Nella storia di Monteverdelegge i cani giocano un ruolo importantissimo, anzi cruciale: senza Barnie, Lilli, Tempesta, l'associazione, semplicemente, non esisterebbe (o forse sì, ma sarebbe tutta un'altra cosa). Per questo - ma non solo per questo - pubblichiamo volentieri questo racconto lungo di Marta Ancona, biografia di un cane e insieme descrizione di un lungo, appassionante, apprendistato amoroso.
Marta Ancona
Caro Paco,
ho sperato fino alla fine che mi
avresti risparmiato la dolorosa decisione. Che ci avresti pensato da
solo. Invece non è stato così. Hai resistito per farmi piacere? E’
possibile, conoscendoti.
Non dimenticherò mai il tuo
camminare incerto, disorientato, sempre più incerto e sempre più
disorientato degli ultimi giorni. Non dimenticherò mai il tuo
sguardo, occhi neri. La fatica e la paura dello scendere le scale, lo
smarrimento di fronte a un compito sovrumano, ma anche la fiducia che
avrei saputo aiutarti.
Non dimenticherò mai come ti
fermavi a ogni rampa per risalire, ti accarezzavo per farti
riprendere fiato e aiutarti a rilassarti, a calmare l’affanno. Il
tempo d’attesa si faceva via via più lungo.
La gioia del nostro primo incontro
(un colpo di fulmine, da parte mia) non sembrava contenere tutto ciò.
Ma anche se fossi stata capace di leggervelo avrei certamente
cacciato con un gesto la visione, incredula, in una presunzione di
immortalità. E se anche mi ci fossi soffermata, sono certa che alla
fine ti avrei scelto lo stesso.
Nei tredici anni che abbiamo passato
insieme ho imparato molte cose che proprio non sapevo, ho imparato
più cose sulla natura umana dalla tua animalità che da una vita di
studi. So da te che cos’è l’abbandonarsi, la fiducia assoluta.
Il tuo fidarti di me, il tuo perdonarmi le assenze e anche i
tradimenti mi ha sempre spiazzato, non è possibile, mi dicevo, che
mi accolga sempre come se non esistesse altra felicità al
mondo!.................
Cominciavo così due anni fa un
omaggio a Paco. Era morto da qualche settimana, l’emozione dovuta
agli ultimi tempi travagliati sussisteva intatta, ma non riuscii ad
andare avanti. Non riuscivo a mettere ordine nei sentimenti.
Solo di recente la richiesta di un
amico, lontano nel tempo e nello spazio, di parlargli di Paco, ha
riaperto l’argomento. Non è facile. Qualsiasi cosa scriva o dica è
troppo poco, troppo poco importante. L’eccesso di emozione può
paradossalmente “ raffreddare” il racconto. Tuttavia desidero
tentare, con la consapevolezza dei limiti che io stessa mi impongo.
Potrei diffondermi, narrare una
infinità di episodi, proprio la nostra vita insieme, ma non voglio.
Preferisco tratteggiare la forma di un incontro, dare qualche lampo,
lasciando il resto alla mia memoria e alla memoria o fantasia di chi
legge.
***
Devo in un certo senso a Lucia il
merito, se così si può chiamare, delle pagine che seguono. Alla sua
adolescenza, improvvisamente segnata da un doppio dolore – la
drammatica, prematura morte del padre di un suo carissimo amico e
suo amico egli stesso, e la fine di un amore, importante per quanto
precoce o perché precoce.
Questa somma di dolori, di sparizioni,
in aggiunta alla perenne latitanza del padre, prepararono il terreno
per una richiesta, che ebbe la forza di un imperativo categorico, al
quale non fui in grado di sottrarmi.
Non fui in grado di sottrarmi perché
io stessa cominciavo a vivere un lutto: vedevo allontanarsi da me
quella piccola compagna di confidenze, e pian piano scomparire dal
mio orizzonte affettivo quello che sin lì era stato - non provo
imbarazzo a dirlo trattandosi di assoluta verità - il bastone del
mio equilibrio psichico, il punto d’appoggio, il riferimento
principale che mi aveva consentito di vivere senza “sbroccare”
del tutto.
Tale dichiarazione conferma in via
definitiva la diagnosi di una psicologa che segnalava come nel
vissuto di Lucia io fossi più una sorella maggiore che una madre.
Ne è dimostrazione il fatto che per otto anni (come segnalato dai
molti sogni) sul lettino dello psicanalista io portai ad
accompagnarmi Lucia, la bimbetta dalla pelle ambrata, la pesante
frangetta e le lunghe ciglia nere, portai lei e il mio rapporto con
la sua (mia?) infanzia. Ma è solo adesso che sono in grado di vedere
“con la giusta distanza” i motivi sotterranei, inconsci, del mio
agire di allora. E forse solo in parte.
“Mamma, voglio un cane” se ne era
uscita un giorno.
“Un cane? Ma non sarai mica matta?”
“No, non sono matta, ne ho bisogno,
ne ho tanto bisogno, ti giuro, ti giuro, mamma, ci penso io,
farò tutto io, tu non dovrai preoccuparti di niente”.
Hmmm! Cominciai a visualizzare la cosa,
mi sembrava un azzardo, un salto nel buio, ma nel contempo l’immagine
lavorava dentro di me, proprio l’immagine del cucciolo, quello che
stava scomparendo dalla mia vita, e così, senza calcolare tutti i
“contro” della questione, mi attaccai ai soli “pro”.
Avevo poche idee certe, per esempio non
volevo prenderlo al canile municipale, per via di un’esperienza
precedente che racconterò e della quale ancora mi vergogno, volevo
un meticcio, quello che prima con orribile termine di stampo razzista
veniva chiamato bastardo, volevo un vero cane, non un
giocattolo da grembo, quindi di stazza medio-grande, e non volevo
pagarlo.
Cominciai a leggere gli annunci su
Porta Portese, e subito ne trovai uno che sembrava fare al
caso nostro. Una veterinaria, che abitava in campagna, assai vicino a
mio padre, presso Sacrofano, offriva due cuccioli di circa cinque
mesi, vaccinati, curati con il calcio, ben nutriti, ecc. Presi
appuntamento e andammo a scegliere.
Uno dei cuccioli era una femmina, nera,
lucida, carina, ma vidi subito che era troppo nevrile, frenetica,
richiedente, bisognosa; capii che mi avrebbe dato il nervoso, ero già
troppo bisognosa io per sopportare l’idea di un altro bisognoso
accanto a me; inoltre pensavo con orrore ai periodi dell’estro,
alla sterilizzazione, uno strazio; l’altro era un maschio bianco,
dall’aria dolcissima, timida. Lucia ed io ci guardammo, non c’era
bisogno di dirsi niente, avevamo scelto entrambe il maschio bianco.
Unica notizia certa la madre (per la serie che pater sempre
incertus), una dalmata non meglio identificata. Il padre doveva
aggirarsi tra un pastore maremmano e un Labrador, a giudicare
dall’aspetto, entrambi di mio gradimento, sia pure per ragioni
opposte.
Dopo che la veterinaria ebbe fornito
tutte le istruzioni del caso, sull’alimentazione, le vaccinazioni,
il comportamento, (per es. non aveva ancora imparato a gestire gli
sfinteri, avendo vissuto su un terrazzo, libero di fare i suoi
bisogni dappertutto) le passeggiate, ecc., lo caricammo sulla
macchina, sedile posteriore, e ci avviammo a casa.
Dopo una prima accoglienza festosa, il
cucciolo bianco (non avevamo ancora scelto un nome) si depresse:
portato via dalla sua casa e dalla sua compagna, era visibilmente
preoccupato, tanto che, una volta giunte a destinazione, si infilò
sotto una credenza e per parecchio tempo non ne volle sapere di
venire fuori.
Nel frattempo avevamo comprato alcuni
degli attrezzi indispensabili, collare, museruola (mai adoperata),
guinzaglio, ciotola…., ai quali altri se ne sarebbero aggiunti,
perché quasi niente andava bene, né per misura né per qualità.
Il cucciolo era al limite della
disperazione, spaventato, ma poi a furia di carezze e leccornie
riuscimmo a conquistarlo e stanarlo dai nascondigli che sceglieva per
proteggersi.
Passammo alla scelta del nome: il cane
era di Lucia, che studiava flamenco e chitarra classica, e allora io
in un lampo di genio proclamai che il nome non poteva essere che
Paco, Paco de Lucia, il noto chitarrista di origine
gitana, molto ascoltato in quegli anni! Era il 1992, mese di maggio,
era poco meno di un anno che ci eravamo trasferite nella casa di
Monteverde Vecchio.
L’idea piacque a entrambe, in effetti
era divertente, il fatto è che in capo a due o tre mesi Paco (de
Lucia) divenne Paco (de Marta) e allora non fu più particolarmente
divertente.
I primissimi tempi furono molto
faticosi, dovevamo portarlo fuori almeno cinque volte al giorno, per
insegnargli a fare i suoi bisogni solo fuori casa, io dovevo alzarmi
all’alba per fargli fare una passeggiata di almeno un’ora
e mezza prima di andare alla Treccani. Poi, una volta tornata a casa,
dovevo tentare più o meno di asciugarlo, perché si buttava
regolarmente nella fontana e poi si rotolava nella terra, e insomma
tornava a casa ricoperto di una schifosa fanghiglia che rilasciava
lentamente man mano che si asciugava, ritornando candido come un
angelo, riducendo in compenso il pavimento di casa a superficie
scricchiolante. Dovevo passare l’aspirapolvere quotidianamente e
con i restanti impegni che avevo la vita mi si era complicata
oltremodo. Oltre a ciò Paco faceva molti danni, graffiava
disperatamente i muri o mangiucchiava tutto quello che poteva, quando
uscivo per andare al lavoro e lo lasciavo solo.
Avevo anche tentato di portarlo alla
Treccani, ma riuscii a farlo accettare solo eccezionalmente. Alla
fine dovetti studiare una soluzione che consentisse a Paco di non
impazzire di solitudine e a me di non impazzire per i casini che
combinava. La mattina, dopo la passeggiata, lo portavo a casa di mia
madre che abitava a cinquanta metri da casa mia, per fortuna, e lì
lo lasciavo fino al mio ritorno.
Cominciavo finalmente a vedere i
“contro”. Nel contempo il lavoro alla Treccani era diventato
tempo pieno, orario continuato, il lavoro in casa aumentava, e Lucia
non solo abbandonava me, ma anche il cane che con tanta irruenza
aveva preteso. Iniziava la sua ricerca di autonomia, l’affrancamento,
la differenziazione. Benché razionalmente mi aspettassi quella
metamorfosi, facevo grande fatica ad accettarla pienamente: qualsiasi
mutamento profondo è uno shock.
Io non sapevo niente di cani,
ero completamente all’oscuro dei loro comportamenti, ne avevo
perfino paura, con gli anni avevo sviluppato una diffidenza nei loro
confronti che bastava che un cagnetto, anche di piccola taglia, mi
corresse incontro abbaiando che io me la facevo sotto dalla paura e
desideravo scappare. Non conoscevo né i segni né il senso del loro
linguaggio, dovevo imparare tutto da capo, dovevo studiare.
Comprai dei libri, li lessi, ma
soprattutto cominciai ad osservare Paco e gli altri cani, e i loro
padroni, dovevo imparare, chiedevo, parlavo, mi si schiudeva un mondo
incredibile di segni precisi, inequivocabili, un mondo affascinante.
Ma mi ci volle molto, molto tempo, e molta, molta cura.
Prima di addentrarmi in questa
esperienza fondamentale della mia vita, voglio parlare delle altre
due, brevissime.
La prima vede un alano femmina, nera e
bianca, gigantesca, bellissima, o bellissima io la ricordo. Forse
questo imprinting sulla dimensione ha contribuito a farmi considerare
“veri” solo i cani di taglia extralarge, già la taglia di Paco,
infatti, era un compromesso, avrei preso un Terranova, un
Sanbernardo, se fosse dipeso solo da me, dal mio immaginario.
Questa femmina, che rispondeva allo
strano nome di Partenope (e rispondeva, veramente!), era stato un
capriccio di mio padre, che se ne era innamorato al tempo in cui
vivevamo ancora a Napoli. Gliel’aveva mostrata un allevatore che
si trovava vicino a casa nostra, a Mergellina, dal quale acquistavamo
le uova freschissime per il “pupo” nuovo (Giancarlo), e forse
anche per me, suppongo. Quale fosse il legame tra l’allevamento di
cani e le uova fresche non me lo chiesi allora che avevo 8-9 anni, e
adesso non saprei rispondermi.
La scelta del nome fu dovuta alla
fantasia di mio padre, al suo sarcasmo nei confronti della città
partenopea, che suscitava in lui emozioni opposte, di odio-amore.
Forse più odio che amore. Città che in ogni caso veniva associata
alla delinquenza, alla sozzeria, al disordine, all’illegalità.
Partenope venne chiamata così,
poveretta, perché non poté ricevere le dovute attenzioni
pedagogiche e quindi faceva regolarmente i suoi bisogni nella casa di
Roma dove nel frattempo la RAI aveva trasferito mio padre, che vi
viveva da solo con lei, in attesa che potesse raggiungerlo sua
moglie, con noi due figli. I ricordi non sono proprio limpidissimi,
so per certo che la quarta elementare io la frequentai a Roma, da
sola con mio padre e una domestica che viveva con noi. Ma Partenope?
C’era già? C’era ancora? O era stata già mandata via?
Allora non avevo alcuna paura dei cani,
di qualunque taglia fossero: infatti infilavo tranquillamente le mani
nelle sue fauci, senza timore che me le facesse sparire.
Ricordo le feste che faceva quando mio
padre non aveva ancora superato il cancello di casa nostra,
sbattendo la lunga sottile coda all’impazzata, fino a farsi venire
quello che i veterinari chiamavano il “cancro” della coda, una
ferita che non si rimargina mai. Ricordo la fierezza di uscire la
sera con lui e con Partenope, quel mio sentirmi partecipe di una cosa
così importante, con un animale così elegante, imponente, che i
passanti visibilmente temevano, e mio padre per questo rideva sotto i
baffi, che era una cosa che mi piaceva tanto.
So, dai racconti che lui stesso faceva
del periodo in cui era stato solo con Partenope, che la picchiava,
quando trovava i suoi escrementi in casa, con una specie di scudiscio
che la faceva guaire. La cosa mi fa tanto più orrore per quanto poco
corrisponde alla tenerezza, attenzione, cura con le quali gli ho
sempre visto trattare bestie e piante. Forse era esacerbato dalla
solitudine, non so, dal suo essere impreparato a vivere da solo,
dovendo avere cura, oltre che di sé stesso, anche di un altro essere
vivente, ed essendo assolutamente incapace di cuocersi anche solo un
uovo al tegamino….
Fatto sta che dopo sei mesi (un anno?)
in tutta segretezza i miei genitori decisero che non potevano
permettersi di tenere un cane di qualsiasi razza o dimensione, e
tanto meno di quella taglia. Forse c’erano anche ragioni di ordine
economico, non so, certo allora si viveva assai modestamente, la
guerra era finita da pochi anni, soldi ne giravano pochissimi, e quel
bestione consumava quantità industriali di carne, mentre noi ce la
potevamo permettere sì e no un paio di volte a settimana.
Era naturale che considerazioni di
tale natura mi vedessero assolutamente indifferente, capivo solo che
mi stavano strappando una compagna fantastica, una calda presenza che
mi ripagava del pesante ingombro costituito da quell’adorabile
angioletto di mio fratello, così perfetto, così bello biondo e
riccio che nemmeno Gesù bambino! Io lo adoravo quell’angioletto,
per la verità, forse perché adorarlo era tra le poche carte da
giocare per ambire ad avere anch’io un po’ di amore ed essere
accettata dal pubblico che andava in visibilio per lui. Ma il cane
no, non me lo dovevano portare via.
Partenope uscì dalla mia vita con le
stesse modalità con le quali vi era entrata: io non avevo avuto
parte alcuna. Fu un dolore terribile, rispetto al quale i miei
sembrarono del tutto impassibili.
Da quella alla seconda esperienza
“canina” intercorrono tra i venti e i venticinque anni, più o
meno.
(1 - continua)
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