martedì 3 settembre 2013

De le più ricche terre di Levante, e meglio ornate, si dice esser Damasco

Alceste

La Siria e Damasco in alcuni classici italiani.
Per stimolare una minuscola riflessione sul conflitto imminente; l'ennesima guerra contro le terre del passato (Iraq, Afghanistan, Egitto; e poi Iran, Grecia, Italia; e poi, chissà, Cina, Russia ...), per cancellare definitivamente la storia e vivere un eterno presente.
Ma si può vivere un eterno presente? In Blade runner, di Ridley Scott, il film ripreso da un romanzo di Philip K. Dick, gli ingegneri cibernetici sono costretti ad inserire ricordi artificiali nei replicanti Nexus 6; per non farli impazzire. Il passato è indispensabile. E le terre del passato che, curiosamente, coincidono con un asse del male inventato dai signori del mondo, vanno difese. 
Perché il passato non insegna nulla sulla vita, ma la rende tollerabile e, forse, desiderabile.

Ludovico Ariosto

dall'Orlando Furioso, canto XVII, 18-21

De le più ricche terre di Levante,
de le più populose e meglio ornate
si dice esser Damasco, che distante
siede a Ierusalem sette giornate,
in un piano fruttifero e abondante,
non men giocondo il verno, che l'estate.
A questa terra il primo raggio tolle
de la nascente aurora un vicin colle.

Per la città duo fiumi cristallini
vanno inaffiando per diversi rivi
un numero infinito di giardini,
non mai di fior, non mai di fronde privi.
Dicesi ancor, che macinar molini
potrian far l'acque lanfe (1) che son quivi;
e chi va per le vie vi sente, fuore
di tutte quelle case, uscire odore.

Tutta coperta è la strada maestra
di panni di diversi color lieti;
e d'odorifera erba, e di silvestra
fronda la terra e tutte le pareti.
Adorna era ogni porta, ogni finestra
di finissimi drappi e di tapeti,
ma più di belle e ben ornate donne
di ricche gemme e di superbe gonne.

Vedeasi celebrar dentr'alle porte,
in molti lochi, solazzevol balli;
il popul, per le vie, di miglior sorte
maneggiar ben guarniti e bei cavalli:
facea più bel veder la ricca corte
de' signor, de' baroni e de' vasalli,
con ciò che d'India e d'eritree maremme
di perle aver si può, d'oro e di gemme

(1) nanfa (o lanfa) agg. f. [dall’arabo nafḥa «odore, profumo»], ant. – Nell’espressione acqua n. (anche in una sola parola: acquananfa o acqualanfa), acqua profumata estratta per distillazione dai fiori di arancio: "oricanni d’ariento bellissimi e pieni ... qual d’acqua di fiori di gelsomino e qual d’acqua nanfa" (Boccaccio).


Matteo Maria Boiardo

dall'Orlando Innamorato, III, 23

Partiti da la fata del castello,
Ove l'arme di Ettòr già star suoleano,
Sorìa, Damasco e quel paese bello
Senza travaglia già passato aveano.

Torquato Tasso

Da La Gerusalemme Liberata, IV, 43

Figlia i' son d'Arbilan, che 'l regno tenne
del bel Damasco e in minor sorte nacque

Da La Gerusalemme Liberata, XV, 15

E 'n un momento incontra Raffia arriva,
città la qual in Siria appar primiera
a chi d'Egitto move; indi a la riva
sterilissima vien di Rinocera.


Anonimo

Come uno figliuolo d'uno re donò un re di Siria scacciato

da Il Novellino (tradotto in italiano corrente)

Un signore della Grecia, (un re che si chiamava Aulix e che dominava un regno molto grande), aveva un figlio adolescente al quale aveva fatto impartire una completa educazione delle sette arti liberali, cioè dalla grammatica-retorica-dialettica del livello elementare al gruppo aritmetica-musica-geometria-astronomia del grado superiore, e in più gli faceva insegnare la vita morale, ovvero i bei costumi.
Un giorno questo re prese una gran quantità di oro e lo diede a suo figlio dicendo:
"Spendilo come piace a te".
Ma ordinò ai cortigiani e baroni che nessuno gli insegnasse come spenderlo e che tutti tenessero il ragazzo sott’occhio per osservare come si sarebbe comportato.
Un giorno, i cortigiani e baroni che seguivano il giovane da vicino stavano con lui alle finestre del palazzo. Il ragazzo, che se ne stava tutto pensieroso, vide passare per strada un gruppo di persone molto nobili, a giudicare dall’equipaggiamento e dall’aspetto. La strada correva proprio accanto al palazzo. Il giovane ordinò che tutta quella gente fosse portata davanti a lui. Detto fatto: i camminatori comparvero davanti al giovane. Uno, che aveva il cuore più ardito e la faccia più tranquilla, si fece avanti e domandò:
"Cos’è che vuole, signore?".
"Voglio sapere da dove vieni e di che condizione sei" rispose il giovane.
"Sono italiano" replicò quest’uomo "e sono un commerciante molto ricco, signore. E la ricchezza che ho io, non me l’ha lasciata in eredità nessuno: è tutta olio di gomito mio, cioè - voglio dire, signore - l’ho guadagnata con la mia propria sollecitudine".
Il giovane si rivolse al prossimo uomo, una persona d’aspetto nobile che aveva una faccia timorosa e stava più indietro che l’altro. Non così arditamente disse:
"Cosa mi vuole domandare, signore?" chiese l’uomo.
"Ti domando da dove vieni e di che condizione" rispose il giovane.
E questo disse:
"Vengo dalla Siria e sono un re: e ho sì saputo fare che i miei sudditi mi hanno cacciato via".
Poi il giovane prese tutti i soldi e li regalò a questo detronizzato.
La notizia di questo corse in bocca in bocca per tutto il palazzo. I baroni e cavalieri e cortigiani tutti si parlavano, e tutta la corte suonava della dispensazione di questi soldi. Al padre furono raccontate tutte queste cose, e come suo figlio aveva dispensato tutto quell’oro, e tutte le sue domande e tutte le risposte, senza trascurare le virgole.
Il re, in presenza di molti baroni, cominciò a parlare al suo figlio e disse:
"Con quale criterio hai dispensato i soldi? Quale idea ti ha fatto agire così? Come ci spieghi il fatto che non hai dato niente a chi, per sua propria virtù, ha guadagnato molto, dimostrandosi capace e saggio, e che tu hai invece regalato tutto a chi ha perso il suo regno per la propria colpa e follia?".
Il giovane saggio rispose:
"Signor padre mio, io non faccio regali a chi non mi insegna niente: e non ho fatto nessun regalo. Quel che ho fatto era una remunerazione, non un dono. Il mercante non mi ha insegnato niente, quindi non gli dovevo niente; ma da quell’altro, uno della mia stessa condizione, figlio di un re che portava corona di re, un uomo che per la sua follia è stato cacciato vai dai suoi sudditi… da lui ho imparato così tanto che i sudditi miei non cacceranno mai me. Ecco perché il dono che gli ho dato è piccolissimo, in confronto a una lezione così ricca".
Ascoltando la sentenza del giovane, suo padre e i suoi baroni lo lodarono di grande sapienza, dicendo che dimostrò grande speranza nella sua giovinezza e che nei anni maturi lui sarebbe uomo di grande valore.
Tante lettere corsero per i paesi a signori e baroni; e ne furono grandi disputazioni tra i saggi.

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