Si
dice spesso che la vita è come il teatro o che il teatro è come la
vita. Si dice spesso che Napoli è un palcoscenico e che i suoi
abitanti sono tutti attori. A Napoli molta gente che conosco ripete
spesso: “ Passare una giornata con la mia famiglia.. è proprio
come stare a teatro!”
La
famiglia in cui sono cresciuta io, non era di quel tipo.
Erano
tutte persone riservate e poco inclini a mostrare i loro sentimenti.
A volte penso che sono cresciuta nell’unica famiglia di Napoli in
cui non sembrava per niente di stare a teatro.
Tuttavia
c’era un luogo dove ogni giorno, dai sei fino a dieci anni, mi è
capitato di assistere a uno straordinario spettacolo. Il teatro era
la mia classe delle elementari e il mio banco era il mio posto in
platea. La prima attrice era senza dubbio la nostra insegnante, la
signorina Ada Scrocco.
Si
dice spesso che i napoletani hanno il teatro nel sangue. Tuttavia
lo spettacolo che la signorina Scrocco rappresentava, pur essendo
recitato in dialetto napoletano, non aveva niente di Scarpetta, Di
Giacomo o Totò. Era piuttosto qualcosa di mezzo fra il teatro
dell’assurdo di Ionesco e il teatro della crudeltà di Artaud. Non
credo che la signorina Scrocco conoscesse questi autori, ma a loro
sarebbe sicuramente piaciuta.
Ricordo
ancora perfettamente la prima volta che vidi la mia insegnante che
d’ora in poi chiamerò “la Scrocco” come l’abbiamo sempre
chiamata.
Io
e mia madre bussammo alla porta di quella che l’anno seguente
sarebbe stata la mia classe . Una bambina con il grembiule nero ed
un vistoso fiocco ci venne ad aprire. La Scrocco rimase seduta alla
cattedra mentre ci avvicinavamo, io, leggermente intimorita. Era una
donna magra, anzi ossuta, con capelli nerissimi, occhi neri
mobilissimi, la bocca segnata da rughe dipinta con un rossetto rosso
vermiglio, le mani con le unghie rosse ricoperte di vene sporgenti.
Da lei emanava un profumo eccessivo. Fece un cenno a una bambina
con le treccine che si trovava in castigo, faccia al muro, dietro la
lavagna e la mandò a posto. Non so se mia madre l’abbia notata, ma
io ne fui colpita. Provai un moto di simpatia.
Mi
sentivo anche leggermente in colpa perché avevo i sandaletti e un
vestitino leggero, faceva caldo e io ero stata tutta la mattina a
giocare in Villa comunale, mentre quelle bambine con i loro grembiuli
neri sembravano accaldate e stanche.
Mia
madre cominciò a discorrere con la maestra. Parlavano di me ma non
era previsto che io dicessi niente. Mia madre infatti mi teneva per
mano e quando voleva che io parlassi bastava che mi facesse una
pressione più forte sul palmo; per il resto io sapevo che avrei
dovuto tacere. Rimasi perciò zitta, facendo al massimo dei cenni e
lasciando che lei, come al solito, rispondesse al mio posto quasi
fosse lo spettacolo di un ventriloquo. Ricordo anche che ad un certo
punto, la Scrocco si rivolse alle bambine in nero e fiocco che mi
guardavano compunte e chiese. “La volete questa bella bambina per
compagna l’anno venturo?” Naturalmente risposero in coro di sì e
dopo poco prendemmo congedo.
Questa
fu la mia ammissione in quella scuola. Non si trattava di una scuola
privata ma di una normalissima scuola pubblica. Io non avevo potuto
frequentare la prima per legge perché, non avendo ancora compiuto
sei anni, ero troppo piccola, quindi a sei anni in punto venni
iscritta direttamente in seconda elementare. Il motivo di quella
visita alla Scrocco mi è rimasto misterioso. Quello che però so, è
che il rapporto fra famiglie e insegnanti negli anni Cinquanta, era
molto diverso da com’è oggi. Oggi le famiglie tendono a proteggere
i figlioletti e a protestare contro le insegnanti per qualsiasi,
presunta o microscopica, ingiustizia subita. Allora invece
l’insegnante era un’autorità, le famiglie non si sognavano di
mettere in discussione i metodi educativi scolastici e alla fine
dell’anno facevano alle maestre dei ricchi regali per
ingraziarsele. Tutte le mamme delle alunne più benestanti si
riunivano e regalavano una volta un frigorifero, un’altra il
televisore (che aveva appena fatto la sua comparsa nelle case della
borghesia italiana) oppure un oggetto d’oro. In classe di mio
fratello, c’erano quaranta bambini quasi tutti di famiglie più che
benestanti. L’insegnante incedeva carica di tanti di quei gioielli
regalati dalle famiglie degli alunni, che pareva una Madonna in
processione.
La
Scrocco aveva fama di insegnante severa ma molto brava. Nessuno però
conosceva le sue arti di teatrante. Nessuno sapeva che quella donna,
che chissà per quale motivo aveva scelto di fare la maestra
elementare, non provava il più vago senso di maternità e non era
capace di nessuna tenerezza verso i bambini. Anzi ho l’impressione
che lei ci considerasse delle adulte, ci parlasse come se fossimo
delle sue pari.
Guardo
la foto di classe della IV elementare. Ricordo tutte le mie compagne
per nome ma di molte ricordo anche il soprannome che la Scrocco le
aveva affibbiato.
Ecco
quella che veniva chiamata “Musso ‘e vecchia” (muso di
vecchia) perchè le labbra sottili la facevano sembrare una
vecchietta, quest’altra detta “Musso ‘e puorco” (muso di
porco) per le sue labbra grosse, “Musso ‘e coniglio” questa
con i denti sporgenti, “Mucella morta” (gattina morta) questa
creatura pallida e spaurita, e “Patana scaurata” (patata
scaldata) questa con il viso un po’ largo e schiacciato. Ecco
“Pulicenella spaventato d’è maruzze”( una bambina con l’aria
perennemente spaventata), “A streghella”( una bambina
spettinata) e infine una che veniva soprannominata “Verme” per
la sua magrezza , il viso a triangolo e la carnagione giallastra. E
infine questa bambina che si assentava spesso dalla scuola a causa
di malattie, e che era soprannominata“ A ciuccia ‘e Fichella”
( l’asina di Fichella) un animale proverbiale a Napoli “perché
aveva sette piaghe e a coda fracita ( marcita)!” così malridotto
che non si sapeva come facesse a sopravvivere.
Io
avevo come soprannome “A signorina d’’o parapetto” (la
signorina al balcone) per il fatto che mia madre anche a scuola mi
mandava sempre vestita come per una festa. Scarpette di vernice,
calzine lunghe, grembiulino vezzoso, colletti inamidati, fiocchetti
in velluto e gros grain! Del mio soprannome, per altro meritato, io
non mi lamentavo, non so però se mi sarei mai abituata ad essere
chiamata tutti i giorni Verme o Musso ‘e puorco. Ma all’epoca
non ci facevo caso, era tutto parte dello spettacolo.
La
cosa più emozionante per me erano i suoi scatti d’ira che si
verificavano quasi quotidianamente e che aspettavo con ansia, come
a teatro si aspetta la scena madre. La Scrocco era incapace di
indulgenza e amava dare sfogo teatralmente alla sua collera. Eppure
io non ricordo di cosa fossero colpevoli quelle bambine su cui si
scagliava. Un errore di ortografia? Una macchia sul quaderno, gli
orli del foglio un po’sgualciti? Bastava davvero poco. Il suo
sguardo si incendiava d’odio.
Quello
che l’attirava erano i capelli. Io li avevo fortunatamente corti e
ricciuti ma quelle con le trecce, le code di cavallo, erano le
vittime preferite. C’era la più piccola di statura della classe
che aveva delle sottili e lunghissime treccine bionde. La maestra la
sollevava da terra di dieci, venti centimetri, tenendola solo per le
trecce. Ricordo gli occhietti azzurri imploranti, la smorfia di
dolore di quella poverina che tuttavia non piangeva e stringeva i
denti. Era una bambina di famiglia nobile, i Santacroce. Forse anche
per il suo nome, quando la vedevo in quella posizione, mi venivano in
mente le Sante che subivano stoicamente la tortura. A quelle invece
che avevano la coda di cavallo o due codini separati con la fila al
centro, dava degli strattoni come a volerglieli strappare dalla
testa.
Ricordo
una bambina a cui tirò così forte il lobo dell’orecchio che le si
staccò e, con nostro sgomento uscì del sangue; fu l’unica volta
che una mamma venne a protestare. Ma lei disse che la figlia era una
“bugiarda” che lei non l’aveva toccata e la madre
evidentemente accettò la spiegazione che la bambina si era tirata
l’orecchio da sola.
Da
quel momento la Scrocco la prese di mira e pur non osando più
toccarla fisicamente le diceva sempre che era una “bugiarda” e una
volta tentò di svergognarla davanti a noi compagne dicendo che la
madre le “pittava “(le tingeva) i capelli , cosa palesemente
falsa che la fece scoppiare a piangere.
Quando
la maestra correggeva i compiti fatti a casa, bisognava mettersi in
fila vicino alla cattedra con i quaderni e mostrarglieli; mi
ricordo che spesso strappava in due i quaderni, quelli con la
copertina nera, urlando “ puortancelle o’sapunare” (per chi
non è napoletano, portalo a quello che raccoglie la roba vecchia) e
così dicendo lo buttava in aria verso il soffitto: qualche volta
faceva volare il quaderno anche fuori dalla finestra. Oppure ci
colpiva in testa con forza usando la punta della penna con cui
correggeva gli errori (quella penna rossa tanto cara alla maestrina
di De Amicis). Immaginate cosa voleva dire stare in fila ad aspettare
il proprio turno e mostrarle il quaderno dopo che è appena accaduta
una cosa del genere alla tua compagna, che se ne sta tornando al suo
posto tenendosi la mano in testa per il dolore.
Molte
bambine non reggevano alla paura. Io ricordo che ogni tanto
qualcuna si sentiva male, si faceva la pipì addosso o vomitava.
Quando
ciò accadeva lei per un po’ si calmava, chiamava la bidella che
maternamente confortava la malcapitata e la faceva uscire dall’aula.
Noi riprendevano la lezione in silenzio. Non volava una mosca. Non
commentavamo neanche fra di noi quello che succedeva in classe. Forse
eravamo tutte segretamente affascinate da quella donna.
Devo
dire tuttavia a suo onore che non faceva favoritismi, picchiava con
uguale intensità quelle di famiglia benestante, le cui mamme le
facevano ricchi regali a fine anno, come quelle a cui nell’intervallo
portavano la “refezione gratuita”, cioè dei panini con il
formaggio arancione, e questo voleva dire che erano povere. Per lei
contava solo se eri brava a scuola o no. Io ho evitato molte botte
perché scrivevo bene e soprattutto per fortuna capivo a volo i
problemi di matematica.
Per
molto tempo nella mia infanzia, ho giocato con le bambole di carta,
era il mio gioco preferito. Giocavo quasi sempre alla scuola. Mettevo
le mie bambole in fila per due e facevo la conta. Quella che usciva
al tocco la picchiavo forte in testa. Tutte le mie bambole avevano il
collo staccato e riattaccato varie volte con lo scotch. Mia madre non
si spiegava il perché di quel gioco inquietante finchè non gliel’ho
raccontato da grande. Ma ormai la Scrocco era acqua passata e non so
se mia madre mi abbia creduto davvero.
Ma
la cosa più incredibile era la sua mancanza totale di sensibilità
e anche di quello che oggi chiameremmo un atteggiamento “politically
correct”.
C’era
per esempio fra noi una bambina ebrea. Quando noi ci alzavamo in
piedi per dire a voce alta la preghiera, lei si alzava ma rimaneva
zitta con le labbra serrate. Un giorno una bambina domandò alla
maestra “Perché Serena non prega come noi?” la maestra rispose
stizzita: “Perché è ebrea e gli ebrei pensano che Gesù deve
ancora scendere sulla terra…” A questo punto si fece una risata e
rivolta alla scolaretta ebrea le disse : “E aspettate ..aspettate!
Ma ch’ aspettate affà?” Io benchè piccina rimasi agghiacciata
per quell’insulto alla religione della mia amichetta. Avrei voluto
abbracciarla, confortarla perché le vidi gli occhi pieni di lacrime
ma non osai farlo.
Una
volta arrivai in classe piangendo perché mia madre era in ospedale,
si doveva operare. Io non sarei voluta andare a scuola; mia zia
tuttavia mi ci portò di forza. La Scrocco, avvertita di questo
fatto, pensò bene di mettermi in un banchetto accanto alla cattedra
da sola, come un’appestata; in questo modo per tutta quella triste
mattinata non potetti scambiare una parola e neanche avere il
conforto della vicinanza fisica delle mie compagne. Una sadica?
Certamente
io non nego che alcuni insegnamenti impartiti con questi metodi
possano essere efficaci. Ad esempio, ad una bambina che in un tema
aveva scritto che il compleanno della madre “rincorreva” il mese
di marzo, la Scrocco impose di mettersi a correre fra i banchi. Lei
la inseguiva urlando : “Tu sei il mese di marzo e io sono il
compleanno di tua madre”. Corsero per un po’ fra lo sgomento
generale perché non capivamo cosa volesse farle una volta che
l’avesse acchiappata. Ma ad un certo punto lei si fermò e disse.
“Questo vuol dire rincorrere, il compleannno invece “ricorre”
hai capito? RICORRE senza la N” Non me lo sono mai più
dimenticato.
Ricordo
anche un’altra scenetta.. Stavamo facendo il dettato. Una bambina
interruppe la Scrocco per dirle che le era finito l’inchiostro nel
calamaio. La maestra, senza neanche alzare la testa, le rispose: “E salutame ‘o guardaporta” (traduzione dal napoletano: chi se ne
frega) e continuò il dettato. Dopo un attimo alzò la testa e vide
che la bambina stava uscendo dall’aula. “Dove stai andando?“
ruggì e quella “Sto andando a salutare il guardaporta” avendo
interpretato la frase alla lettera e credendo forse nella sua
ingenuità che il custode le avrebbe procurato dell’inchiostro per
il suo calamaio. La Scrocco rimase un attimo immobile e tutte noi
trattenemmo il fiato; ma doveva essere di buon umore quel giorno
perché, con un lampo di ironia negli occhi, le disse solo di non
fare l’idiota e di tornarsene al suo posto..
Grazie
signorina Scrocco.
Grazie
per tutto quello che mi hai insegnato e che la mia famiglia non
avrebbe mai potuto farmi comprendere in modo così efficace. Che il
mondo è un posto crudele dove puoi essere preso in giro per i tuoi
difetti fisici o per la tua religione. Che bisogna saper resistere
alla paura e alle aggressioni se no, peggio per te. Che nessuno è
disposto a crederti se una persona più autorevole dice che ti sei
inventato una cosa. Che a tutto ci si abitua e dopo un po’ ti
sembra normale. Che non bisogna essere solidali o pietosi, è una
perdita di tempo. Stai attento piuttosto che non capiti a te. Che la
sfortuna, (come diceva non ricordo chi) è una colpa. Che è meglio
imparare tutto ciò da piccoli. E infine che il napoletano è una
lingua molto teatrale, le sue espressioni sono efficacissime e i
suoi insulti impareggiabili. Si dice spesso che i napoletani hanno il
teatro nel sangue. Si dice spesso che Napoli è un palcoscenico e che
i suoi abitanti sono tutti attori. Si dice spesso che la vita è come
il teatro o che il teatro è come la vita. Credo proprio di sì.
Bianca
Maria Vaglio ha
curato la sceneggiatura di numerosi film e serie tv. Tra
i suoi script più popolari: Rossella,
Amiche
davvero! e
Doppio
segreto.
Per le edizioni Rizzoli First è da poco uscita sotto la sigla
Private
Room una
sua serie di racconti, scaricabili da Internet.
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