Maria Cristina Reggio
Quattordici attori
strepitosi e due metri cubi di spazio
scenico: questi gli "elementi" con cui Yōji Sakate, regista,
drammaturgo e direttore della giapponese Rinkogun
Theater Company ha "usato" il palco del Teatro Vascello per fare
attraversare agli spettatori il tempo e lo spazio in due sole ore. La scena era costituita solo da una
capanna a sezione trapezoidale, privata della parete frontale e provvista di alcune botole, da cui gli
attori entravano e uscivano seguendo tutte le direzioni possibili, strisciando,
scomparendo, rotolando, levitando, infilandosi di soppiatto e gettandosi.
Questa piccola capanna era in realtà una
mansarda, in giapponese Yaneura, ovvero una stanza che unʼimprobabile
ditta avrebbe progettato e realizzato, (ci si chiede se si trattasse di una
ditta vera oppure tutto fosse il frutto
di una fantasia manga) corrispondendo alla domanda di tanti giovani
adolescenti-consumatori che hanno scelto di vivere reclusi nella loro casa, gli
hikikomori (termine composto da due
parole, hiku "tirare" e komoru,
ritirarsi). Il racconto si sviluppava in ventiquattro
quadri, scanditi da siparietti di buio con un ritornello ossessivamente uguale
a sé stesso, nei quali quella stessa
"yaneura" si trovava collocata in spazi diversi, evocati solo da
suoni e rumori di ambiente, come le voci di un affollato mercato, o di una
strada, o il suono di un citofono. Al
centro della narrazione la morte di un giovane suicida avvenuta in un passato
presente, e un oscuro "cacciatore",
che interviene in diverse scene, autore di un misterioso graffito invisibile
agli spettatori, e che conosce, lui solo, il segreto di chi sceglie di
confinarsi nellʼisolamento. Intorno, decine e decine di personaggi che entrano,
come si è detto, per pochi minuti, in quello spazio claustrofobico, componendo
brevi quadri di piccoli inciampi-incontri quotidiani, il cui sfondo è dato da
una costante mancanza di aria, come in una bara. Uno spazio chiuso che, sul
finale, si squarcia, con lʼapertura dei sipari che avevano fatto da cornice,
per lasciare vedere lʼinconsistenza di cartone, di un involucro che anche gli
spettatori hanno creduto, per due ore, essere costituito da vere pareti. Lʼisolamento era unʼillusione,
intorno non cʼerano spazi siderali così come i reclusi della piccola
mansarda fantasticavano, ma solo una
fabbrica di altre modeste mansarde. Erano proprio le pareti che lasciavano
immaginare un oltre fantastico, innalzando una protezione da una
ipotetica vita di relazione che si immaginava impossibile da vivere. "Quanto
mi piacerebbe vivere ogni giorno della mia vita come se fosse quello prima
della partenza", dice a un certo punto un personaggio che spesso cita il
diario di Anna Frank, fantasticando sul racconto della sua adolescenza chiusa
dietro una parete. Chissà cosa immagina una giovane giapponese dei campi di
sterminio verso cui la giovane ebrea olandese è partita e dove è morta insieme
con la sua famiglia. Molte le domande poste da questa pièce giunta da un
lontano oriente globalizzato, densa di tanti rimandi letterari,
cinematografici, ai manga e alla cultura giapponese da sbrogliare e condividere,
e di cui molti spettatori -
ma quelli giovani si contavano sulle dita -, pur nellʼentusiasmo dellʼaccoglienza
di questa ottima pièce sarebbero senzʼaltro curiosi di sapere di più. Una
domanda, dunque, al Teatro Vascello e allʼIstituto
Giapponese di Cultura di Roma: perché non mettere in cartellone almeno unʼaltra
volta questo spettacolo? Una sola recita è davvero poco, ma siccome si immagina
già la risposta, meglio evitare di porre
la domanda, limitandosi alla soddisfazione per avere visto un ottimo
spettacolo e alla proposta, ottimista, di qualche replica futura.
Per chi
volesse approfondire il fenomeno sociale degli Hikikomori, si consigliano le
seguenti visioni:
Il
documentario di Francesco LoJodice Hikikomori
Il film di
Gianluca Olmastroni Hikikomori ( Italia 2006)
Il film di Marco Prati Hikikomori
Il film di Marco Prati Hikikomori
Il corto di
Jonathan Harris su Youtube:
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