Remo (Alberto Sordi) e la “sua signora”, Augusta (Anna
Longhi) sono alla Biennale di Venezia 1978: si imbattono in una serie di enormi
imbuti rovesciati, una delle tante installazioni artistiche trasgressive
presenti alla mostra: e Augusta se ne esce così: “Pur’io li metto così quanno
spiccio”.
E ha ragione lei. Oggi, un’altra Augusta, inserviente addetta
alle pulizie della Sala Murat di Piazza del Ferrarese, a Bari, si è sbarazzata
populisticamente di qualche cartone di ciarpame che, ahi!, costituiva il nerbo materico
di una rassegna di arte contemporanea ambiziosamente titolata Display Mediating Landscape.
Pare che gli incidenti di questo tipo proliferino: qualche
anno fa un altro figlio della plebe cancellò alcune tracce di sangue (finto)
nell’installazione di un tal Umberto Vaschetto, dedicata “allo spinoso tema della
Ru486, la pillola abortiva”. Ecco la descrizione della somma provocazione: “L’opera
choc rappresenta un feto che tenta di evadere dal corpo materno utilizzando un
bisturi. La completa un particolare, un tocco d’artista: una pozzanghera di ‘sangue’
(una vernice rimovibile, la stessa utilizzata dagli attori nelle scene ‘splatter’)
sul pavimento, che sembra appena colata dalla ferita sul pancione”.
Qualche anno prima un altro membro della Suburra (un
operatore ecologico) s’imbatté nella riproduzione di un cavallo (privo di testa);
senza por tempo in mezzo l’acciuffò, consacrandola a più miti pretese: la
schiaffò, infatti, nel camion tritarifiuti. Quando gli allibiti galleristi (che
l’avevano lasciata per pochi minuti sul marciapiede) si accorsero dell’errore, le
Parche avevano tessuto e tagliato il filo di un destino malvagio: l’opera di
Maurizio Facheris (Euro 38.000; euro trentottomila) s’era tramutata in
coriandoli.
Ma le leggende fioriscono senza fine: un rude muratore s’aggira
per la galleria: vede una sbrecciatura; tosto si precipita con stucco a pronta presa
e cazzuola: e cancella l’inimitabile e concettosa performance (da Fontana in
poi crepe e pertugi son schizzati alle stelle estetiche; e, più importante, economiche).
La Settimana Enigmistica ci pasteggia sovente: nelle
vignette (tratte dal New Yorker?) vengono sovente ritratte torme di fessi intente ad ammirare estasiate grate per l’aria
condizionata, estintori e pompe antincendio.
“Sì … sì … un tratteggio multiforme … ehilà … sedia con
corpo adagiato … un’opera vivente? Un’opera originale, cara … Io sui diciotto
milioni la comprerei …” se ne esce un protagonista de Le vacanze intelligenti quando osserva un’accaldata Augusta che,
per errore, s’era stravaccata sulla sedia d’una installazione artistica della
Biennale. “Vedi quel corpo? Sembra una sfera che prima si sprofonda verso il
basso e poi si innalza piano piano come sospinta dal vento che muove la palma …”
fa, invece, un’altra babbea osservando la coattissima Augusta, grassa e immobile;
e sempre più oggetto, suo malgrado, di brame collezionistiche e di valutazioni
estetiche.
“Me voleveno comprà pe’ diciotto mijoni …” si lamenta lei. E
Sordi: “Ammazza, ma nun è troppo?”.
Su cosa si regge la quasi totalità del postmoderno? Su un patto
concettuale che lega artista e fruitore; e che illumina intellettualmente il
prodotto. Se quel patto, enfio di pubblicità e garantito da mediatori e critici
luciferini, non ha luogo, l’opera giace inerte e si derubrica a ciò che, di fatto, è: spesso, niente. Le scatole di cereali firmate da Andy Warhol andarono a ruba
alla morte del pop-artist: se le disputarono per migliaia di dollari. Qualche tempo
dopo gli acquirenti, svanita la bolla d’entusiasmo garantita dal nome del
creatore e dall’evento, si ritrovarono in casa, esposta in pompa magna, ciò che
avevano in realtà comprato: una comune scatola di cereali.
Ed ecco lo scrittore Paul Vialar, nella presentazione di un
volume sul trompe-l’oeil dell’antimodernista Gregorio Sciltian:
“Trompe l’homme?
Per me è tutto ciò di cui si valgono tanti impostori che ridono sotto i baffi
degl’ingenui borghesi che cadono nelle loro trappole. Una ventina di anni fa ho
pubblicato un romanzo intitolato Il tempo
degli impostori. Vi descrivevo che cosa è l’impostura – in particolare
letteraria e artistica – nella nostra epoca … nel libro … raccontavo d’un
pittore che aveva fondato una Scuola del Nulla. Questo tipo, in effetti,
vendeva delle tele che portavano la sua firma ed erano assolutamente bianche.
All’acquirente, al gonzo, veniva spiegato che bastava osservare la tela acquistata
– molto cara, ma che portava la sua firma – per vedervi tutto quanto NON vi era
raffigurato e che poteva essere inventato a suo piacimento … Dieci anni dopo un
tale, un furbastro, ha rubato la mia idea facendola sua; si è messo a firmare
tele bianche e le ha poi vendute a caro prezzo e in numerosi esemplari …”.
Beata ingenuità! Da allora (1960) quanta acqua sotto i ponti … E, su tutti, ora troneggia l'imperatore degli impostori, Damien Hirst, che sentenzia: “Se tutti ti dicono che sei un
genio sei sulla buona strada per diventare un coglione”. Attenzione, però, è un
impostore, come detto. Egli voleva invece significare, sornione: “Se tutti ti dicono che
sei un coglione sei sulla buona strada per diventare un genio”.
Pensierino domenicale: oggi, a trent'anni da quella Biennale (autentica nel film), il mercato della cultura e dell'arte contemporanea (geniale l'italiano, nipote dell'autore dei nostri Promessi Sposi e che vendeva le tele bianche con firma, per non parlar delle rosette) è fiorente e rigoglioso più che mai. Mi chiedo, allora, cosa faranno mai, oggi, Remo e Augusta, a trent'anni da quel '78? Forse hanno ceduto il banco di frutta agli "egizzziani", hanno fotografato tutta la biennale col telefonino, non si perdono mai le presentazioni di libri e musica e i sermoni di Fazio in TV, e, sorseggiando uno spritz, seduti alla caffetteria del Maxxi, forse pensano: "Ahò, mi ricordo ancora di quella prima volta che siamo stati alla Biennale: non ci capivamo un c...". Che risate.
RispondiEliminaSecondo me continuano a non capirci un c ...
EliminaOgni tanto i loro figli e nipoti se ne vanno a qualche mostra qua e là ... magari perché hanno sentito Caroli da Fazio.
Qualche anno fa lanciai il 'collaborazionismo', corrente artistica in cui sono gli utenti a creare: collocavo tavolozza, pennelli e tela e lasciavo fare.
Davo qualche ritocco finale e affibbiavo allo sgorbio un nome pretenzioso: ingorgo interstellare, tramonto animistico, natura irreale et similia.
Sono gli unici quadri che ho venduto.