Arrivo all'Aquila nel primo pomeriggio e la luce di fine agosto, ancora abbagliante, mi fa socchiudere gli occhi. Poi capisco che c'entra poco il bagliore del sole pomeridiano: guardare la città sin dalla periferia, è già cogliere un'atmosfera irreale, sospesa, che domina il luogo, lo cattura. Sembra di entrare in un tempio sconsacrato dall'ingiuria della natura e, immancabile, forse anche da quella perpretata dagli uomini: mentalmente mi faccio il segno della croce, credo per rispetto al luogo, ai morti, alle persone che vi abitano, che vi transitano. Ho posteggiato un po' lontano dal centro storico, spinta fuori dai divieti di accesso dovuti alla festa della Perdonanza, come mi informa un'edicolante che con modi gentili m'invita a spostare la macchina. Vada a vedere la festa, ne vale la pena, aggiunge, suggerendomi la strada per trovare senza problemi, mi assicura, un parcheggio. In effetti trovo subito dove sistemare l'auto, anche se dovrò camminare un po' per raggiungere il centro. Ci penso su indecisa sul da farsi: decido di lasciare che siano gli eventi a trovarmi e m'incammino.
Pina, di Pescocostanzo, in visita alla sorella, è una sconosciuta alla quale chiedo se la direzione che ho preso è giusta e spontaneamente mi invita a unirmi a lei, perché abbiamo la stessa meta, dice.
È alta, un po' segaligna, il viso segnato da rughe che la invecchiano di qualche anno, cammina come chi sa andare in montagna, coordina passo e respiro senza spingere, senza forzare, come invece sto facendo io, presa dalla smania di andare, quasi avessi un appuntamento. Sulle scale mi giro e la vedo salire con un'andatura continua, senza strappi, rassicurante, il respiro regolare. Troppo d'impulso la prendi, mi rimprovera dolcemente. La guardo, le do ragione e mi sembra di conoscerla da sempre. Recuperata un'andatura calma, le chiedo un po' di notizie per cominciare a orientarmi, ancora frastornata dalla novità della festa che mi cambia il programma che avevo pensato. Si mostra disponibile, anzi contenta di avermi con lei, di parlarmi della città e di indicarmi come svicolare tra la folla che perimetra le vie principali del centro, quelle aperte, di aiutarmi a guadagnare posizioni buone per fare qualche fotografia. A tratti sono come stordita, le persone mi fanno spazio, penso che la macchina fotografica sia come il pancione quando sei incinta, un lasciapassare, senza intoppi, anzi gli altri ti sorridono, semplicemente, in modo aperto, accogliente, sei lì e il fatto di esserci attribuisce valore alla ricorrenza molto sentita in città, importante, presieduta da qualche notabile cittadino, un cardinale in rappresentanza del Vaticano, presente anche una carica politica dell'attuale governo nazionale. Salgo sopra una colonnina dove il mio cicerone mi ha invitato a salire per vedere meglio il corteo che sfila con gli abiti d'epoca. Condivido lo spazio esiguo con un signore che mi parla della città dopo il terremoto, vedendomi indugiare con lo sguardo sui palazzi delle due vie che s'incrociano: mutilati da impalcature di ferro, di legni incrociati a sostegno delle finestre, di coperture plastificate che li nascondono del tutto. È uno di quelli che ha avuto la casa distrutta e ora vive in una delle New Town. Gli chiedo conferma se sono quelle che ho incontrato prima di svoltare e inerpicarmi verso la città, fuori mano, vicine alla strada statale, sembrano palazzi di cartone colorato e mi chiedo cosa me lo faccia pensare. Forse i colori , la forma che li fanno apparire come giocattoli con le finestre che sembrano quelle disegnate sui libri dei bambini. Scambiamo qualche frase sulle New Town e io azzardo un commento negativo su quegli agglomerati costosi e comunque troppo distanti dalla città e da eventuali luoghi dove facilitare l'aggregazione e riprodurre l'esperienza, seppur parziale, della comunità. Ma lui dice subito, con una certa fermezza, che comunque sono servite perché non si sapeva dove stare e questo bisogno supera ogni altra considerazione, per lo meno la mette in secondo piano. Tra me penso che le idee e le valutazioni intorno alla politica che i cittadini maturano in merito a progetti relativi alla cosa pubblica, lasciano in casi estremi il passo al bisogno di sopravvivenza, di immaginare un presente per avere un futuro anche partendo dal nulla o dal poco nel quale si trovano brutalmente a dover vivere. I traumi dovuti alle catastrofi annullano dalla coscienza pensieri impensabili, carichi come sono di emotività insostenibile, che scompigliano ulteriormente quella minima e indispensabile organizzazione mentale necessaria per non perdersi in un certo terrore angoscioso, senza ritorno. Guardo il profilo del mio compagno di equilibrio precario, sopra la colonnina che ci permette una visione più ampia del contesto nel quale siamo, e rinunzio a specificare meglio idee e opinioni che risulterebbero fuori contesto. Ha voglia di sentirsi allegro e senza pensieri, così come gli altri attorno a noi.
È alta, un po' segaligna, il viso segnato da rughe che la invecchiano di qualche anno, cammina come chi sa andare in montagna, coordina passo e respiro senza spingere, senza forzare, come invece sto facendo io, presa dalla smania di andare, quasi avessi un appuntamento. Sulle scale mi giro e la vedo salire con un'andatura continua, senza strappi, rassicurante, il respiro regolare. Troppo d'impulso la prendi, mi rimprovera dolcemente. La guardo, le do ragione e mi sembra di conoscerla da sempre. Recuperata un'andatura calma, le chiedo un po' di notizie per cominciare a orientarmi, ancora frastornata dalla novità della festa che mi cambia il programma che avevo pensato. Si mostra disponibile, anzi contenta di avermi con lei, di parlarmi della città e di indicarmi come svicolare tra la folla che perimetra le vie principali del centro, quelle aperte, di aiutarmi a guadagnare posizioni buone per fare qualche fotografia. A tratti sono come stordita, le persone mi fanno spazio, penso che la macchina fotografica sia come il pancione quando sei incinta, un lasciapassare, senza intoppi, anzi gli altri ti sorridono, semplicemente, in modo aperto, accogliente, sei lì e il fatto di esserci attribuisce valore alla ricorrenza molto sentita in città, importante, presieduta da qualche notabile cittadino, un cardinale in rappresentanza del Vaticano, presente anche una carica politica dell'attuale governo nazionale. Salgo sopra una colonnina dove il mio cicerone mi ha invitato a salire per vedere meglio il corteo che sfila con gli abiti d'epoca. Condivido lo spazio esiguo con un signore che mi parla della città dopo il terremoto, vedendomi indugiare con lo sguardo sui palazzi delle due vie che s'incrociano: mutilati da impalcature di ferro, di legni incrociati a sostegno delle finestre, di coperture plastificate che li nascondono del tutto. È uno di quelli che ha avuto la casa distrutta e ora vive in una delle New Town. Gli chiedo conferma se sono quelle che ho incontrato prima di svoltare e inerpicarmi verso la città, fuori mano, vicine alla strada statale, sembrano palazzi di cartone colorato e mi chiedo cosa me lo faccia pensare. Forse i colori , la forma che li fanno apparire come giocattoli con le finestre che sembrano quelle disegnate sui libri dei bambini. Scambiamo qualche frase sulle New Town e io azzardo un commento negativo su quegli agglomerati costosi e comunque troppo distanti dalla città e da eventuali luoghi dove facilitare l'aggregazione e riprodurre l'esperienza, seppur parziale, della comunità. Ma lui dice subito, con una certa fermezza, che comunque sono servite perché non si sapeva dove stare e questo bisogno supera ogni altra considerazione, per lo meno la mette in secondo piano. Tra me penso che le idee e le valutazioni intorno alla politica che i cittadini maturano in merito a progetti relativi alla cosa pubblica, lasciano in casi estremi il passo al bisogno di sopravvivenza, di immaginare un presente per avere un futuro anche partendo dal nulla o dal poco nel quale si trovano brutalmente a dover vivere. I traumi dovuti alle catastrofi annullano dalla coscienza pensieri impensabili, carichi come sono di emotività insostenibile, che scompigliano ulteriormente quella minima e indispensabile organizzazione mentale necessaria per non perdersi in un certo terrore angoscioso, senza ritorno. Guardo il profilo del mio compagno di equilibrio precario, sopra la colonnina che ci permette una visione più ampia del contesto nel quale siamo, e rinunzio a specificare meglio idee e opinioni che risulterebbero fuori contesto. Ha voglia di sentirsi allegro e senza pensieri, così come gli altri attorno a noi.
C'è anche il papa Celestino V che accenna bonariamente a benedizioni verso le persone, il viso rubicondo di un interprete molto divertito nel ruolo assegnatogli. Scatto qualche foto letteralmente spinta da Pina in avanti rispetto al capannello di gente che mi fa spazio, mi lascia fare, indirizzandomi sguardi curiosi. Poi la mia guida mi invita a dirigerci verso Santa Maria di Collemaggio, per prendere posizione e vedere la spianata verdeggiante dove è la Basilica. Strada facendo, allontanandoci dalle strade del centro storico, mi spiega come le case sono ancora parzialmente abitate, perché all'interno pavimenti e muri sono ritenuti pericolanti. Gusci vuoti, ma le facciate ben pitturate aiutano a sostenere forse la speranza di poterle riabitare. La sensazione però di essere in una location cinematografica rimane, drammaticamente, perché oltre le facciate si percepisce - quando non lo si vede - il vuoto, occupato da tubi di ferro variamente intersecati che disegnano geometrie ripetitive, creano connessioni e intrecci fra muri che s'innalzano monchi, solitari, segno di una mancanza, di una perdita che frattura un senso di compiuta e indispensabile unità.
La facciata romanica della basilica di Collemaggio svetta in alto, sola a reggere la bellezza naturale del paesaggio. Sull'enorme spiazzo erboso gli addetti sistemano le transenne per formare i corridoi dove il corteo storico giungerà a destinazione. In attesa del rito religioso, scambio ancora qualche informazione con la mia guida improvvisata circa la perdonanza celestiniana . La Bolla della "Perdonanza" di Papa Celestino V è un giubileo che si svolge dal 1294 ed è tra i più antichi della cristianità. Subito dopo l'incoronazione, Celestino V concesse una indulgenza plenaria, la Perdonanza, a chi avesse visitato, oltrepassando la Porta Santa, la basilica. E questo, da allora, accade ogni anno dai vespri del 28 agosto a quelli del 29. Prima delle dimissioni, Celestino V donò alla città la Bolla del Perdono, e il corteo della Bolla, al quale partecipano circa un migliaio di figuranti, è coevo al rito del Perdono.
Per non perderci, mi dice Pina, meglio prendersi per mano, in fila per oltrepassare la Porta Santa e avere così l'indulgenza e il perdono. Mentre sento la presa decisa della sua mano, faccio mia la sua spontaneità, la depuro molto facilmente, direi, da atteggiamenti che tenderebbero a mantenere una certa distanza. Intanto la mia dimensione laica mi impone di scattare comunque una fotografia prima e dopo aver oltrepassato la Soglia Santa, alla ricerca di elementi artistici e simbolici.
L'accesso è consentito solo a piccoli gruppi, ed è un passaggio veloce, perché l'interno della basilica è ancora totalmente puntellato da ponteggi e non si può andare al di là di un paio di metri dopo la Porta. Una certa delusione si fa strada, ce lo diciamo con gli occhi. Guardare non è essenziale, è bisogno di prendere. è legarsi al ricordo, alla nostalgia, non è attraversare i luoghi.
Rientro in quella dimensione che mi fa sentire in viaggio e brevemente ne parliamo con Pina, e sempre più lei mi sembra come scolpita in una sapienza ingenua, immediata, aderente alla vita. E anche in questo senso aggiunge, in modo disarmante, che però le dispiace aver percorso un così breve tratto dopo l'ingresso attraverso la soglia Santa.
La città di notte
Quando tutto si conclude sono le 21, e Pina con slancio mi comunica che mi può accompagnare verso il centro storico: quello che resta, specifica . Il fatto di essere in due la fa sentire più al sicuro. Strada facendo, snocciola ricordi dei suoi soggiorni all'Aquila: si andava a teatro, all'auditorium, al cinema, al ristorante. Ora, aggiunge, tutto questo non è possibile. Mi guardo intorno e vedo il buio delle strade non illuminate, le finestre disertate dalla luce, transenne all'ingresso di vie che non sono più tali, presidiate da soldati di leva, ed è difficile immaginarle brulicanti della vita di un tempo. Insegne sbilenche e impolverate di negozi chiusi indicano la desolazione che avvolge ancora quelle strade.
La paura di cui parla Pina, l'insicurezza di camminare di notte al centro della città ora riesco a comprenderla meglio: una paura che trae fondamento dal rapporto diretto con l'inabitabilità di quei contesti, luoghi che non riescono (e non vogliono, mi viene da dire) nascondere l'irruzione aberrante della morte, e del non-senso che sempre porta con sé.
Le macerie e i ponteggi che s'inerpicano nel vuoto verticale cercando possibili punti di chiusura per circoscriverlo di nuovo, così da abitarlo, creano allo stesso tempo un senso di precarietà e di pericolo, con il buio che incombe dovunque, amplificato da un silenzio difficile da raccontare. La paura è anche la sensazione forte di far parte di un tempo congelato che pietrifica e tale realtà vissuta cattura la metafora, il senso che propone.
La memoria è un viatico per superare, ricordando, la sensazione di camminare costantemente sul bordo di un baratro. Ed è necessaria per tornare a costruire la speranza, il coraggio, il poter vivere in una '”vera” comunità, con piazze e strade che intercettino bisogni di inscrizione identitaria sul piano sociale, culturale. Le fotografie scattate subito dopo il terremoto, attaccate l'una con l'altra alle colonne che si affacciano sul Corso, sono lì per aiutare a non rimuovere dalla propria consapevolezza ciò che è avvenuto ed è stato vissuto. Rappresentano forse anche un modo per ricordare gli sforzi fatti e quelli ancora da attuare, per la ricostruzione della città.
L'aver avuto drammaticamente a che fare con un elemento naturale come il terremoto, significa convivere con il terrore che riappare in alcuni momenti della giornata. Laura, romana trapiantata da decenni a L'Aquila, mi dice che ogni sera, prima di coricarsi, deve consultare il bollettino sismico, altrimenti non si sente tranquilla, deve avere il cellulare a portata di mano perché quella notte, al riparo sotto un'architrave di una porta, non poteva muoversi per andare a rispondere alle telefonate dei familiari che cercavano di sapere se era viva o morta.
Dopo le 21 le vie percorribili mostrano dove e in che modo i giovani si incontrano. Bar e tavoli e sedie sono sistemati in strada, gruppi di ragazzi orbitano intorno a questi posti di ristoro mobili, altri sono seduti sotto il portico di un palazzo, che accoglie uffici, integro e solido nei marmi bianchi.
Mentre ripercorriamo la via di ritorno verso la macchina e attraversiamo quartieri non investiti fortemente dalle scosse sismiche, anch'essi appaiono come disabitati e non solo perché siamo in agosto. Incontriamo altri gruppetti sparuti di ragazzi che raggiungono il centro, qualche locale aperto con poca gente ai tavoli, forse sono ancora fuori in vacanza, altri hanno deciso di andare ad abitare in qualche paese della costa, non riuscendo più a convivere con la paura, per sé e per i propri figli, così come ha fatto mesi fa la figlia di Laura.
I saluti che ci scambiamo con Pina sono essenziali e sinceri, così come si è mostrata questa città, in tutto ciò che resterà probabilmente immutato e in quello che, invece, potrà rinascere.
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