Marta Ancona
Amore. Con Paco io ho sentito
che l’amore ha un corpo, non il corpo di chi ama, il mio, il
suo, ma un corpo “tra”, ha una sua consistenza, una densità
tangibile. E’ quello che correva da lui e si propagava a me, per
esempio, quando si accasciava con un sospiro, come di massimo
appagamento – un SOSPIRO – sistemandosi accanto a me una volta
che io avessi conquistato una posizione stabile, come leggere o
guardare la televisione, oppure anche quando andavo a letto e lui mi
seguiva nella mia camera. Sentivo una sostanza tra me e lui, e del
suo sentirsi appagato mi appagavo anch’io, forse anch’io
sospiravo, non saprei.
Qualsiasi essere riempie in qualche
modo di sé lo spazio in cui vive, si muove, e la sua assenza si
nota. Ma forse non si riesce a immaginare fino a che punto un cane
riempia lo spazio comune, lo spazio della relazione, come Paco
riempisse il nostro spazio e quanto vuoto si creasse quando mancava,
quanto vuoto si sia creato quando è morto. Ogni mio gesto era
accompagnato da una risposta, e in sua mancanza istintivamente mi
volgevo intorno per cercare l’origine di quel vuoto che avrebbe
dovuto essere riempito. Questione di attimi, certo, mi riappropriavo
immediatamente della realtà, ma…
Sono passati due anni e mezzo dalla sua
morte, e spesso il mio pensiero va a lui, sempre con grande emozione,
come quando incontro un cane che vagamente gli somiglia e il cuore mi
balza in petto. Mi immagino inginocchiata al suo fianco come migliaia
di altre volte, lo abbraccio, la faccia affondata tra il folto pelame
del collo, la sua testa sulla mia spalla, ne annuso il forte odore
di sebo, avverto il suo calore, la consistenza dei peli, li sento
concretamente fisicamente, quella caratteristica ruvidezza, accolgo
il respiro caldo, il suo lieve ansimare e il battito cardiaco, è
ancora completamente vivo accanto a me.
Eppure sono stata proprio io ad
accompagnarlo sull’altra sponda, lo carezzavo mentre il giovane
veterinario gli somministrava i farmaci che dovevano dargli la dolce
morte, e un amico teneva compagnia a me. Prima gli avevo fatto fare
l’ultima “passeggiata” – arduo definirla tale – e
incontrato l’amico di cane da tanti anni. “Ti volevo dire di
salutarlo” l’ho apostrofato, e lui ha immediatamente capito.
Avevo il groppo in gola, ma non riuscivo a piangere, per la verità
non ricordo né se ho pianto né se non ho pianto, avevo una
confusione, e un dolore!
L’operazione fatale in sé non è
stata drammatica, temevo le reazioni fisiche di Paco, ma invece è
stata per davvero una dolce morte, tanto che mi sono chiesta come mai
negli Stati Uniti tanto spesso si verificano episodi strazianti nella
sala della morte, inspiegabili con le tecnologie moderne. Già è
mostruoso scegliere di uccidere un nostro simile, ma rendere anche
fisicamente intollerabile il trapasso è una cosa che non riesco ad
accettare.
Paco era adagiato su una coperta, e non
dimenticherò mai il suo sguardo. In contemporanea era venuto mio
cognato dall’Umbria, che aveva risposto al mio desiderio di
seppellirlo in un luogo di mia conoscenza, che potessi raggiungere.
E’ sotto una quercia, accanto ad altri amici comuni. E anche se non
credo in una vita post mortem, anche se non tributo omaggi floreali
ai miei cari che giacciono sepolti a Sacrofano o a Castrovillari, so
che c’è un luogo, un luogo fisico, proprio quello lì, che nella
mia immaginazione “conserva” i resti, le ceneri, quello che sia,
l’idea, di quell’essere amato.
Non saprei dire perché me ne senta
consolata.
APPENDICE
Mi permetto di aggiungere ai miei
ricordi un articolo che Michele Serra ha pubblicato su Repubblica
appena qualche giorno dopo la morte di Paco, cioè intorno al 20
giugno 2005.
E’ uno straordinario atto d’amore,
che integra le mie brevi note. Per conservarlo meglio, a futura
memoria, l’ho perfino plastificato. Ancora oggi non riesco a
leggerlo senza piangere.
A Seul nasce Snuppy,
il primo cane clonato
Clonare il proprio cane: questa sì
che è una tentazione forte (altro che pecora Dolly), in grado di
scardinare parecchie griglie etiche…
Perché si possono avere molti cani
nella vita. Ma esiste per tutti un cane eletto (in genere il primo)
che non è rimpiazzabile, e a volte torna nei sogni come altri
archetipi (la casa dell’infanzia, l’esame di maturità, la prima
motocicletta).
Lo stesso Omero dovette imbrogliare
non poco le carte della biologia per far tornare Ulisse vent’anni
dopo dal suo Argo, per giunta ancora munito di naso quanto bastava
per riconoscere l’odore del padrone. Un caso, se vogliamo, di
clonazione poetica, un post-Argo ricreato per una scena madre alla
quale nessun cane, ahimé lui, potrebbe mai arrivare.
Un gatto magari sì, ci sono gatti
che arrivano a sfiorare i vent’anni: ma è perché il gatto è
egocentrico e pigro, il gatto è zen(1.), il cane invece è un
emotivo, si spende, si espone, si consuma,
fa cagnara: scrisse Tommasi di
Lampedusa del cane Bendicò che era dotato di una adorabile
balordaggine. Appunto.
E’ l’unico parente, il cane, che
ci lascia così presto, neanche il tempo di arrivare a festeggiare il
diploma dei figli, se è nato, come spesso accade, proprio insieme ai
figli. Lui già decrepito, i suoi ex compagni di giochi, che furono
cuccioli insieme a lui, appena adolescenti, per un disguido di
calendario davvero deplorevole, che ad ogni anno solare fa
corrispondere, dicono, sette anni canini.
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- Sul gatto e sulle profonde differenze che intercorrono tra le due specie in esame mi permetto di suggerire – allo sfortunato che ancora non l’avesse incontrata sulla sua strada - un’unica lettura. Si tratta del mirabile racconto fiabesco (una vera e propria ode al gatto, in realtà) The Cat that walked by himself, di Rudyard Kipling, che fa parte delle Just so stories, straordinariamente spiritose, fantasiose, originali. Dice assai più, quel racconto, di molti saggi di etologia. A mio parere, naturalmente.
Non so se la clonazione riesca a
ripetere, insieme al patrimonio genetico di un individuo, anche
la personalità, che nei cani è
spiccata, e influenzata (come negli uomini) dall’ambiente e dalle
esperienze. Ma certo, l’idea di
ritrovare identica, negli anni, almeno la silhouette, la sagoma
frenetica, la coda, che ha fatto da metronomo alle giornate,
attira.
La clonazione non mette in
discussione il tabù della morte, ma il tabù della vita. La scienza
ormai ci insuffla il (diabolico?) dubbio che si possa essere anche
noi gli artefici, e non solo gli oggetti, della creazione, ed è
logico che questo turbi nel profondo le coscienze religiose, e non
solo religiose. Ma in attesa che ci si metta d’accordo sul destino
degli umani, troppo complicato per farne un “qui e ora”, anche la
più occhiuta delle inquisizioni potrebbe concedere una deroga per i
cani, no?
Io che non sono animalista, perché
le bestie mi piacciono troppo per volerle sottrarre alla loro
bestiale diversità, quando è morto il mio cane, due mesi fa, mi
sono sentito come Brigitte Bardot quando è morto Roger Vadim (lo
voglio ripetere: come Brigitte Bardot quando è morto Roger
Vadim, suo grande amore). Gli scrisse un necrologio di
irripetibile semplicità e bellezza: “Ti aspetto a Saint Tropez”.
Io quel mio cane (che era una cagna)
(il sesso ha un senso, sia nel caso di Michele Serra, sia nel mio,
credo) lo aspetto dove so io, in un tal bosco, sotto un tale
cielo. Sbucasse dalla macchia un suo clone, nero e farneticante come
era lei, con tre o quattro zecche appese al collo, non credo che
sarei così scemo da sentirmi eterno. Ma contento sì, contento di
ripetere quel nome che nessuno più chiama, ed era così contento, a
sua volta, di sentirsi chiamato.
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