Dopo la bella recensione di Fabio Pedone, proponiamo un'altra lettura di Città aperta di Teju Cole, tratta dal numero 32 della rivista "Alfabeta2", che arriva in questi giorni nelle edicole e nelle librerie e che contiene tra l'altro un focus sull'editoria indipendente e un racconto inedito dello scrittore argentino Copi.
Teju Cole
Città
aperta
traduzione
di Gioia Guerzoni
Einaudi,
2013, 270 pp., € 17,50
Maria Teresa Carbone
Come un
sofisticato Pollicino della letteratura, Teju Cole dissemina nel suo
romanzo d’esordio Città aperta, a mo’ di luccicanti
pietruzze bianche, diversi indizi, piccole frasi o riferimenti che
aiutano il lettore a orientarsi in questo testo denso e affascinante,
dove racconti e citazioni, riflessioni e rimandi si susseguono
ininterrotti. Tanto più utile dunque che, in una delle primissime
pagine del libro, l’io narrante spieghi di avere appreso da un
docente molto amato «l’abilità di costruire una storia partendo
dalle omissioni».
A parlare
è il protagonista del romanzo, Julius, specializzando in
psichiatria, figlio di padre nigeriano e di madre
tedesca, trapiantato da anni a New York e appassionato flâneur,
che rievoca quello che gli è accaduto negli ultimi mesi (il libro è
ambientato fra il 2006 e il 2007): le lunghe passeggiate per
Manhattan, la ricerca quasi volutamente vana della nonna materna a
Bruxelles, il ritorno a New York. Ma potrebbe benissimo essere Teju
Cole, nigeriano statunitense, fotografo e storico dell’arte,
esperto di pittura olandese del XVI secolo, che proprio intorno alle
ellissi e alle omissioni fonda il suo libro.
Lo stesso
Julius non viene mai mostrato in piena luce, dal momento che –
sembra dire lo scrittore – a dispetto dei nostri sforzi nessuno
riesce a conoscersi per intero («a un certo livello ciascuno di
noi... deve immaginare che lo spazio della sua mente... non può
essergli interamente opaco» osserva il personaggio, sottintendendo
l’illusorietà di questa idea).
E sulle assenze del nostro
presente, su quello che non vediamo (taciuto o dimenticato) e che
tuttavia continua a proiettare la sua ombra su di noi, punta Cole il
suo radar. Sono ovviamente, nell’America degli anni Zero, gli
spettri delle Twin Towers e del conflitto iracheno, lontano e già
pronto a essere sostituito da nuovi scenari di guerra; ma sono anche,
per l’africano Cole, le tracce di stermini antichi e recenti (il
cimitero degli schiavi i cui resti riaffiorano a pochi passi dai
grattacieli di Wall Street, i ragazzi ruandesi che ballano in un
locale di Bruxelles e appaiono sereni a dispetto del genocidio alle
loro spalle) o semplicemente la scoperta tardiva della morte di una
vicina, proprio al di là della parete di casa.
«Non ti
accorgi mai dell’ossigeno finché non finisce», dice a Julius uno
dei tanti messaggeri di vita, se non di verità, che l’uomo
incontra lungo i suoi percorsi. Molti gli raccontano storie, alcuni
gli scaraventano addosso ossessioni e aggressività, con altri (in
particolare il marocchino Farouq, dotto e disilluso impiegato di un
internet café belga) intavola discussioni di politica e filosofia
alla luce delle comuni letture, da Foucault a Serres a Chomsky. «È,
questo, uno dei rari libri contemporanei, dove la teoria critica e
letteraria non sia oggetto di satira o pretesto per sfoggiare la
cultura dell’autore, ma faccia parte del contesto di una persona»,
ha scritto sul «New Yorker» James Wood, fra i più convinti
sostenitori di un libro che ha avuto notevole successo negli Stati
Uniti e nei vari paesi in cui è stato tradotto, e che è stato
paragonato con insistenza a Austerlitz di Sebald, sicuro
modello di Cole. E tuttavia l’accostamento, per quanto fondato, non
mette in risalto forse l’elemento più interessante del romanzo: la
sua tecnica agglutinante, che giustappone i materiali e solo poco
alla volta lascia intravedere un tessuto coerente. Autore di tweets
fulminanti e sarcastici, Cole ha dichiarato di avere costruito Open
City per un lettore lento, pronto a riprendere in mano il libro
appena finito, per cogliere gli indizi sfuggiti nella prima lettura.
Segnale, se non altro, di una sicurezza di sé che pochi scrittori
hanno di questi tempi.
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