Ti racconto un libro
Sylvain
Tesson
Nelle
foreste siberiane
Sellerio 2012, pp. 260, euro 16 traduzione di Roberta Ferrara
Fabio
Donalisio
Diffido
dei viaggi degli altri. Per molti motivi. A maggior ragione diffido
di chi i viaggi li racconta, ne fa scrittura, e spesso vetrina. Non
sopporto l'irresistibile esposizione di sé, l'assunto di fare della
propria esperienza privata materia d'interesse generale. E meno
sopporto chi quell'interesse lo corona, lo abbraccia. Massimi
sistemi, certo. Un discorso che tocca il nervo esibizionista insito
in ogni letteratura e pseudo-tale, nonché l'ossessione autonarrativa
che pervade tanto e tante delle nostre vite appaltate alla socialità
scritta del virtuale, ridotte in monoporzioni dal packaging più o
meno attraente e pronte per essere mattoni di un esoscheletro che
mira alla seduzione e, all'interno, divora e secerne. Chiusa
parentesi. Solo per dire le perplessità che avevo di affrontare il
libro di uno che in quarta viene presentato come “grande
viaggiatore” e scrittore, appunto, di viaggi. Ovvero uno che sulla
carta, di quanto detto poco sopra, ne ha fatto sì e no una
professione, e non solo di fede. La riconciliazione, e quindi il
patto di lettura, avviene dopo la premessa. Ovvero il “pentimento”
del moto a favore della stasi. Colui che ha dichiaratamente cercato
la vita nel viaggio, decide di entrare nel vuoto, di sua sponte. E
che vuoto. Quello dell'inverno siberiano, di una capanna di tronchi
sul lago Bajkal, vero e proprio mare d'inverno, ottocento chilometri
di voragine di faglia, piena d'acqua scura che con il gelo diventa
infinita lastra di ghiaccio rimbombante. Tesson parte, e questa volta
per fermarsi. Ha con se scatolette, vodka, sigari, e un minimo di
equipaggiamento. Un telefono satellitare (che resterà quasi sempre
spento) e una valigia di libri. Uno scorcio di Irkutsk, limite del
civile, e poi il nulla. Temperature ben al di sotto dello zero, neve,
ghiaccio, vento. Cime da scalare, chilometri da camminare, legna da
tagliare. E soprattutto giorni e notti da far passare.
Con un piglio
da diario asciutto solo raramente inficiato da qualche leziosità, le
pagine si dipanano in una missione non dichiarata che tende
all'impossibile: raccontare il tempo vuoto. Se il viaggiatore ragiona
in termini di spazio, l'eremita si affeziona al tempo. Certo, ci sono
i ricordi, le letture, le riflessioni sul dentro e fuori, sulla
civiltà, sulla lotta e sulla fuga. Ma alla fine tutto si riduce alla
contemplazione attiva del tempo che passa, mettendone in discussione
il movimento, gli assiomi lineari. Non si derubrichi questo libro nei
facili cassetti della decrescita e del ritorno alla natura,
integratissimi rigurgiti tutti interni alla mitologia del progresso
indefinito. Il rapporto con il paesaggio, con l'ambiente, con le cose
solo in minima parte fatte dall'uomo e per l'uomo, è soprattutto una
questione di ritmo, e di silenzio. La lentezza non è un contraltare
vendibile della frenesia, è l'unica velocità possibile. Lo scopo,
unico, indicibile, è vivere, è sopportare prima e amare poi la vita
senza eventi, senza alibi o sedativi. Guardare una stufa, o gli
infinitesimi dettagli di neve racchiusi da una finestra, per ore. E
confrontare tutto questo con le strutture cartesiane del pensiero
automatico. Metteteci poi gli orsi, e i russi, atavici maestri del
riso e del dramma, e capirete perché Tesson dalla piccola spiaggia a
nord del Bajkal proprio non ne voleva sapere, di andarsene. E questo
conferma, tra le altre cose, il brutale mistero che per ogni libro è
il suo finale.
Nel
modo in cui questi russi vuotano i bicchieri e afferrano pezzi di
carne si sente il loro orgoglio di non dipendere da nessuna catena
commerciale. Si nutrono solo di ciò che offre la foresta. Vivere
prelevando il necessario dai boschi è una garanzia di felicità.
Questi uomini sono autonomi nelle questioni pratiche ma restano
legati alle tradizioni dei padri. Sono agli antipodi rispetto ai
liberi pensatori che hanno rotto i ponti con dio e con il re ma
dipendono dalla città e dai suoi servizi per mangiare, spostarsi o
stare al caldo. Chi ha ragione, il mugicco autarchico che affida
l'anima al cielo ma non entra mai in un negozio, o l'ateo moderno che
si è liberato da tutte le pastoie spirituali ma è costretto a
succhiare le mammelle del sistema e ad accettare le regole imposte
dalla vita sociale? E' meglio uccidere dio ma sottomettersi ai
legislatori o vivere liberi nei boschi continuando ad aver paura
degli spiriti? La conquista dell'autonomia pratica e materiale sembra
altrettanto nobile di quella dell'indipendenza spirituale e
intellettuale. "Si tende a dimenticare che è particolarmente
pericoloso asservire gli uomini nelle questioni di dettaglio. Per
quanto mi riguarda, sarei portato a credere che la libertà sia meno
necessaria nelle grandi cose che in quelle di minore importanza"
scrive Tocqueville nelle "Democrazia in America", nel
capitolo dedicato al tipo di dispotismo che deve preoccupare le
nazioni democratiche.
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