“Da quella volta non era più stato solo: almeno sulla
strada. La Nazionale infatti era piena di fratelli e di compagni, che
lavoravano ogni giorno in fitta schiera sulla sua stessa tratta. Per ciascuno
di loro provava un affetto sincero, che di sicuro non veniva dal sangue. Alcuni
li conosceva solo per nome, altri per soprannome, altri ancora non li aveva mai
visti ma li sentiva tutti ugualmente vicini: dei cugini buoni, dei fratelli
carnali.”
Paolo Teobaldi, Macadàm, edizioni e/o
Le case cantoniere per chi è nato alla fine degli anni 80,
come me, sono quegli edifici in disuso che si affacciano sulle strade, spesso
con i vetri i frantumi, le mura color mattone scrostate e le erbacce a fare da
decoro. Sorgono sui rettilinei o agli incroci, fredde e agghiaccianti,
disabitate e funeree, in alcuni rari casi colonizzate da inquilini abusivi che
contro le recinzioni hanno piazzato reti da letto e canne di bambù. Fantasmi
rossastri e muti, a volte impietosamente coperti di scritte, altre volte
derubati delle proprie targhe, che per lo meno ne ricordavano l’antica
funzione. La casa cantoniera fa parte di quel passato prossimo, trascorso un
attimo fa ma già obsoleto, insieme al carosello, alle diapositive, alla
macchina per scrivere e agli ossi di seppia.