venerdì 10 maggio 2013

mvl Cinema, "Miele" amaro


Patrizia Vincenzoni
Al suo esordio come regista, l'attrice Valeria Golino sorprende per la maturità stilistica ed espressiva con la quale ha diretto un film che tratta del suicidio assistito, un film sceneggiato e girato in modo misurato e autorevole, senza alcuna presa di posizione ideologica, ma capace di sollecitare una serie di domande e riflessioni su un argomento attualmente così controverso, avvalendosi delle interpretazioni intense e dialetticamente sintoniche di Jasmine Trinca e di Carlo Cecchi.
Miele è il nome fittizio di Irene, una giovane donna che aiuta a morire malati terminali facendone un lavoro che svolge in modo determinato, spinta anche da un senso di pietà che si declina in modo rituale e emotivamente non coinvolgente.
La prima immagine con cui si apre il film riprende, al di là di una porta a vetri, la protagonista mentre compie gli atti finali del suo lavoro: spesso la vediamo oltre un vetro, posizione che sembra significare una non integrazione di parti d'esperienza di sé e una impossibilità di contatto reale anche con l'ambiente umano.
La casa che abita di fronte al mare, disadorna e lasciata vivere di vita propria, che le corrisponde e la ritaglia nella sua umanità devitalizzata, sembra essere il luogo che accoglie il bisogno di provvisorietà e di frammentazione che la caratterizza. E poi c'è il mare, l'immersione quotidiana con l'elemento naturale al quale possiamo anche attribuire significati simbolici man mano che si snoda il racconto del film. Le immagini delle nuotate con la macchina da presa posizionata verso il fondo rilevano le bracciate impetuose e la foga con la quale cerca un contatto rivitalizzante e ristrutturante a un senso di Sé ferito e discontinuo. È come se cercasse un abbraccio impossibile con l'elemento materno rappresentato dal mare e questa ricerca la estenua, la restituisce, ogni volta, naufraga sulla spiaggia racchiusa dentro la corazza difensiva della tuta che 'indossa'.
La posizione difensiva che psicologicamente la contraddistingue invade anche il quotidiano così come i rapporti con gli uomini: sporadici incontri sessuali con un uomo sposato, il quale non sa della vita reale di Irene,così come il padre che riceve ogni tanto le sue visite. Questi è ancora immerso nel dolore inestinguibile della perdita della moglie, stato che non gli permette di 'vedere' la figlia e la rimozione del dolore emotivo che attua. Il loro è un rapporto dissociato, nel quale l'affetto e la disponibilità sono soltanto verbalizzate, presenze affettive dichiarate ma bloccate nel loro dispiegarsi verso l'altro.
L'incontro con l'ingegnere Carlo Grimaldi che chiede il suo aiuto per compiere il suicidio, rompe la routine cui Irene/Miele si è consegnata, facendo della frammentazione (ben delineata anche dalle sequenze di immagini del film) e dell'isolamento le principali coordinate esistenziali. Questo vivere lontana dagli altri è sostenuto anche dalla necessità di tenere celata la realtà del suo operato che le impone anche la regola di essere presente, restando però sullo sfondo, una volta esaurite le prassi che le spettano, in queste camere dove si consuma la sofferenza nei confronti di una vita non più accettata cosi come è. Vite nelle quali la presenza della malattia terminale costituisce per Irene/Miele il motivo etico della sua scelta, come afferma all'ingegnere che non ha una grave malattia fisica, ma una depressione esistenziale e un'insofferenza profonda verso ogni forma di volgarità diffusa e la ripetizione fine a se stessa che assegna alla sua vita e a ciò che, egli dice, lo circonda.
Inizia un rapporto significativo, nel quale le funzioni paterne assunte da Carlo permettono a Irene di raccontare di sé offrendo all'altro la sua fragilità e la sua sofferenza emotiva. Tale intimità permette l'emersione del dolore affettivo per la morte della madre, fino ad allora obliato. La memoria anche emotiva riaffiora con le immagini dell'infanzia, flashback che rendono possibile un superamento della dissociazione e un'assunzione di quegli elementi affettivo-cognitivi traumatici relativi alla morte della madre. Il legame affettuoso breve e intenso che hanno li aiuta a rivedere decisioni e a contattare l'affetto così a lungo esiliato dal loro sentire e dalle loro vite. Entrambi, anche se in modo totalmente diverso, raggiungono la possibilità di abbandonare difese e isolamento emotivo e arrivare a una consapevolezza che restituisce un senso di Sé unitario e coerente, permettendo a Irene di riaprirsi alla fiducia e speranza verso la vita.

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