immenso
ovvero: dell'assoluta ovvietà
della sconfitta
della cosa vera e scritta, la
quieta attitudine
al disastro che contraddistingue,
l'intreccio
che non tange tanto ne scorgi la
necessità
l'essere qua di un qualche là ma,
sia chiaro,
non oltre, si tratta pur sempre –
dici – di
roba che immane, roba attinente al
mostro
mondo infame arso d'armonia (e chi
la porta
via non può essere che il
resto l'altro il sempre
mesto contesto cui dare uno
straccio di colpa
cui dire alla fine la solita solfa
che tanto c'è
un terzo additato al misfatto
c'è un fuori
a fare innocenza a farci le veci se
ancora
ci resta lo stile spietato del no
non lo penso
se un poco di grazia s'è spento
l'immenso
(poi ecco – quasi distratta
– la fitta, la torcibudella che canta:
si basta, si passa, si lascia si
affonda nel nulla nel sotto
del nero e manco un pietruzzo manco
una traccia
Francesca Fiorletta
La
scrittura poetica di Fabio Donalisio serba in sé una qualche
attitudine al disastro, tutt'affatto quieta.
Si percepisce in ogni sillaba convessa, limata all'osso, giocata al
netto dell'esperienza, il continuo ribollire del sangue, appena sotto
la patina lucida di un raziocinio puntuale e perfettamente calato
nell'analisi del nostro tempo presente. Un tempo che è già quello
delle scritture in fuga, il tempo in cui esistere per accumulo
di evidenza è vizio diffuso e che proprio in questa ridondante
vacuità, contraltare di una pienezza estetica e critica che vorrebbe
ormai darsi sopita, si rivela portatore di inefficaci strategie di
sopravvivenza, sia sul versante letterario che per quanto concerne
l'aspetto più strettamente umano. Si cercano allora punti di fuga
altri, lontanissimi, spesso fuorvianti (c'è un fuori a fare
innocenza), si gioca col suono e con l'immagine delle parole
(la torcibudella che canta), si tentano giustificazioni
plausibili a futura memoria. Molto interessante è la perpetua e
fiancheggiante, non speculare ma per forza di cose endemica
consonanza tra vita e scrittua, che occupa un ruolo centrale nella
continua stratificazione e scomposizione che Fabio Donalisio opera
sui suoi testi.
Fabio,
ci spieghi qual è per te l'assoluta ovvietà della sconfitta
della lingua odierna?
La
sconfitta, prima di tutto (nel senso che è il punto di originalità
del tutto), è ancipite: dilaga nel e dall'esistente, e implode poi
(nel mentre) nella lingua che di quell'esistente è protasi, ipotesi
e apodosi. La sconfitta è la condizione ideale e reale della lingua,
il suo grado zero, la sua ovvietà. E, bada, lo dico colmo di gioia,
quasi selvaggia (virgoletto, che dopo Bolaño non si sa mai),
riottosa. La sconfitta è il punto di partenza, il sentimento dello
iato. La consapevolezza dell'artificio (miracolo?) del dire. A casa
mia dicono: chi le cose le fa, le fa, e non le dice. Chi le dice, non
le fa.