Sabato 5 ottobre nel Salone degli affreschi del Dsm (via Colautti 28-30) si terrà l'incontro iniziale del gruppo di lettura 2013-2014 dedicato quest'anno al tema dei sensi. Primo libro condiviso, proposto da molti partecipanti, Cecità di José Saramago (in originale Ensaio sobre a Cegueira, "Saggio sulla cecità") . Pubblichiamo qui alcuni stralci di una intervista che lo scrittore portoghese, scomparso nel giugno 2010, ha rilasciato a Irina Bajini nel 1996, quando il romanzo è uscito in Italia, e che è stata pubblicata sul "manifesto" il 13 luglio di quell'anno.
Mentre
in tutti i suoi romanzi precedenti c'è il Portogallo di Lisbona o
della campagna, e compaiono personaggi dalla precisa identità e dai
caratteri ben definiti, "Cecità" è ambientato in una
città anonima e coloro che vi si muovono non hanno un nome. Come
mai?
Questa
scelta deriva dal fatto che il mio libro affronta un problema
universale: quello del comportamento razionale o irrazionale
dell'uomo. Se il fine della ragione è quello di conservare la vita,
allora l'umanità oggi sta andando - razionalmente - contro la sua
stessa ragione. Ho caratterizzato i personaggi non attraverso grandi
scavi psicologici, ma soprattutto attraverso le loro azioni, anche
perché la situazione limite che si trovano a vivere impone loro di
lottare in primo luogo per la sopravvivenza.
Nel
romanzo, la cecità - che è insieme reale e metaforica - colpisce
tutti all'infuori di una donna, la moglie dell'oculista. Questo
personaggio fa subito pensare alla Blimunda del "Memoriale del
convento", che a digiuno riesce a leggere i pensieri e a
"vedere" l'anima della gente. E' casuale che anche questa
volta si attribuisca a un essere di sesso femminile la possibilità
di "andare al di là"?
Era
inevitabile che consegnassi questa capacità a una donna. Io dico
sempre che la moglie del medico è la gemella di Blimunda: nel suo
caso era presente un elemento magico, nella moglie dell'oculista no.
Il personaggio conserva la vista, ma l'autore non sa perché:
possiamo ipotizzare che sia per un atto d'amore che le ha suggerito
di fingersi cieca per seguire il marito. Oppure che allo scrittore
questa non cecità venga molto utile, perché in un certo senso gli
occhi della donna sono quelli di cui l'autore aveva bisogno per
narrare. Ma in verità la storia si sarebbe potuta raccontare anche
se tutti i personaggi fossero stati ciechi.
Verso
la fine del romanzo incontriamo il personaggio di uno scrittore che,
nonostante il "mal bianco", non ha mai smesso di annotare
ciò che succede. Come va interpretata questa figura all'interno
della più generale allegoria del libro e in relazione alla donna?
E'
un personaggio che scrive inutilmente, perché scrivere senza potere
leggere ciò che si produce e senza che altri possano farlo è
completamente assurdo. Eppure lo scrittore continua a lavorare,
perchè si sente in obbligo di registrare la vita, quella che conosce
e anche quella che gli altri gli raccontano. E' importante che si
incontri con la moglie del medico, che oltre a vedere è in grado di
sentire l'orrore di tutto ciò che le sta attorno, e dunque
rappresenta quel che resta dell'umanità. E' lei a mantenere una
fiammella di solidarietà, la possibilità di sentirsi davvero umani.
Dopo
tanto dolore e tanta disperazione, il libro finisce con un barlume di
speranza: la malattia, senza apparente motivo, scompare. Perché il
"mal bianco" abbandona gli uomini?
La
cecità scompare perché non era mai stata una vera cecità. I
personaggi hanno vissuto un'esperienza in cui l'uso irrazionale della
ragione li ha condotti ad estremi di violenza e di crudeltà, simili
a quelli che oggi vediamo e viviamo in tutto il mondo. Il mio romanzo
rispecchia l'orrore contemporaneo, non è più duro delle realtà che
ci circonda. Resta da chiedersi - perché nel libro non lo racconto -
se l'esperienza vissuta dai miei personaggi li abbia o no cambiati.
Io sono abbastanza scettico, perché credo che gli esseri umani non
imparino nulla dalle esperienze che fanno. Il medico del romanzo alla
fine ipotizza che la gente, in realtà, sia sempre stata cieca.
Nominando, con ciò, qualcosa di simile a quel che ci accade oggi:
non vediamo chi ci sta attorno, non siamo in grado di occuparci delle
relazioni con gli altri esseri umani.
C'è
una qualche nesso tra il pessimismo da lei espresso nei confronti
della situazione odierna e la scelta di andare a vivere in un'isola
in mezzo all'oceano, una "zattera di pietra" alquanto
simile a quella del suo romanzo?
Sono
andato a vivere a Lanzarote nel 1993, dopo che il governo portoghese,
ritenendo che il mio Vangelo secondo Gesù offendesse la
coscienza dei cattolici, non mi permise di partecipare al "premio
letterario europeo" indetto dalla Cee. Ho ritenuto assurdo e
inaccettabile che nel mio paese si esercitasse, in tempi di
democrazia, un atto di censura contro un libro rispettoso della
figura di Cristo, che avevo voluto vedere come uomo. La scelta delle
Canarie è dipesa da questioni familiari, ma forse in qualche modo
avevo avuto una premonizione: quando nel 1986 pubblicai La zattera
di pietra non avrei mai pensato che alcuni anni dopo mi sarei
trovato a vivere proprio su una simile superficie in mezzo al mare.
Nella mia vita, del resto, molte cose importanti, come la fortuna
letteraria, mi sono arrivate indipendentemente da una ponderata
programmazione, per circostanze fortuite, o addirittura negative...
Lei
è anche autore di una cantata e dei testi di due opere - "Blimunda"
e "Divara" - scritte per il compositore italiano Azio
Corghi. Considera casuale e fortuita anche la sua esperienza di
librettista?
In
un certo senso sì, benché sia sempre stato un grande appassionato
di opera lirica. Il fatto è che Azio Corghi un giorno mi scrisse
dicendomi di aver letto e apprezzato il Memoriale del convento
e mi chiese di farne un libretto. Sulle prime non gli credetti,
pensavo che mi prendesse in giro, ma alla seconda lettera compresi
che faceva sul serio. Poi è venuta Divara, opera
commissionata dal teatro d'opera di Münster, per la quale ho scritto
un libretto originale, questa volta senza più dubbi. Insomma, il
caso ha permesso che io potessi unire al mio vecchio amore per il
melodramma il piacere di contribuire in prima persona alla creazione
di nuove opere: io e Azio Corghi lavoriamo molto bene insieme, perché
tra le altre cose abbiamo una visione abbastanza simile del mondo.
Nelle
due opere di Corghi-Saramago il coro, cioè il popolo, ha una
funzione, musicale e drammatica, molto importante, così come ce
l'hanno i morti, spesso più vivi dei vivi, perché depositari del
ricordo e della storia. Nel suo romanzo "Cecità", però,
manca un popolo "positivo": è una assenza legata
all'assenza della memoria?
Sì.
Nel Memoriale del convento e in Divara la memoria vive,
mentre in Cecità la memoria rischia di non sopravvivere,
perché chi è morto è morto, e chi sta morendo è solo carne che
soffre. Se la ragione sparisce non ha spazio neppure il ricordo, non
trovano luogo né i morti (che non si sa dove seppellire) né i vivi.
E tutto questo trova qualche coincidenza con quel fenomeno oggi molto
diffuso che è la perdita della memoria collettiva. Il passato non
interessa, interessa soltanto l'oggi. Nello scrivere il mio ultimo
romanzo, affrontando il problema della fine dell'umanità, ho dovuto
fare un grande sforzo per abbandonare il legame con il tempo, in me
molto forte.
Dopo
un libro così disperato, in cui si arriva a dubitare della
possibilità di una memoria collettiva, quali sono le prospettive del
Saramago narratore?
Non
ho mai smesso di credere in questa possibilità: però ritenevo
doveroso scrivere a proposito del pericolo reale rappresentato
dall'oblio. Continuo a credere nella memoria, infatti il nuovo
romanzo che sto scrivendo - il cui titolo sarà Il libro delle
tentazioni - è proprio sui miei ricordi di ragazzo. Sento un
assoluto bisogno di recuperare il mio io bambino e adolescente, di
ritornare al principio della mia vita.
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