martedì 10 settembre 2013

La mia vita con Paco. Racconto in quattro puntate / 4


Marta Ancona
Amore. Con Paco io ho sentito che l’amore ha un corpo, non il corpo di chi ama, il mio, il suo, ma un corpo “tra”, ha una sua consistenza, una densità tangibile. E’ quello che correva da lui e si propagava a me, per esempio, quando si accasciava con un sospiro, come di massimo appagamento – un SOSPIRO – sistemandosi accanto a me una volta che io avessi conquistato una posizione stabile, come leggere o guardare la televisione, oppure anche quando andavo a letto e lui mi seguiva nella mia camera. Sentivo una sostanza tra me e lui, e del suo sentirsi appagato mi appagavo anch’io, forse anch’io sospiravo, non saprei.
Qualsiasi essere riempie in qualche modo di sé lo spazio in cui vive, si muove, e la sua assenza si nota. Ma forse non si riesce a immaginare fino a che punto un cane riempia lo spazio comune, lo spazio della relazione, come Paco riempisse il nostro spazio e quanto vuoto si creasse quando mancava, quanto vuoto si sia creato quando è morto. Ogni mio gesto era accompagnato da una risposta, e in sua mancanza istintivamente mi volgevo intorno per cercare l’origine di quel vuoto che avrebbe dovuto essere riempito. Questione di attimi, certo, mi riappropriavo immediatamente della realtà, ma…
Sono passati due anni e mezzo dalla sua morte, e spesso il mio pensiero va a lui, sempre con grande emozione, come quando incontro un cane che vagamente gli somiglia e il cuore mi balza in petto. Mi immagino inginocchiata al suo fianco come migliaia di altre volte, lo abbraccio, la faccia affondata tra il folto pelame del collo, la sua testa sulla mia spalla, ne annuso il forte odore di sebo, avverto il suo calore, la consistenza dei peli, li sento concretamente fisicamente, quella caratteristica ruvidezza, accolgo il respiro caldo, il suo lieve ansimare e il battito cardiaco, è ancora completamente vivo accanto a me.
Eppure sono stata proprio io ad accompagnarlo sull’altra sponda, lo carezzavo mentre il giovane veterinario gli somministrava i farmaci che dovevano dargli la dolce morte, e un amico teneva compagnia a me. Prima gli avevo fatto fare l’ultima “passeggiata” – arduo definirla tale – e incontrato l’amico di cane da tanti anni. “Ti volevo dire di salutarlo” l’ho apostrofato, e lui ha immediatamente capito. Avevo il groppo in gola, ma non riuscivo a piangere, per la verità non ricordo né se ho pianto né se non ho pianto, avevo una confusione, e un dolore!
L’operazione fatale in sé non è stata drammatica, temevo le reazioni fisiche di Paco, ma invece è stata per davvero una dolce morte, tanto che mi sono chiesta come mai negli Stati Uniti tanto spesso si verificano episodi strazianti nella sala della morte, inspiegabili con le tecnologie moderne. Già è mostruoso scegliere di uccidere un nostro simile, ma rendere anche fisicamente intollerabile il trapasso è una cosa che non riesco ad accettare.
Paco era adagiato su una coperta, e non dimenticherò mai il suo sguardo. In contemporanea era venuto mio cognato dall’Umbria, che aveva risposto al mio desiderio di seppellirlo in un luogo di mia conoscenza, che potessi raggiungere. E’ sotto una quercia, accanto ad altri amici comuni. E anche se non credo in una vita post mortem, anche se non tributo omaggi floreali ai miei cari che giacciono sepolti a Sacrofano o a Castrovillari, so che c’è un luogo, un luogo fisico, proprio quello lì, che nella mia immaginazione “conserva” i resti, le ceneri, quello che sia, l’idea, di quell’essere amato.
Non saprei dire perché me ne senta consolata.


APPENDICE

Mi permetto di aggiungere ai miei ricordi un articolo che Michele Serra ha pubblicato su Repubblica appena qualche giorno dopo la morte di Paco, cioè intorno al 20 giugno 2005.
E’ uno straordinario atto d’amore, che integra le mie brevi note. Per conservarlo meglio, a futura memoria, l’ho perfino plastificato. Ancora oggi non riesco a leggerlo senza piangere.
A Seul nasce Snuppy, il primo cane clonato
Clonare il proprio cane: questa sì che è una tentazione forte (altro che pecora Dolly), in grado di scardinare parecchie griglie etiche…
Perché si possono avere molti cani nella vita. Ma esiste per tutti un cane eletto (in genere il primo) che non è rimpiazzabile, e a volte torna nei sogni come altri archetipi (la casa dell’infanzia, l’esame di maturità, la prima motocicletta).
Lo stesso Omero dovette imbrogliare non poco le carte della biologia per far tornare Ulisse vent’anni dopo dal suo Argo, per giunta ancora munito di naso quanto bastava per riconoscere l’odore del padrone. Un caso, se vogliamo, di clonazione poetica, un post-Argo ricreato per una scena madre alla quale nessun cane, ahimé lui, potrebbe mai arrivare.
Un gatto magari sì, ci sono gatti che arrivano a sfiorare i vent’anni: ma è perché il gatto è egocentrico e pigro, il gatto è zen(1.), il cane invece è un emotivo, si spende, si espone, si consuma,
fa cagnara: scrisse Tommasi di Lampedusa del cane Bendicò che era dotato di una adorabile balordaggine. Appunto.
E’ l’unico parente, il cane, che ci lascia così presto, neanche il tempo di arrivare a festeggiare il diploma dei figli, se è nato, come spesso accade, proprio insieme ai figli. Lui già decrepito, i suoi ex compagni di giochi, che furono cuccioli insieme a lui, appena adolescenti, per un disguido di calendario davvero deplorevole, che ad ogni anno solare fa corrispondere, dicono, sette anni canini.
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  1. Sul gatto e sulle profonde differenze che intercorrono tra le due specie in esame mi permetto di suggerire – allo sfortunato che ancora non l’avesse incontrata sulla sua strada - un’unica lettura. Si tratta del mirabile racconto fiabesco (una vera e propria ode al gatto, in realtà) The Cat that walked by himself, di Rudyard Kipling, che fa parte delle Just so stories, straordinariamente spiritose, fantasiose, originali. Dice assai più, quel racconto, di molti saggi di etologia. A mio parere, naturalmente.

Non so se la clonazione riesca a ripetere, insieme al patrimonio genetico di un individuo, anche
la personalità, che nei cani è spiccata, e influenzata (come negli uomini) dall’ambiente e dalle
esperienze. Ma certo, l’idea di ritrovare identica, negli anni, almeno la silhouette, la sagoma frenetica, la coda, che ha fatto da metronomo alle giornate, attira.
La clonazione non mette in discussione il tabù della morte, ma il tabù della vita. La scienza ormai ci insuffla il (diabolico?) dubbio che si possa essere anche noi gli artefici, e non solo gli oggetti, della creazione, ed è logico che questo turbi nel profondo le coscienze religiose, e non solo religiose. Ma in attesa che ci si metta d’accordo sul destino degli umani, troppo complicato per farne un “qui e ora”, anche la più occhiuta delle inquisizioni potrebbe concedere una deroga per i cani, no?
Io che non sono animalista, perché le bestie mi piacciono troppo per volerle sottrarre alla loro bestiale diversità, quando è morto il mio cane, due mesi fa, mi sono sentito come Brigitte Bardot quando è morto Roger Vadim (lo voglio ripetere: come Brigitte Bardot quando è morto Roger Vadim, suo grande amore). Gli scrisse un necrologio di irripetibile semplicità e bellezza: “Ti aspetto a Saint Tropez”.
Io quel mio cane (che era una cagna) (il sesso ha un senso, sia nel caso di Michele Serra, sia nel mio, credo) lo aspetto dove so io, in un tal bosco, sotto un tale cielo. Sbucasse dalla macchia un suo clone, nero e farneticante come era lei, con tre o quattro zecche appese al collo, non credo che sarei così scemo da sentirmi eterno. Ma contento sì, contento di ripetere quel nome che nessuno più chiama, ed era così contento, a sua volta, di sentirsi chiamato.

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