lunedì 9 settembre 2013

La mia vita con Paco. Un racconto in quattro puntate / 3


Marta Ancona
 Ho citato episodi ininfluenti (a parte quello di mia madre) per dire che non solo le situazioni importanti vengono ricordate, ma anche quelle che parrebbero non essere così memorabili. Mi limito a questi esempi.
Orgoglio. Sono molto orgogliosi i cani. Forse più propriamente bisognerebbe parlare di dignità, di un sano senso di sé. Il primo segno sta nella coda (ciò vale solo per gli individui cui non sia stata tagliata, quindi non boxer, rottweiler, mastini, pitbull, ecc.). In casa la coda è a riposo, ma appena all’esterno, viene tenuta fieramente diritta, sventolata allo scopo di spargere gli odori, e facilitare gli annusamenti. Si accompagna con tutta una serie di altri “segni” che costituiscono, nel complesso, l’andatura. E’ un segno inequivocabile di buonumore e di salute, e quindi una coda bassa ha il significato contrario, bisogna fare attenzione. Anche durante la fase di decadimento e vecchiaia non si erge più sfrontata, e questo già di per sé rende tristi.
Sguardo. Chi non abbia avuto a che fare almeno con un cane nella vita non sa di quanti tipi di sguardo sia capace. C’è lo sguardo “cattivo” “severo”. Viene sfoderato in occasioni speciali, di fronte a un proprio simile, sufficientemente giovane ma in ansia di crescita e di competizione, tale però che non possa costituire un pericolo. E’ uno sguardo diretto, corrucciato, perforante, mentre il fisico si erge in tutta la sua possanza, si gonfia, la testa è alta, le orecchie tese (ma non all’indietro, non sono quelle dell’attacco) il petto proteso, guarda come sono grande!! Il corpo è teso, ogni muscolo all’erta, il passo è lentissimo, regale, fin quando non si arresta del tutto. E’ uno sguardo “pedagogico”. Insegna al più giovane ad avere rispetto dei rapporti gerarchici dovuti all’età, alla potenza, al ruolo che si occupa nel branco, anche se non c’è alcun branco (ma loro lo creano comunque).
Paco non era un individuo “alfa”, per fortuna mia (e anche sua, a dire il vero). Se fosse stato un “alfa” probabilmente non lo avrei scelto, anche senza saperne niente, mi sarei accorta che qualcosa non mi andava bene.

Gli alfa sono quegli individui che nel branco si prendono tutte le responsabilità, onori e glorie ma anche pesi. Sono individui perennemente in tensione perché devono continuamente affermare (riaffermare) il proprio ruolo, devono proteggere femmine e cuccioli dai nemici esterni. Sono costretti a “sfidare” chiunque capiti loro a tiro, a meno che la loro autorità non sia così unanimemente riconosciuta da consentire di passare a testa alta senza filarsi nessuno. Gli alfa non vivono troppo a lungo, hanno una vita gratificante, forse (!?!) ma faticosissima, un inferno.
Paco no, Paco era un individuo “beta”, incline più al gioco e alla felicità che al comando, insensibile al richiamo del “cummannari è megghiu ca futtiri” (traduco per chi non sa niente di siciliano: comandare è meglio che fottere, per lui fottere era sicuramente assai più interessante) e tuttavia si giocava i pochi gradi gerarchici che poteva permettersi.
Athos era uno dei suoi rivali. Di qualche mese più giovane, inizialmente Athos si sottometteva, abbassava le orecchie, girava lo sguardo da un’altra parte, non rispondeva allo sguardo di Paco. Se lo avesse fatto, Paco lo avrebbe attaccato, fin quando non gli avesse offerto la gola, guaendo. A quel punto tutti fermi, partita vinta.
Ma Athos, incredibilmente, crebbe, diventò grande e forte, come Paco. E allora gli sguardi - di entrambi – cambiarono. Quando si incontravano rallentavano in modo tangibile l’andatura, tutti gonfi e solenni, senza mai guardarsi direttamente negli occhi, fin quando vicini vicini , ognuno con la testa leggermente girata dall’altra parte per non rischiare di incrociare lo sguardo del rivale, non decidevano che erano stati abbastanza forti e dignitosi.
Arricciare le labbra e scoprire i denti, o addirittura dare corso al sordo brontolio che sembra nascere dalla pancia ed è una preparazione al ringhio vero e proprio, sono tutti segnali proibiti per chi non vuole realmente venire alle mani (per così dire). E infatti non vennero mai alle mani, né ci furono mai scene da circo, anche perché sia io che i padroni di Athos li liberavamo dai guinzagli consentendo loro di incontrarsi davvero. Diversamente, sia pure senza alcuna conseguenza, avrebbero fatto cose da pazzi, si sarebbero avventati, avrebbero ringhiato furiosamente, ecc., proprio perché, da legati , avrebbero dovuto dimostrarci di che nobile pasta fossero fatti.
Sguardo “offeso”. Non c’è niente al mondo che possa farti sentire una merda quanto lo sguardo “offeso “ del tuo cane. Tu stai uscendo, ti avvicini a lui, per salutarlo, fargli una carezza, promettergli che tornerai prestissimo, per farti perdonare in anticipo gli dai un biscottino. Niente da fare. Lui ti ignora. Si sottrae al tuo abbraccio, gira la testa dall’altra parte, non ti guarda negli occhi, ma non per il motivo che ho raccontato prima. E non ti perdona. In quel momento non ti perdona. E’ offeso, ma c’è qualcosa di più, non è l’offesa di quello che dice: come osi farmi questo! piuttosto l’accorata domanda: come PUOI farmi questo!! IO non potrei mai farlo!!
La cosa più sconvolgente è che non cambia nulla, che si tratti di minuti o di ore o di giorni. Certo, lui non lo sa in anticipo, ma in compenso non cambia nulla, che si tratti di minuti, di ore o di giorni, anche quando ti rivede. E’ tutto dimenticato, la gioia più irrefrenabile si impossessa di lui, è così contento che potrebbe anche farsela addosso per l’emozione, e talvolta infatti succede. E qui subentra l’altro sguardo, quello della gratitudine.
Noi (cani) siamo così felici che il cuore ci batte tumultuosamente, altro che corse nel pratone delle cornacchie, noi dopo esserci sdilinquiti facendo tutte le moine possibili, dopo esserci buttati per terra esponendo gola pancia e tutte le parti più intime e delicate, finalmente ci sediamo accanto all’oggetto del nostro amore, e sfoderando tre metri di lingua, affannati oltre ogni dire, socchiudiamo gli occhi per la felicità che sia di nuovo con noi, se li tenessimo aperti tutta quella luce ci potrebbe accecare. Solo una cosa ci rende più felici di così, solo una cosa: QUELLA. In QUEL caso niente e nessuno conta più di quel profumo sublime. E qui lo sguardo cambia ancora, diventa lo sguardo di quello che non capisce più niente, assolutamente inebetito.
E’ vero, più forte di quello non c’è niente, non c’è addestramento che tenga in presenza di una cagna in calore. Nei periodi dell’estro delle cagne, grosso modo tra gennaio e febbraio e poi di nuovo tra giugno e luglio dovevo stare seriamente in campana e acchiapparlo prima che fosse troppo tardi. In genere, dato che lo portavo a Villa Pamphili intorno all’alba, lo tenevo slegato, come del resto quasi tutti gli altri padroni di cani, anche perché non dava fastidio a nessuno, tranne a chi ne aveva paura a prescindere, ma stavo molto attenta, per non questionare. Come potevano farmi incavolare i padroni delle femmine in calore che continuavano come se nulla fosse a portare le loro bestie spargenti profumi in Villa, del tutto indifferenti ai casini che provocavano. I maschi scappavano, non capivano più niente, potevano farti aspettare ore, rischiavano di litigare con gli altri maschi, insomma un vero disastro.
I padroni dei maschi – c’è molta solidarietà tra padroni di cani, ci si assiste, aiuta, conforta, confronta, si stringono amicizie per la vita – si davano la voce, guarda c’è Tizia che è in calore, fa’ attenzione, e allora li legavamo, anche se era comunque un inferno, perché una volta annusato quel profumo, tiravano talmente tanto per raggiungere l’oggetto – quello vero – del loro amore, che ti potevano anche far volare per terra. In questo modo infatti sono volata un paio di volte, e mi sono quasi rotta una mano, mi sono ferita, ho dovuto fare lastre, terapie ecc.
Poi c’è lo sguardo “della fiducia”: è quello che, mentre passeggi con lui accanto, ti rivolge di continuo, per controllare se va tutto bene, se LUI va bene, e se tu sei contento/a di lui/lei. Questo sguardo – forse - non è da cani alfa, i capi branco – forse - non hanno bisogno di conferme di questo tipo, vanno tranquilli per la loro strada: anche se nella fattispecie il capo branco sei tu, padrone, non hanno bisogno di controllare, di essere approvati di continuo.
C’è anche lo sguardo “dell’umiliazione”. Si può prenderne atto solo quando capita qualche guaio, quando il tuo cane comincia a stare male, quando non riesce più a fare certe cose, quando non controlla più gli sfinteri, o non riesce più ad alzarsi sulle zampe di dietro, e striscia come un serpente. Lo vedi che si abbandona in un angolo, e non ti guarda perché si sente mortificato, sta patendo un’insopportabile umiliazione, e smette di mangiare, e talvolta perfino di bere, e tu capisci che nel mondo animale quella sarebbe l’ora in cui in qualche modo decide di morire, perché nel branco un individuo in quelle condizioni è dannoso, pericoloso, e viene lasciato a sé stesso. Ma poi se tu lo consoli, se lo carezzi, lui capisce che il termine si è spostato più in là, che si può vivere anche così, che tu lo ami e quindi…, e quindi lo porti in Villa con una specie di protesi che ti aiuta a tirare su i quindici chili del suo treno posteriore, e per le scale di casa lo prendi in braccio perché lui non ce la fa da solo.
In quello sguardo oltre all’umiliazione c’è un che di disperato, senza voler attribuire sentimenti umani a un cane. Credo che VERAMENTE ci sia della disperazione, anche paura, e tuttavia anche fiducia in te, cieca. Infatti lo stai aiutando moltissimo, lui lo sa perfettamente che se non fosse per il tuo aiuto non potrebbe fare quello che fa. E c’è gratitudine. Uno sguardo complesso, ricco di significati e messaggi.
Animalità, caninità e caratteristiche individuali. Credo di avere mischiato un po’ le carte, di avere fatto un po’ di confusione, nel descrivere i comportamenti di Paco, tra le caratteristiche dell’animale (in genere), quelle del cane (in genere) e quelle sue proprie. Cerco di riparare. Una caratteristica sua propria, che ho riscontrato in pochissimi altri individui, era l’assoluto disinteresse per la caccia. Non l’ho mai visto rincorrere nemmeno una cornacchia, anche se era lì sotto il suo naso, o una lucertola o qualunque cosa si muovesse.
Per i gatti, invece, aveva un’avversione smisurata, che tuttavia si tramutava in paura nel caso in cui il gatto si facesse aggressivo o troppo vicino; in quel caso si ritraeva quasi guaendo. Ma quando sapeva che i gatti erano “di casa”, come da mia sorella in campagna, li lasciava in pace, ignorandoli; convivendo, anche se non proprio amabilmente.
Era immensamente docile e socievole e accogliente con gli esseri umani, come molti cani, ma non tutti i cani. Era particolarmente mansueto, e anche come cane da guardia non era un granché: abbaiava quando sentiva suonare alla porta di casa, smettendo appena capiva che si trattava di persona da me giudicata innocua. Era come se lo facesse perché non poteva sottrarsi a quel dovere, ma, diversamente dalla maggior parte dei cani, non abbaiava affatto se era in macchina, come se non la riconoscesse come territorio suo.
Non ha mai, mai fatto neanche il gesto di mordere, neanche mai arricciato le labbra e scoperto i denti verso qualcuno. Era anche piuttosto obbediente (tranne ovviamente nel solito caso dell’estro) pur non avendo subito alcun addestramento. Forse non era particolarmente intelligente, forse l’intelligenza si lega all’essere ribelli o anarchici o liberi, non so, forse era addirittura un po’ “fregnone”. Ma anche se così fosse, era apprezzabile anche quello nel suo modo di essere, era una parte essenziale, tenera, non trascurabile della sua personalità.
Quando con parto casalingo (in casa mia) come ai vecchi tempi, nacque Arturo, Paco viveva ancora in campagna. Ebbene, anche in quel caso rivelò la sua natura accogliente, affettuosa, generosa. Invece di essere geloso di quel nuovo piccolo essere cui tutti dedicavano attenzione e riguardi, con un gesto semplice, elementare quanto eloquente, decise di adottarlo e accettarlo come parte della famiglia: lo leccò per bene in faccia, imprimendogli il suo odore. Non tutti ne sarebbero stati capaci. E Arturo quando fu in grado ricambiò: lo afferrava passandogli il suo piccolo braccio attorno al collo, ossia alla sua altezza, affermando amicizia e possesso. Amicizia e possesso troppo brevi, non fece in tempo ad arrivare al suo terzo compleanno.

(3 - continua)

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