Fernand Khnopff - Donna (1895) |
Lunedì 23 settembre alle 18 la bibliolibreria Plautilla ospita una conversazione con Adriano Angelini, autore di un volume, La
maledizione del lago, appena uscito per XL, in cui viene ricostruita la famosa notte in cui
Mary Shelley concepì il suo Frankenstein. In attesa dell'incontro, a cui parteciperà anche la giornalista di Rai Educational Claudia Bonadonna, proponiamo un percorso di lettura di Gian Luca Chiovelli, che ruota intorno all'opera della scrittrice inglese.
Qui la seconda parte
G. Luca Chiovelli
Qui la seconda parte
G. Luca Chiovelli
Lo scorso 30 agosto ricorreva il genetliaco di Mary Shelley (1797-1851); di lei si ricordano i due romanzi fantastici, L'ultimo uomo, di cui abbiamo già discorso, e, ovviamente Frankenstein, o il Prometeo moderno (1818), una delle opere allo stesso tempo più dimenticate e falsificate della storia della letteratura. La falsificazione imposta da Hollywood (con la sua ambientazione inglese o tedesca pesantemente gotica, i sotterranei labirintici, l'elettricità che dona la vita, i trapianti, le cuciture, Boris Karloff) è ormai talmente sedimentata nell'immaginario dello spettatore medio da rendere, perciò, inutile la lettura dell'opera originale.
Che rimane molto diversa. Soprattutto nell'ambientazione, che si sposta dalla quiete delle valli e dei laghi svizzeri, alla feroce solitudine delle isole Orcadi sino ai ghiacci perenni del Monte Bianco (quando Frankenstein stringe un patto, poi disatteso, con la propria creatura) e, per due volte, all'inizio e alla fine del proprio cammino circolare, nelle distese perenni del Polo Nord (dove Frankenstein si spingerà a braccare il mostro trovando, assieme ad esso, la morte).
A dominare il romanzo è il colore bianco.Il bianco degli scenari alpestri e artici con cui gli antagonisti, Frankenstein e la propria creatura, intrattengono un rapporto complesso di desiderio e frustrazione.
Mary Shelley cita nel romanzo la poesia Mutevolezza, del marito Percy:
“Lo ieri dell'uomo non può mai essere simile al domani;
niente nel mondo può durare, eccetto la Mutevolezza”
niente nel mondo può durare, eccetto la Mutevolezza”
E lo stesso Shelley in Adonais:
“La Vita ... macchia il bianco splendore dell'eternità”
Il bianco è, quindi, l'annullamento, la quiete, il riposo dall'infelicità (dall'ingiusta mutevolezza della vita) a cui entrambi, demiurgo e creatura, sono inevitabilmente condannati (il mostro dalla propria solitudine, Frankenstein dalla colpa di averlo creato).
“Rimasi in una rientranza della roccia a contemplare quel paesaggio stupendo e meraviglioso. Il mare, o meglio, l'enorme fiume di ghiaccio si snodava fra le montagne ... I picchi ghiacciati e brillanti splendevano alla luce del sole sopra le nuvole ... Intravidi a una certa distanza la figura di un uomo che si avvicinava a una velocità sovrumana. Saltava fra le fenditure di ghiaccio tra le quali io mi ero mosso con cautela ... Capii, mentre la figura si faceva piu vicina, che era (visione tremenda e odiosa!) l'infelice che avevo creato”
Il bianco, somma di tutti i colori, eternamente uniforme e immobile, placa i tumulti della vita mutabile e infelice, ma, allo stesso tempo, rimane una terra incognita, paurosa, vuota, indefinita, rifugio dell'Altro, del proprio doppio mostruoso.
E l'ambiguità di tale colore (deriva dal germanico blank) percorre inevitabile le maggiori opere della letteratura fantastica inglese (colle sue derivazioni fintamente americane: Poe, Lovecraft e Melville) fra Ottocento e primo Novecento.
E perché l'Inghilterra, terra della rivoluzione industriale e scientifica, e, quindi, dell'imperialismo e della conquista, avverte nel bianco una insondabile e morbosa attrazione e la rovescia, più o meno scientemente, in peccato e repulsione?
Che il bianco possa configurarsi come idiosincrasia di una nazione in un preciso momento storico?
A credito di tale ipotesi porteremo numerosi stralci letterari di alcuni classici. Cercheremo, finalmente, di rendere una risposta, provvisoria e azzardata ovviamente, all'apparente enigma.
Le suggestioni romantiche di Frankenstein, quel gusto per l'orrido e il solitario, insieme tragico e sublime, trovano il retroterra più immediato ne La ballata del vecchio marinaio (1798), di Samuel Taylor Coleridge. La Ballata, una delle letture preferite della Shelley bambina, è direttamente citata in Frankenstein. Ecco i passi ispiratori:
“Poi vennero nel cielo nebbia e neve
E un freddo tanto saldo
Che il ghiaccio a blocchi andava galleggiando
Verde come smeraldo,
Picchi, di là dal turbine nevoso
Mandavano un bagliore
Triste - non ombra d’uomo o d’animale
Ghiaccio, soltanto ghiaccio e il suo nitore
Il ghiaccio era dovunque, era qua, là
Era tutto all’intorno;
Crepitava, gemeva e ululava
Come, svenuti, s’ode un vano rombo”
E un freddo tanto saldo
Che il ghiaccio a blocchi andava galleggiando
Verde come smeraldo,
Picchi, di là dal turbine nevoso
Mandavano un bagliore
Triste - non ombra d’uomo o d’animale
Ghiaccio, soltanto ghiaccio e il suo nitore
Il ghiaccio era dovunque, era qua, là
Era tutto all’intorno;
Crepitava, gemeva e ululava
Come, svenuti, s’ode un vano rombo”
E, più oltre, ecco l'incontro del protagonista, uccisore del bianco Albatro, con la nave della fatale Vita-in-Morte:
“Le labbra rosse, gli occhi erano audaci.
I ricci erano biondi come l’oro:
con una pelle bianca di lebbrosa
L’incubo Vita-in-Morte era, l’esosa
Che fa gelare il sangue”
I ricci erano biondi come l’oro:
con una pelle bianca di lebbrosa
L’incubo Vita-in-Morte era, l’esosa
Che fa gelare il sangue”
Non interessa, in tale sede, esaminare la vertiginosa simbologia di Coleridge; solo mettere in risalto, ne La Ballata e negli altri classici del fantastico angloamericano, la stretta parentela fra il bianco (concetto generalissimo del colore) e una zona emozionale universale che oscilla potentemente fra attrazione e repulsione.
Probabilmente anche Edgar Allan Poe lesse la Ballata. Il protagonista del Gordon Pym (1838), nelle righe finali dell’opera, naufraga in una terra assolutamente candida:
“Una moltitudine di uccelli, di un livido color bianco, si alzava ... di dietro al veliero ... Ma ecco sorgere sul nostro cammino una figura umana dal volto velato, di proporzioni assai più grandi che ogni altro abitatore della terra. E il colore della sua pelle era il bianco perfetto della neve”
Edgar Allan Poe, quindi, poteva aver presente Coleridge (eccezionale, anche nel Gordon Pym, l’incontro con una nave della morte il cui timoniere, scarnificato da un gabbiano, mostra un bianchissimo, spettrale ghigno); e il misterioso essere si ricollega inevitabilmente anche al Frankenstein, poiché suggerisce, figurativamente, la creatura della Shelley (sopravvissuta ai rigori dei ghiacci; stavolta antartici).
H.P. Lovecraft (già autore del simbolico La nave bianca e del fantascientifico Il colore venuto dallo spazio [1928]), offre una continuazione al Gordon Pym ne Le montagne della follia (1931). Il bianco accecante dell'Antartide, stavolta, cela le vestigia di una civiltà più antica della Terra, maligna e aliena all'uomo:
“L'oggetto bianco che ciondolava davanti a noi era alto più di un metro e ottanta … per un attimo fummo stretti da un terrore primordiale e quasi più violento delle peggiori paure che con la ragione avevamo intessuto sugli ‘altri’”
“Sull'orizzonte bianco e lontano, alle spalle della fantastica città, si stagliava una vaga ed elusiva sagoma di picchi azzurrini le cui cime appuntite svettavano come sogni nel colore rosato del cielo occidentale. L'antico tavoliere saliva verso quell'orlo splendente e il letto incavato del fiume scomparso l'attraversava come un irregolare nastro d'ombra. Per un attimo trattenemmo il fiato, vinti dalla bellezza cosmica e quasi ultraterrena della visione: poi una vaga forma di orrore s'insinuò nelle nostre anime …”
L'attrazione per il bianco, venata dalla perversione, è centrale anche in un altro classico di Edgar Allan Poe, Berenice (1835). Il narratore, Egeo, un sognatore, è ossessionato dal candore dei denti della cugina:
“[Ella sorrideva] quasi a bella posta per mostrare i suoi splendidi denti bianchi ... Il bianco, sepolcrale spectrum dei suoi denti ... I denti! I denti! ... Lunghi, stretti, eccessivamente bianchi, con le pallide labbra che si muovevano su di essi ... il phantasma di quei denti ...”
Infine Berenice muore. Viene sepolta. Egeo cade in una sorta di deliquio, sopraffatto dall’intensità delle proprie pulsioni. Al risveglio nota accanto a sé alcuni attrezzi da scavo; e una scatola, che urta, facendola rovinare a terra:
“Da essa ... rotolarono fuori alcuni strumenti di chirurgia dentaria, mescolati a trentadue piccole cose bianche, eburnee, che si disseminarono qua e là sul pavimento”
Per placare la propria perversione, Egeo aveva dovuto impossessarsi dei trentadue oggetti del proprio desiderio, prima impossibile da soddisfare. Ma, apprendiamo, Berenice non è morta: solo in catalessi per un attacco epilettico. Ed è allora che il protagonista capisce d’aver strappato i denti ad una creatura vivente. Poe ci costringe, con perfidia ellittica, ad immaginare l’orrore supremo, ovvero la bocca straziata della fanciulla, pallida nella morte in vita, ma ancora senziente. E ci costringe, come se un braccio potente ci afferrasse la nuca per volgerci a quello spettacolo cruento, a godere del sommo contrasto cromatico della letteratura perturbante: il bianco opposto non al nero, ma al rosso del sangue.
Tale contrasto troverà la massima espressione nel classico Dracula (1897), di Bram Stoker. Ecco due descrizioni del Conte, arrivato in Inghilterra a bordo di un veliero pestilente e fatale, un‘altra nave della morte:
“Gli occhi hanno preso a fiammeggiargli di diabolica furia; le grandi narici del bianco naso aquilino si sono spalancate, frementi; i candidi denti aguzzi, visibili tra le labbra piene della bocca stillante sangue, hanno cozzato assieme come quelli di una bestia selvaggia”
"[Egli era] alto, sbarbato ma con lunghi baffi bianchi, vestito di nero dalla testa ai piedi: neppure una nota di colore in tutta la sua persona"
"[Egli era] alto, sbarbato ma con lunghi baffi bianchi, vestito di nero dalla testa ai piedi: neppure una nota di colore in tutta la sua persona"
Ancora il bianco e il rosso; e l’assenza di colore, quale somma indefinitezza.
La prima vittima di Dracula in terra inglese sarà Lucy Westenra, che, risorta come vampira, porterà distruzione a Londra col nome di Dama Bianca:
“Lì sul letto, abbandonata come in deliquio, giaceva la povera Lucy, più
orribilmente bianca e sfinita che mai. Bianche erano persino le labbra, e le
gengive sembravano essersi ritratte dai denti, come accade di solito di
constatare nella salma di chi sia morto dopo prolungata malattia”
“Sul letto giacevano due donne, Lucy e sua madre, quest'ultima verso il muro e coperta con un bianco lenzuolo i cui lembi erano stati spostati dalla corrente d'aria che entrava dalla finestra infranta, sì da rivelare il volto esangue, scavato, improntato a un'espressione di terrore. Accanto a lei, Lucy, il volto pallido e ancor più marmoreo ...”
orribilmente bianca e sfinita che mai. Bianche erano persino le labbra, e le
gengive sembravano essersi ritratte dai denti, come accade di solito di
constatare nella salma di chi sia morto dopo prolungata malattia”
“Sul letto giacevano due donne, Lucy e sua madre, quest'ultima verso il muro e coperta con un bianco lenzuolo i cui lembi erano stati spostati dalla corrente d'aria che entrava dalla finestra infranta, sì da rivelare il volto esangue, scavato, improntato a un'espressione di terrore. Accanto a lei, Lucy, il volto pallido e ancor più marmoreo ...”
Lucy, i leggeri, immacolati, candidi, vestimenti che fluttuano nel vento notturno di Londra bruttati dallo scarlatto di pasti abominevoli ... Ma in Stoker il bianco, colore della morte e del male, diviene anche simbolo dell'Altro, del Nemico, del diverso. Il Conte, infatti, proviene dai Carpazi, da una terra fredda, petrosa, barbarica, crudele, tradizionale, agreste, misteriosa, promiscua; egli deve essere distrutto in nome della civiltà anglosassone (tra i suoi giustizieri compare anche un texano), chiara, definita, scientifica, metropolitana, raziocinante, istituzionalmente inibita e calda come gli interni borghesi dei coniugi Harker. Werner Herzog, in Nosferatu, coglie alla perfezione questo sommo contrasto alternando, all'inizio della pellicola, il volo di un pipistrello in un freddo ossario, e la tiepida quiete domestica di casa Harker, dove un delizioso gattino gioca con un medaglione.
E l’Altro, il non-civilizzato, il non-inglese è anche portatore di una sensualità non ritualizzata dalle istituzioni, immonda e repellente:
“Inginocchiata sull'orlo del letto, girando le spalle al marito, era la figura biancovestita di sua moglie, e accanto a lei un uomo alto, magro, nerovestito. Non guardava verso di noi, ma all'istante tutti abbiamo riconosciuto in lui il Conte ... con la mano sinistra stringeva quelle della signora Harker, bloccandogliele dietro il dorso; con la mano destra le aveva afferrato il collo, obbligandola a chinare il volto verso il proprio petto. La bianca camicia da notte era sporca di sangue, e un rivolo scorreva sul petto nudo dell'uomo che s'era aperto l'abito. La posizione dei due aveva una terribile somiglianza con l'immagine di un bambino che caccia il naso di un gatto in un piattino di latte per obbligarlo a bere”
L'ossessione per il bianco, in Stoker, si esplicita ancora ne La dama del sudario (1909). Il protagonista, Rupert Sent Leger si innamora di una fanciulla, Teuta. La scorge dapprima, come una novella Lucy, in un paesaggio notturno, illuminato dalla luce lunare; simile a un lampo, ella si aggira fra oggetti altrettanto nivei, vasi statue e urne del giardino, fra sabbia chiara e cespugli bianchi e spettrali:
"Fuori, sulla terrazza, illuminata dalla luce della luna che ora si era fatta piu vivida, stava una donna avvolta in un sudario candido. L'indumento era fradicio e l'acqua che gocciolava sul pavimento di marmo formava una pozzanghera che si allargava lentamente sui gradini umidi ... Era giovane, bellissima, ma pallida ... nel candore del suo viso, che la faceva apparire come il marmo sui cui posava i piedi, gli occhi scuri sembravano splendere di una strana, seducente luminosità, e perfino nel misterioso chiarore lunare, che dopotutto è più ingannevole che illuminante, non potei non notarne la bellezza ..."
E Stoker chiuderà la propria carriera letteraria con La tana del verme bianco (1911), romanzo ispirato a una leggenda locale, in cui il colore si identifica, ancora una volta, col proibito, il mostruoso, il celato, in opposizione alla solarità delle istituzioni e della civiltà.
[CONTINUA]
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