoluzione della scienza e continue riscoperte di teorie del passato. Questa interna tensione dialettica fra insegnamenti di ieri e problemi di oggi fa degli scritti di Caffè, a prima vista frammentari (Faucci 2002), una fonte costante di riflessione. - da Riccardo Faucci "Caffe, Federico - Il Contributo italiano alla storia del Pensiero – Economia (2012)"

Più libri più liberi (più luoghi)


Sarà ancora una volta il Palazzo dei Congressi dell'Eur la sede di Più libri più liberi, fiera della piccola e media editoria, la cui dodicesima edizione si svolgerà dal 5 all’8 dicembre. Qualcosa di nuovo, però, quest'anno c'è, ed è il coinvolgimento di diversi quartieri di Roma, fra cui Monteverde che prenderà parte (quasi inutile dirlo, con un ruolo attivo di Monteverdelegge) a Più libri più luoghi, iniziativa parallela che già da giovedì 28 novembre accompagnerà il corso della manifestazione con numerose attività all’interno della capitale.
Durante la conferenza stampa, che si è tenuta ieri al Palazzo delle Esposizioni e alla quale erano presenti i promotori e tutti i rappresentanti degli enti territoriali coinvolti, particolare risalto è stato dato al fatto che oggi l’editoria italiana, e romana in particolare non ottiene il ritorno economico auspicato, a fronte di una ricca e diversificata offerta. Più liberi più libri nasce dunque con questo obiettivo: da un lato promuovere la lettura intercettando i potenziali lettori, dall’altro offrire una visibilità maggiore a realtà editoriali che hanno bisogno di rendere giustizia, anche economica, alle loro proposte. Minore attenzione purtroppo è stata data allo sforzo, non monetizzato né monetizzabile, delle realtà culturali coinvolte che, radicate sul territorio, rendono possibile le iniziative di contatto e di quartiere.          

A Monteverde Più Libri Più Luoghi prende avvio venerdì 29 novembre alle 8.00 presso l’Istituto Federico Caffè con una iniziativa dei Piccoli Maestri: Monica Bartolini legge L'impronta della volpe di Moussa Konaté (Del Vecchio).

E ancora venerdì 29 con Porte aperte in redazione, gli editori apriranno le porte e saranno disponibili a incontrare i lettori nei luoghi in cui vengono prodotti i libri. Da segnalare in particolare per i lettori di Monteverde  Emons Audiolibri, Orecchio Acerbo e Lantana, editori indipendenti presenti nel nostro quartiere.                    

martedì 26 novembre 2013

Baci, una poesia inedita di Morten Søndergaard

Tra i maggiori poeti danesi contemporanei,  Morten Søndergaard è in questi giorni in Italia per una serie di presentazioni del suo libro A Vinci, dopo. Lo scrittore si potrà tra l'altro incontrare giovedì 28 novembre alle 17.30 presso la Casa delle traduzioni di Roma per una conversazione con il suo traduttore Bruno Berni. E a Bruno Berni, che di recente è venuto da Plautilla per parlare di questo e di altri libri, dobbiamo il testo inedito di una poesia d'amore di Søndergaard, Baci (Kys), che trovate qui sotto nella traduzione italiana e in originale.

Sottoterra alla stazione di Nørreport
i baci aleggiano sui marciapiedi
Baci di lingua lievi come fiocchi
baci d’addio baci di saluto

pubblici baci sulle panchine
Avevo dodici anni quando mia sorella
aprì la scuola di baci di Morten
per le sue amiche. La scuola deve aver
fatto scuola perché una sezione è ora sommersa

sottoterra alla stazione di Nørreport.
Si lavora giorno e notte
nei laboratori dei baci
al suono della parola bacio
in tutte le lingue, su tutti i binari.
I baci rimangono
quando i treni sono partiti
ma possono
essere ripresi in ogni momento
dall’aria

e premuti
sulle labbra
che aspettano.
(traduzione di Bruno Berni)


Kys
 
Under jorden på Nørreport station
  svæver kys rundt på perronerne.
    Fnuglette tungekys
    afskedskys velkomstkys
    offentlige kys på bænke.
      Jeg var tolv da min lillesøster
       åbnede Mortens kysseskole
        for sine veninder. Skolen må
         have dannet skole for en afdeling ligger nu dybt
         under jorden på Nørreport station.
           Der arbejdes dag og nat
           i kyssenes laboratorier
           til lyden af ordet kys
           på alle sprog, på alle spor.
             Kys bliver tilbage
             når togene er kørt
               men de kan
               til hver en tid hentes
               ud af luften
               og presses
               mod de læber
                som venter.


Voci lontane, sempre presenti / 1 (Valle Aurelia, Vittorio Mallozzi e altre cose)


G. Luca Chiovelli

[cliccare per ingrandire] [Qui la seconda parte]


Vi sono ancora luoghi, a Roma, che non hanno subito le ingiurie, o le gratificazioni, della modernità. Il viaggiatore che, senza fretta, si spinga fuori della città ricalcando i tragitti delle antiche strade consolari, o, meglio, si serva degli itinerari ferroviari, non tarderà a scoprirli: quasi inavvertiti all'occhio profano essi riservano, invece, piaceri nascosti all'iniziato, a mezzo fra l'ammirazione per le forme di ciò che non più e una nostalgia tanto più pungente in quanto non riusciamo a definirne la scaturigine.

Si pensi alla campagna romana, piatta e misteriosa, che atterrì Gioachino Belli, ai suoi casali scialbati presagiti dai portici in pietra, all'architettura di scalinate  che rifugge da qualsiasi utilità immediata, alle linee delle antiche coltivazioni, alla toponomastica che confessa, nonostante tutto, eventi ormai dimenticati. Orme di esistenze non più vissute e dileguate per sempre.
All'interno di Roma questi sortilegi stentano a presentarsi. Non parlo di luoghi consacrati alla celebrazione dell'antichità, debitamente catalogati (monumenti, cattedrali, edifici patrizi), dove il passato parla in modo mediato, addomesticato, dotto, ma di minuscole regioni in cui, nonostante il frastuono e la strafottente sbrigatività del quotidiano, esso traspare ancora immediato, fievole, agitato da un breve palpito.


Roma vista da Monte Ciocc

Di rado tali luoghi eccedono l'esigua vastità di una piazzola, d'un vicolo. Anzi, spesso si riducono a un archetto, a una targa settecentesca, a una finestra a colonnine, un'iscrizione murata, un affresco popolare sfibrato dalle intemperie. E, quasi sempre, pur visibili, rimangono nascosti all'occhio, come la casa maledetta e sfuggita di Lovecraft.
Nella periferia nord di Roma, fra i quartieri Prati e Primavalle, esiste una di queste regioni dell'anima. Valle Aurelia. Non la borgata di recente costruzione, ovviamente, ma ciò che resta di una comunità popolare ottocentesca ancora attiva nei primi anni del dopoguerra.

Valle Aurelia nacque come agglomerato di operai delle fornaci. 


lunedì 25 novembre 2013

Biennale d'arte di Venezia, un dizionario per il finissage


Viviane Sassen, Lexicon
Maria Teresa Carbone
Cristina Reggio

Dopo cinque mesi, domenica 24 novembre si è chiusa la 55. edizione della Biennale d'arte di Venezia. Vi proponiamo un piccolo dizionario del finissage, da commentare, integrare, discutere.

Alberi
Albero 1. Allʼingresso dei giardini, nel primo Padiglione, quello del Belgio, si trovava un enorme albero trafitto, come un corpo umano, un San Sebastiano vegetale in lenta agonia. Era lʼopera dal titolo Kreupelhout - Cripplewood di Berlinde De Bruyckere, un artista belga che immerge gli spettatori in una atmosfera velata, ovattata, nebbiosa, volutamente in contrasto con la luce cristallina dei giardini. Lʼalbero gigante abbattuto sembrava respirare, pulsare di vita stremata: un enorme tragico Gulliver morente intorno al quale ci siamo sentiti lillipuziani, stranieri, impotenti, curiosi, estranei.
Albero 2. Nel 2011 un albero si è improvvisamente abbattuto sul piccolo padiglione finlandese disegnato da Aalto, danneggiandolo. Lo spazio è stato poi ripristinato, ma due anni dopo il padiglione dei Paesi nordici (assegnato in questa edizione alla Finlandia) è stato trasformato da Terike Haapoja in un laboratorio, dove gli alberi – i Falling Trees cui è stata intitolata l'intera installazione, comprensiva anche della mostra fotografica di Antti Laitinen al padiglione Aalto – hanno fatto sentire il suono ansimante del loro respiro, in risposta a quello dei visitatori. La tecnologia è diventata così il tramite comunicativo tra due mondi all'apparenza distanti e separati, un invito a porsi in ascolto di voci inudibili.

Eva, figlia di due padri


Melania Mazzucco, Sei come sei
Einaudi, pp. 248, euro 17,50
Patrizia Vincenzoni
"Il loro desiderio è stato esaudito. Che anche voi possiate esaudire il vostro".
Cosi in epigrafe la formula di congedo delle fiabe armene a sottolineare l'importanza di non perdere di vista il proprio desiderio, quasi un augurio che l'autrice sembra inviare, mentre ci apprestiamo alla lettura di Sei come sei. Crediamo sia utile ricordare, anche se non riportata, la formula d'inizio "c'era o non c'era una volta", cara alla tradizione armena, che suggerisce la necessità di una sospensione di incredulità a chi entra, leggendo, in un ambito fiabesco. In linea con tale atmosfera le brevi pagine della prefazione scritte da Eva, l'adolescente protagonista, che ci aprono verso una dimensione temporale immaginaria. Il romanzo tratta temi controversi che attraversano la contemporaneità, rispetto ai quali la scrittrice evitare di assumere una qualche posizione ideologica. La Mazzucco 'entra' nella narrazione, ne segue storia ed eventi, i personaggi del romanzo da subito diventano persone.
Due uomini gay sono padri di Eva, nata da un utero in affitto, ritratta nella fase adolescenziale che la vede impegnata a difendersi dai pregiudizi e dal bullismo dei compagni di classe, violenza che produce un fatto grave da cui Eva fugge mettendosi in viaggio, in incognito, alla ricerca del padre del quale, tempo prima, è stata privata, poiché non riconosciuto dalla legge come tale. L'altro padre Christian, il genitore legale, giovane filologo, poco tempo prima ha perduto la vita in un incidente con la moto, ed Eva è stata affidata al fratello di questi.

Di cosa parliamo quando parliamo di donne, le riflessioni di Francesca Rigotti



Autrice di numerose pubblicazioni - tra le altre Gola. La passione dell’ingordigia. I 7 vizi capitali (Il Mulino, 2008), Le piccole cose di Natale. Un’interpretazione laica (Interlinea, 2008), Il pensiero delle cose (Apogeo, 2007), Il pensiero pendolare (Il Mulino, 2006), Agli estremi della filosofia ( Tre Lune, 2005) e La filosofia delle piccole cose (Interlinea, 2004) - Francesca Rigotti, nata a Milano nel 1951, ha insegnato presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Göttingen e attualmente è docente di Dottrine e Istituzioni Politiche alla Facoltà di Scienze della Comunicazione dell’Università di Lugano. 

domenica 24 novembre 2013

I racconti di MVL. Al tuo funerale verrò vestita di viola


Giulia Caminito

- Dici che Dio è vanitoso?
- No, non è vanitoso. Vuole godersi le cose belle con noi.
Io credo che Dio si incazza se tu,
di fronte al colore viola di un campo di fiori,
neanche te ne accorgi.

“Penso che tu sia troppo bassa, Medea. Non credo che qualcuno potrebbe mai trovarti attraente. Guarda quanti brufoli hai in faccia! Non raggiungi il metro e cinquanta, scarso. Sembri una bambina, di quelle viziate e sbilenche, a cui manca sempre qualcosa. Io se fossi in te mi vestirei da puttana, del genere che però poi non si mischia mai con i clienti. Chissà forse qualcuno, allora, avrà voglia di considerarti come una donna. Te lo dico per amicizia, Medea. Solo per questo.
Sono la tua miglior amica, no?”
Viola aveva una gatta di nome Camilla. Le aveva scelto un nome semplice, senza rimandi letterari, senza implicazioni sentimentali, per non darle il privilegio di uscire dalla propria mediocrità.
Si odiavano Viola e Camilla. Il felino era macchiato di bianco e nero, tanto da venir spesso soprannominato “mucca”, “zebra” e “procione”; aveva la brutta abitudine di dormire sulla sedia che Viola usava in cucina riempiendola di peli. Lei ogni settimana cambiava sedia, pur avendone solo tre a disposizione, e Camilla, puntualmente, si faceva trovare pronta, per le otto e mezza in punto, acciambellata sul cuscino di Ikea. Una volta era stato color avorio, ora tendeva al giallino, macchiato di caffè e saliva di gatto.

L'incipit della domenica - Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde

Strange case of Dr. Jekyll and Mr. Hyde, di Robert Louis Stevenson, è pubblicato a Londra nel 1886. Il romanzo breve rimane, a tutt’oggi, una delle creazioni fantastiche più durature di sempre.
In esso Stevenson dichiara, per bocca di Jekyll stesso: “L’uomo non è veracemente uno, ma veracemente due”.
L’anno successivo, 1887, esce La genealogia della morale di Friedrich Nietzsche; eccone un passo: “Nella morale l’uomo tratta se stesso non come individuo, ma come dividuum”.
Nell’uomo, insomma, convivono due entità, entrambe dotate di amor proprio che lottano fra di loro per affermare il predominio; ogni sentimento (altruismo, pietà, orgoglio, compassione) è la risultante di tale battaglia interiore: fra Jekyll, che scivola sul ghiaccio sottile della coscienza, e Hyde, l’essere ferino che si dibatte nell’oceano sottostante dell’istinto e dell’immediatezza.
[A puro titolo di curiosità: uno dei primi a trattare il dualismo, occupandosi di religione zoroastriana, fu un inglese, l’orientalista Thomas Hyde (1636-1703)]
Lo strano caso si apre con una pagina memorabile: la descrizione del vero protagonista, l’avvocato Utterson. Sobrio, meticoloso, leale, Utterson è uno di quegli inglesi, per dirla con Borges, le cui amicizie “cominciano con l'escludere la confidenza e prestissimo omettono la conversazione”. Utterson è il livello conscio, il decoro, la legge, l’Impero, l’Inghilterra sub specie aeternitatis; a lui è ascritto il compito simbolico, quindi, di contrastare l’anarchia primordiale di Hyde, ovvero il coacervo di tutte quelle forze disgregatrici e cieche che, nel paleoencefalo, accompagnano da sempre l’individuo e minano costantemente l’unità dell’essere e della civiltà.
Dal romanzo furono tratti diversi buoni film; nel 1931 da Rouben Mamoulian; nel 1941 da Victor Fleming (con Spencer Tracy, Lana Turner e Ingrid Bergman); nel 1959 da Jean Renoir.
La migliore trasposizione mi sembra, però, quella italiana, creata per la Rai TV nel 1969. Giorgio Albertazzi è un eccellente Jekyll e un ancor più credibile Hyde: infantile, maligno, teppistico; Massimo Girotti uno strepitoso, impagabile Utterson.

Robert Louis Stevenson
L'avvocato Utterson era un uomo dall'espressione austera, che non si illuminava mai di un sorriso; freddo, parsimonioso e imbarazzato nel parlare; restio a manifestare sentimenti; magro, lungo, opaco e mesto, eppure in qualche modo amabile. Alle riunioni fra amici, e quando il vino era di suo gusto, qualcosa di sinceramente umano si irradiava dal suo sguardo; qualcosa a dire il vero che non riusciva mai a tradursi in parole, ma che si comunicava non solo grazie a quei muti simboli del volto del dopo pranzo, bensì, più spesso ancora e più vivacemente, attraverso le azioni della sua vita.

sabato 23 novembre 2013

Lessico minimo: governo, governare


Franca Rovigatti

Tutto parte da Lisiana, un’assolata mattina che al fresco del tavolo di marmo della sua ombrosa cucina si chiacchierava, e lei mi fa: “Fra’, vo’ giù du’ minutini a governa’ le bestioline”. Le bestioline erano sei vacche nella stalla sotto casa, e governarle significava, come vidi, pulirle e cibarle. Pulirle, igiene, e nutrirle, cibo.
Da quel momento, ed era Maremma ed era l’estate di quindici anni fa, e ora da tempo purtroppo Lisiana è morta, da allora spesso mi sono trovata a pensare a quella accezione di governo, che in sostanza significava prendersi cura. Non avevo mai guardato bene la parola governo, l’avevo sempre percepita solo come significante del significato istituzionale: il governo italiano, il capo del governo, il partito che governa, ecc., e improvvisamente mi ritrovavo a ricordare i gesti di Lisiana con le sue bestie.

Allora, mi veniva in mente il Buon Governo che Ambrogio Lorenzetti, alla fine degli anni trenta del Trecento, aveva squadernato nelle sale del Palazzo Pubblico di Siena: città prospere, campagne coltivate, benessere, ricchezza, armonia. Cittadini puliti e cibati, fervidi e lieti: Buon Governo.

Aspettando i barbari: al Vascello le poesie di Kavafis

Kavafis e i poeti. Lunedì 25 novembre alle 21, presso il Teatro Vascello (via G. Carini 78), si terrà una serata dedicata all'opera di Konstantinos Kavafis, poeta di lingua greca nato e vissuto ad Alessandria d'Egitto. Partecipano Daniela Attanasio, Silvia Bre, Franco Buffoni, Roberto Deidier, Biancamaria Frabotta, Elio Pecora e Dionissis Kapsàlis, Michalis Pierìs. Ingresso libero.

Su Konstantinos Kavafis, ovviamente, si è scritto molto.
D'altra parte la nostra epoca produce parecchio clamore; e tonnellate di carta.
Di Kavafis si è scritto che è un decadente.
Attribuire a un poeta d'inizio Novecento la nomea di decadente significa peccare di tautologia. All'inizio del secolo, un decadente!
Un decadente: ovvio, tutti i poeti sono decadenti. Da almeno cinque secoli. Kavafis decise di esserlo a pieno, un decadente senza retorica, con l'incedere scabro delle epigrafi funerarie, laddove una vita (e la vita di un uomo è sempre un abisso) viene condensata in pochi caratteri consumati su un marmo antico, e la commozione che ce ne deriva, poiché avvertiamo profondo il dileguarsi dell'esistenza nel nulla, si asciuga al sole della ineluttabilità: così è; non possiamo fare altrimenti.
Ed ecco Kavafis esaminare una epigrafe funeraria. Nel mese di Athyr. La poesia, una delle sue migliori, ne racchiude tutto il sentire tragico. Il poeta legge, a fatica, da una lapide:

A fatica leggo sulla vecchia pietra
SIGN(OR)E GESU CRISTO. La parola ANI(M)A distinguo.
NEL ME(SE DI) ATHYR LEUCI(O) SI SP(ENS)E.
Menzionando l'età ...ANNI VIS(SU)TO
Le Kappa e le Zeta dicono che si spense presto
Dove la parte è guasta vedo COSTU(I) ... DI ALESSANDRIA.
Poi vengono tre righe molto mutile, appena posso
Decifrare le parole NOSTRE L(A)CRIME, e DOLORE
E ancora LACRIME e GLI (AM)ICI IN LUTTO.
Questo Leucio a me pare che fu molto amato.
Nel mese di Athyr Leucio si spense.

La buccia in una lingua, la polpa in un'altra

Dal numero 117 della rivista "Lettera internazionale", in arrivo nei prossimi giorni in libreria, anticipiamo un intervento di Sarah Zuhra Lukanić, scrittrice croata da qualche anno residente in Italia.
 
Sarah Zuhra Lukanić *

Leggo. È come una malattia. Leggo tutto ciò che mi capita sottomano, sotto gli occhi: giornali, libri di testo, manifesti, pezzi di carta trovati per strada. ricette di cucina, libri per bambini. Tutto ciò che è a caratteri di stampa.
Agota Kristof, L’Analfabeta, 2005

Bisogna educare. L’uomo ha bisogno di simboli per non perdersi nella miseria quotidiana. Il bagaglio di un immigrato ha sempre un’impronta dolorosa, persino se è lui stesso a scegliere, per amore, di andare via dalla sua terra. Figuriamoci se è costretto a rifugiarsi dalla guerra, dalla carestia, dalla dittatura, dalle persecuzioni, anche da quelle psicologiche. La società odierna, ma anche quella che ci ha preceduto, non ama la diversità come soluzione, come proposta, come equilibrio collettivo.

Ho il vissuto di una che è nata e cresciuta in una terra a cui ho regalato la mia parola d’onore di pionir (1). Sono cresciuta godendo dell’ubriacatura che veniva dai promettenti orizzonti marxisti, tra compagni di banco che tenevano stretta in mano la loro piccola tessera rossa rossa; con quella si sentivano prediletti e membri di un regno inimitabile che era considerato una specie di Svizzera comunista. Adesso ne sono certa: la morte di Tito per sempre avrebbe portato con sé anche la gradita scomparsa del mio paese. Già allora, come soluzione per non essere parte di quel nuovo sistema sciovinista che non condividevo e che mi avrebbe fatto diventare cattiva, avevo in mente l’esilio: cercare altrove un rifugio e una nuova educazione. L’immigrato non ha altra soluzione, deve reinventarsi la vita, comunicare, sensibilizzare alla diversità.

giovedì 21 novembre 2013

Tre poesie sull'autunno (Emily Dickinson)

Emily Dickinson (Amherst, 10 dicembre 1830 - Amherst, 15 maggio 1886) è, di gran lunga, il maggior lirico che la propria terra, gli Stati Uniti d'America, abbiano mai avuto.
La sua vita, che si accese e si spense nella città di Amherst, riassume, una volta per tutte, ad onta dell'inconsistenza biografica, come e perché si forma la creazione poetica più duratura.
 
I. La Solitudine. Emily Dickinson si allontanò raramente dal luogo natio; non conobbe il vorticare della socialità, il fardello della carne e le lusinghe della celebrità che intorbidano la purezza della voce; può affermarsi, con una certa sicurezza, che l'americana intravide la vita esclusivamente dalle trasparenze della finestra della propria camera, al secondo piano della magione di Main Street, in cui si isolò, di fatto, a soli venticinque anni. Ma alla Fama non importa chi si spinge pur lontano sulla faccia della ben rotonda verità: costui rimarrà, nonostante tali febbrili esplorazioni, pur sempre un superficiale, preda o del successo o della moda. La Fama esige che si scavi nel proprio cantuccio, sempre più in profondità, per arrivare al cuore della rivelazione: e questo è ciò che la Dickinson ha compiuto, per tutta la vita, pallida e bianca, esclusa dal clamore, e dal marchio mediocre dell'approvazione. Un viaggio intorno alla propria camera, un minuscolo spazio eletto a cosmo personale, e, quindi, tramite la poesia, a esperienza universale di noi tutti.
Allo stesso modo non occorre leggere troppo, o troppi libri. Occorre leggere bene, e rileggere ancora, sempre meglio. Ci sono grandi poeti devoti a un solo libro, sentiero sicuro alla verità.

Doris Lessing, l'intervista buttata al vento


Un'intervista a uno scrittore famoso può riservare sorprese non sempre gradevoli. Ne sa qualcosa Luciano Minerva (autore di Una vita non basta, al centro di una recente conversazione da Plautilla) che, come potete leggere nel racconto inedito qui sotto, di fronte a Doris Lessing è stato colto da un attacco di panico, decisamente insolito per un giornalista culturale di lunga esperienza come è lui.

Luciano Minerva
Tra le oltre 150 interviste a scrittori di tutto il mondo che ho avuto l’occasione e la fortuna di fare nell’arco di otto anni, una sola mi ha portato a scrivere un racconto: quella con Doris Lessing, al Festivaletteratura di Mantova del 2004, tre anni prima dell’assegnazione del Nobel. E’ un racconto che ho scritto subito, a caldo, nelle tre ore successive, scusandomi con la scrittrice che avrei dovuto intervistare nel pomeriggio e annullando l’appuntamento con lei. Un racconto terapeutico, da post-trauma. Perché l’intervista con Doris Lessing per me è stata un vero trauma, anche se forse dal risultato del video che ne è venuto fuori non appare, perché il suo mestiere di scrittrice e la mia esperienza di intervistatore hanno permesso che qualcosa di discreto e di accettabile, persino interessante, ne venisse comunque fuori. Ma se non avessi scritto questo racconto, guardandomi dall’esterno e prendendomi un po’ in giro, forse non avrei più potuto affrontare nessuno scrittore davanti alle telecamere senza una grande paura. Per lei ero uno di quei mille giornalisti di cui parla in questa stessa intervista. Per me no. E l’ho sempre ringraziata, dentro di me, per avermi offerto quest’occasione e quest’esperienza. Doris Lessing resta e resterà per me una scrittrice unica.
 
La goccia di sudore scende sulla tempia destra, quella rivolta verso il muro, nascosta alla vista di chi mi sta dietro. Ma lei, che mi è di fronte e che da sempre nota ogni dettaglio della realtà che la circonda, la vede di certo. Sono passati tre minuti dall’inizio dell’intervista, mi ero già asciugato poco fa il sudore per la corsa dal centro stampa al mio albergo, dal mio albergo al centro stampa dal centro stampa al suo albergo. Cinque minuti di ritardo sull’appuntamento, troppi per un’intervista per cui te ne hanno concessi quarantacinque comprensivi di presentazioni piacere come sta mi hanno molto colpito le cose che ha scritto le dico un attimo di che programma si tratta eccetera eccetera. Un file dimenticato sul computer, quello con gli appunti per l’intervista, via di corsa verso il computer poi alla stampante poi all’appuntamento. In ritardo. E col fiatone. Avevo provato a fare qualche respiro profondo, ma il rosso del viso non posso mascherarlo. “Non correre! non sudare! Lo vedi che diventi tutto rosso?” Avrei dovuto capirlo già da quando me lo diceva mia madre, con le buone o con le cattive, che non dovevo sudare, a costo di non giocare a pallone. “Quando cominci a sudare devi smettere.” Chissà perché ce l’aveva tanto col sudore e col rosso, e chissà come facevo a lasciare la partita in cortile, a salutare tutti lasciando la squadra con uno in meno, per quanto schiappa fosse. E chissà come ha fatto lei a non sudare mai in una vita fatta tutta di corsa e senza mai perdere un attimo di tempo perché il tempo è denaro e come il denaro va risparmiato fino all’ultima goccia.

mercoledì 20 novembre 2013

William Weaver, ponti di parole attraverso l'Atlantico

m. t. c. 
Calvino, Primo Levi, Moravia, Svevo, Gadda, Elsa Morante, Umberto Eco: per molti anni, anzi per molti decenni, le traduzioni di libri italiani negli Stati Uniti hanno avuto un solo nome, quello di William Weaver, che se n'è andato qualche giorno fa, a novant'anni, dopo avere dedicato la vita a costruire ponti di parole fra i suoi due paesi, gli Usa e l'Italia ("non sono un espatriato, sono un bipatriota", diceva negli anni in cui viveva in Toscana). In Italia era arrivato durante la secona guerra mondiale, come autista di ambulanza, e aveva imparato la lingua sul campo. Un apprendistato che non avrebbe mai smesso di affinare, attento com'era a rendere in inglese le minime sfumature della nostra lingua. Di questo, gli autori da lui tradotti sono stati perfettamente consapevoli, al punto che Umberto Eco, parlando della versione americana del Nome della rosa,  l'ha definita "di gran lunga superiore all'originale".

Per conoscere meglio l'opera di questo "artista della traduzione", può essere utile leggere la bella e lunga intervista che nel 2002 gli ha dedicato la "Paris Review".

Philip Schultz, Per mio padre



Dopo alcuni incontri il Laboratorio di traduzione, che quest'anno ha come oggetto l'opera del poeta americano Philip Schultz, ha messo a punto la versione del primo testo, For My Father, dedicato dall'autore al padre Samuel. La poesia non fa parte della raccolta Failure, che verrà tradotta nel corso dell'anno e per la quale Schultz ha ricevuto il Pulitzer, ma è stata scelta per aprire il ciclo, perché si inserisce bene nell'ambito tematico, il rapporto tra genitori  e figli, che già dalle scorse stagioni rappresenta il filo conduttore del laboratorio.

Una nota della coordinatrice del gruppo, Fiorenza Mormile:
Il primo testo tradotto che presentiamo è For My Father, non compreso nella raccolta Failure, ma propedeutico alla comprensione del suo nucleo tematico: il rapporto del poeta Philip col padre Samuel perso all’età di quindici anni. L’intreccio di amore appassionato e cupo risentimento informa l’intricato nodo affettivo che tutta la raccolta s’impegna a dipanare. Questo testo è una prima chiave di accesso: l’infarto del padre è prevedibile esito di un protratto spendersi al limite delle proprie forze nel vano inseguimento del sogno americano del successo. 

Ed ecco il testo italiano e di seguito l'originale inglese:
Per mio padre
Samuel Schultz, 1903-1963
La primavera andavamo nel caldo dei lillà
& i suoi occhi neri diventavano grandi come cipolle & il labbro
gli pendeva come un parabordo & lui mi strofinava sulla guancia il mento ispido
& raccontava storie: la prima volta aveva visto l'America dalle braccia del padre
& il padre diceva che qui poteva avere tutto se lo voleva
con tutto se stesso & lui faceva il sapone nel cortile di casa e lo vendeva di porta in porta
& inventava mollette da bucato a forma di dita & accendini
che suonavano Stelle e strisce quando scattava l'apertura.

martedì 19 novembre 2013

Masterpiece talent show. Anticipazione della seconda puntata

Aspasia Del Balzo

Ha preso via, lo scorso 17 novembre, in seconda serata su RAI 3, sotto gli entusiasti auspici dell'entusiasta direttore di rete Andrea Vianello, il nuovo talent show per aspiranti scrittori: Masterpiece. Giudici insindacabili della contesa letteraria gli eminenti e affermati Giancarlo De Cataldo, Taiye Selasi e Andrea De Carlo. Signora dell'evento: Elisabetta Sgarbi, guida editoriale della Bompiani. Lo scritto vincitore verrà pubblicato, infatti, in centomila copie, proprio dalla benemerita casa milanese.
Possiamo anticiparVi, con orgoglio misto a compiacimento, chi sono i concorrenti e gli scritti in gara nella seconda (e ultima) puntata. Eccoli, in ordine di classifica:

12. Gadda, Carlo Emilio. Quer pasticciaccio brutto de Via Merulana. Ultimo classificato. Il candidato ha presentato una prosa collosa, frantumata, biliosa, che la Selasi, per prima, ha drasticamente ridimensionato: "Indigeribile". E De Cataldo, a rincaro: "La semplicità, la semplicità ... e quando si scrive un giallo, caro signore, occorre evidenziare l'assassino. Smettiamola con questa cripticità da snob. Non facciamoci riconoscere. Di Dürrenmatt ne basta e avanza uno". Share alle stelle, comunque, per la furibonda litigata del concorrente con Elisabetta Sgarbi. Cistifellico.

11. Seneca, Lucio Anneo. La brevità della vita. Scostante e altero, il maturo e accigliato aspirante ha fatto poco per suscitare simpatia nella pur indulgente giuria. De Cataldo ha stigmatizzato nell'opera l'insistita sentenziosità e l'incedere sdegnoso. De Carlo la mancanza di un personaggio femminile. "E poi la tira per le lunghe con 'sta storia. Portasse jella ..." ha bofonchiato il Nostro, fuori onda. Moralista degli stivali.

lunedì 18 novembre 2013

"Allor che i giorni ...". Una poesia dell'amor di lontano

Di Jaufre Rudel (1125? - 1148), sappiamo pochissimo. Di lui rimangono solo sei componimenti. Sei. Nonostante tale scarno raccolto, l’opera e la vita di Jaufre Rudel, nativo di Blaye, nell’Aquitania, Francia meridionale della costa atlantica, hanno commosso i cuori e le menti di decine di poeti. Perché? La risposta è semplice: egli visse quando uomini, sentimenti e azioni possedevano ancora i contorni favolosi e liquidi necessari alla creazione del bello. Dell’uomo Rudel sappiamo quasi nulla, come detto; il suo ricordo sopravvive, però, in una vida, biografia anonima in prosa occitanica (propria della Francia meridionale del tempo), che precedeva la compilazione delle sei liriche. E fu la breve vida, redatta circa un secolo dopo, a tramandarne la figura: non già dell’uomo Rudel, che non conosceremo mai, ma del Rudel eterno, stilizzato come in quelle miniature medioevali in cui i colori (oro, azzurro, rosso) delineano una vicenda simbolica, sospesa, ineluttabile. Eccola:

“Jaufre Rudel di Blaia fu persona assai nobile, principe di Blaia. E s'innamorò della contessa di Tripoli, senza averla vista, per il bene che ne udì dire dai pellegrini che venivano da Antiochia. E scrisse su di lei parecchie poesie con bella musica e semplici parole. E per il desiderio di vederla, si fece crociato prendendo il mare, e sulla nave fu colto da malattia e condotto in un albergo a Tripoli come morto. E lo si fece sapere alla contessa, ed ella si recò da lui, al suo capezzale, e lo strinse fra le braccia. E quando egli seppe che era la contessa, recuperò subito l'udito e il respiro, lodando Iddio per averlo tenuto in vita finché l'avesse vista: e così morì fra le braccia di lei. Ed ella lo fece seppellire con grande onore nella casa del Tempio; e poi, in quello stesso giorno, si fece monaca a causa del dolore che ebbe dalla morte di lui”.


Il museo all'aperto di Fausto Delle Chiaie


FILM: Dario Acocella "Ho fatto una barca di soldi", mAXXI, 9 novembre.
MOSTRA: Fuori luogo. Via del Cappellari e dintorni, 12-19 novembre.

Brunella Antomarini
"Qua c'è tutto, il concettuale, la transavanguardia, il dadaismo, il surrealismo, il cubismo...", Fausto delle Chiaie, nel bel film-documentario che gli ha dedicato Dario Acocella (e proiettato al Maxxi il 9 novembre), descrive il suo museo all'aperto. Lo ha aperto tanti anni fa, ma non dice quanti, perché non vuol dire l'età, lungo la strada che costeggia l'Ara Pacis, ora protetta dall'opera di Richard Meyer. Sono tanti anni che ogni giorno lo raggiunge in treno e lo 'apre' anche se è all'aperto. Da quando, da giovane, si accorge, dice, di vivere in una città-museo e allora si prende la sua parte di museo, occupa con naturalezza il suo territorio.
Lo racconta con lo humor gentile e affettuoso che è sempre nei suoi modi e che si trova poi anche nelle opere. Ogni pomeriggio le espone appese alla grata che separa la strada dal mausoleo di Augusto, o le appoggia al muretto che sostiene la grata. Si tratta di quadri a pennarello o tempera su legno, con diverse misure, o di composizioni 'concettuali' di diversi materiali, tutti descritti da titoli che li definiscono secondo le categorie della storia dell'arte, e con commenti umoristici. Per esempio ci sono dei Narcisi: facce dipinte su sassi immersi in scodelle d'acqua; oppure dei Modigliani di profilo, in stile cubista. C'è un'opera 'concettuale' di un'icona incorniciata di Cristo e vicino il titolo: in vendita per 30 denari. Per terra disegnato col gesso c'è una silhouette lunga una decina di metri che ricorda vagamente Keith Haring e che si chiama KappaO: Fausto conta fino a 10 infatti ma quello non si alza.