Dal saggio di Marco Giovenale Riambientarsi ma anche difendersi proponiamo qui due stralci. La versione integrale del testo, dedicato in larga parte all'opera di Corrado Costa, si scarica dal sito Academia.edu)
Marco Giovenale
Dopo
Muybridge, che nel 1878 mostra grazie alla fotografia come sono
veramente disposte le zampe del cavallo durante il galoppo, non “il
cinema e la fotografia hanno ragione e i pittori sbagliano” (quando
raffigurano cavalli in corsa) ma semmai “mi è più difficile
vedere un cavallo al modo dei pittori”. Da pittore, o da innamorato
di pittura, potrò comunque continuare a illudermi, sapendo di
illudermi: questa possibilità di autoillusione però non va certo
ascritta a pregio dei pittori, semmai sarà un ulteriore merito di
Muybridge. Ovvero: io so che le zampe non sono nelle posizioni che il
pittore in qualche modo impone (a sé e agli osservatori) di pensare,
e questo sapere non mi paralizza, semmai – al contrario – mi
libera. Una apparente restrizione posta in essere dalla tecnica
fotografica (foto, montaggio di foto,cinema) non è vincolante nei
termini di una chiusura dell’immaginario. All’opposto: proprio
adesso, dopo Muybridge, posso davvero disegnare un cavallo come lo
pensava Géricault, perfino così, con le quattro zampe tese, e però
(e perciò) posso farlo con intenzionale estraniante deformazione
rispetto a quei dati conoscitivi reali, effettivi, oggettivi, di cui
la pittura prima della fotografia semplicemente non disponeva.
Posso
insomma essere libero, ora, in questo modo, sia di fare una pittura
realistica, sia di fare invece fotografia, sia – al contrario ma
non per forza ‘regressivamente’ – di riappropriarmi di una
tecnica “lenta”, sognante, di pittura, ritraendo un cavallo con
zampe innaturalmente parallele, e trasmettere la mia consapevolezza
di star operando appunto in piena coscienza contro i dati di natura,
senza con ciò disconoscere quanto so della corretta rappresentazione
della corsa di un cavallo. Invece, quello che non funziona in quella
pittura contemporanea che arretra vertiginosamente a un’epoca
preimpressionista, è che vuole proprio essere Géricault, senza
Muybridge; ossia vuoleproprio che io osservatore entri nel quadro
all’altezza degli anni Venti dell’Ottocento e mi persuada che i
cavalli davvero galoppano così. Cioè si tratta di una pittura, o di
una poesia che – usando Géricault/Muybridge come pietre di
paragone – mi chiede di entrare in un patto che proprio non
funziona. Non è semplicemente n patto che “torna” a una lirica
da posizioni post-liriche, o rincula all’Ottocento da posizioni di
Novecento addirittura superato, bensì è un patto che vuole
direttamente collocarsi o essere nella lirica (ottocentesca). Vuole
davvero trovarsi nella parola pura, o innamorata, o orfica (o “anni
Cinquanta”, laborintica; o “anni Dieci”, marinettiana). Se,
insomma, in poesia tu “dipingi” un cavallo ingenuamente (senza
alcuna purezza naïf, beninteso) collocandoti al tempo in cui si
credeva che le zampe fossero distese e disposte in parallelo, e
insieme fai ciò seriamente, assertivamente, ossia intenzionando la
percezione di chi osserva il tuo quadro e pretendendo che costui ti
segua con fiducia nella tua ingenuità (inintenzionale, dunque
kitsch), io non posso non avvertire che il tuo narciso sta chiedendo
qualcosa che al lettore/osservatore sembrerà del tutto legittimo
rifiutare. Lo stai trascinando dentro un patto da cui lui è più
svincolato di prima, che lui – più di prima – può benissimo non
sottoscrivere. (Lui è in sostanza più libero di te, che resti fisso
e fissato al “prima” con fermezza, al pre-Muybridge).
*
* *
La
scrittura che finge che un cambio di paradigma non sia né avvenuto
né aleggi in alcun modo “nell’aria” assomiglia (mi abbandono a
un ultimo paragone) al nevrotico che, in analisi, mette in ordine i
pezzi del proprio racconto per presentarli quasi preinterpretati
all’analista, per offrirli nella conversazione già inquadrati in
schemi e narrazione, in storia data come letta e compresa. (Il
riferimento – sommessamente suggerito – è a Jacques Lacan, Des
Noms-du-Père, 1953, tr.it. Einaudi, Torino 2006). Si tratta
insomma di un nevrotico che non esce dalle prime fasi dell’analisi.
Il paziente non racconta ma già spiega e analizza e cerca (come
scrive Lacan) di mettersi, «secondo un ben noto meccanismo
narcisistico, al posto dell’interlocutore» (cit., p.15), ossia al
posto dell’analista. Ovviamente quest’ultimo paragone da cui mi
lascio tentare si limita a istituire l’analogia e non è forse
legittimo andare molto oltre, articolandola in dettagli e
corrispondenze troppo definite. Non esiste infatti (non sempre
esiste, non necessariamente esiste) una qualche verità o «ordine
simbolico» nel testo letterario, che – spiegando e dispiegando
dettagli – l’autore velerebbe. O forse sì. Fatto sta, a fare
blocco, a creare problema, è la velatura data dal mettere l’altro,
l’interlocutore, nella posizione prearredata dal proprio
narcisismo. Io preoriento la tua lettura dei miei sintomi, magari per
non farli spiccare come tali, come segni di patologia, di mancanza.
Mi
metto al tuo posto, interlocutore, predisponendoti all’accoglienza
del mio materiale: firmo in vece tua il patto con me, interno e torno
a una poesia che dunque – firmato il patto – non potrà che
essere quella che ti darò, guarda caso. Certificata. E se
sorriderai, o ti sottrarrai all’illusione, mi sentirò ferito e ti
sentirò ingrato, come per un pattoinfranto, esattamente. Un
comportamento del genere, da parte del nevrotico (o del poeta), non
può non cadere in quello che Lacan stesso chiama «registro delle
resistenze».
Ora.
Il problema non è il sintomo espresso in (e al di là di) questa
velatura, o il patto fittizio prefirmato da chi lo pretende e redige;
né il “simbolo” che si manifesterebbe se questa intenzionalità
del nevrotico narrante o del poeta poetante cadesse. Ossia: il
problema non è il quid, il qualcosa che origina le difese del
nevrotico, dell’autore (e il suo afferrarsi a forme retoriche note,
per esempio). Il problema sta semmai nell’intenzionalità stessa,
nelle difese come esempi di narcisismo velante. Ossia: non siamo in
un set analitico. Il paragone finisce qui: siamo a un reading di
poesia, e il poeta in questo momento sta leggendo versi orribili,
kitsch, mi sta imponendo un patto (una “sua-preinterpretazione-mia”)
che non riconosco. Il problema è qui: sta nel fatto che l’autore
si sostituisce a me che ascolto, e mi impone Géricault come
Géricault, senza accorgersene; mi impone elementi che so non miei,
che so essere sue strategie autocentrate, suoi intimismi (o il suo
sgargiante sventolio di bandiera civile), sue finzioni, comese non mi
fossero già familiari. (Come se non mi fossero venute a noia da
lungo tempo, già dopo l’adolescenza).
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