Raethia Corsini
Nel 1960 in Italia c'erano quattro milioni di analfabeti adulti. Uno di quei quattro milioni era mio zio Peppino, classe 1919. Non proprio del tutto analfabeta: la firma aveva imparato a farla e anche i conti, perché era figlio di bottegai, ma la sua istruzione finiva lì. Aveva cominciato a lavorare da ragazzino e poi partì soldato nella seconda Grande Guerra mondiale, fu preso prigioniero dai tedeschi, ma alla fine tornò. Molto cambiato. Dentro. Iniziò a inseguire un qualche invisibile filo di libertà. Oltre che nel ballo (era davvero un gran ballerino di tango e paso doble) trovava un po' di leggerezza nella Televisione. La guardava ed evadeva. Con il calcio, i varietà, gli sceneggiati. Sebbene il suo sguardo fosse sempre tristemente segnato dagli orrori visti e dalla rabbia per le torture subìte, le persone che stavano dentro quella scatola lo trascinavano dentro un altro mondo, così allontanava il suono delle granate, che gli rimasero nelle orecchie per tutta la vita in forma di acufeni. La sera, come tanti italiani negli anni Cinquanta, andava al bar del paese e guardava "mamma Rai". Agli inizi degli anni Sessanta, però, la tv la comprò: campeggiava nella grande cucina, dirimpetto al caminetto, sistemata sul "portatelevisore": quando era spenta (20 ore su 24) sua moglie (mia zia) la copriva con un bel telo a fiori, mica si rovinasse. È in quel televisore che il 20 luglio del 1969 assistei con mio zio Peppino allo sbarco sulla Luna. E fu esattamente quella volta lì che lui disse: "Ma che sta succedendo al mondo? Chi credono di prendere in giro? Sta cambiando tutto anche nella televisione; pensare che grazie a lei io ho imparato l'italiano con il maestro Manzi! Queste bischerate della luna invece...americanate!". A me l'allunaggio piacque e mi piacque anche l'idea che potesse essere vero. Dell'esistenza reale del maestro Manzi, invece, eravamo certi tutti e due anche se io l'avevo visto solo qualche volta e con poco interesse: non ero ancora in età scolare e quando nel '69 andai in seconda elementare, Manzi in tv non c'era più da un anno. Allora, finita la telecronaca lunare del trio Tito Stagno-Jas Gawronsky-Ruggero Orlando, chiesi a mio zio di raccontarmi del maestro d'Italia. Lui, con un raro guizzo di vita negli occhi, si impegnò a trovare gli aggettivi più lusinghieri per Manzi e poi, fiero, descrisse nei dettagli quel che aveva imparato con lui.
La Rai quest'anno compie sessant'anni. Stasera va in onda la prima delle due puntate della mini serie Non è mai troppo tardi, omaggio al maestro Alberto Manzi (nella fiction interpretato da Claudio Santamaria). Mio zio è morto sei anni fa (longevo, sì), prima del suo Maestro, scomparso nel 1997 (qui l'ultima intervista fatta a Manzi).
Ho pensato che gli sarebbe piaciuto rivedere quella storia per lui così importante. E poi ho pensato pure che Alberto Manzi con la sua trasmissione, andata in onda dal 1960 al 1968, ha insegnato tre cose anche a me:
- la tecnologia non è mai un male, semmai fa danni se la usi male
- rendere l'istruzione (e poi la cultura) accessibile a tutti e a tutte è stato un atto rivoluzionario, può ancora esserlo se non si banalizza, svilisce, semplifica
- gli insegnanti dovrebbero essere disubbidienti per statuto così come i dirigenti dei mezzi di comunicazione dovrebbero imparare il significato di visione.
Non so come sarà la mini serie Rai. Di certo arriveranno le solite critiche sul fatto che in Italia non si sa fare fiction. È purtroppo molto spesso vero (quella sugli "anni spezzati" è stata orribile). Mi auguro però che emerga forte e chiaro il messaggio di quel pedagogo disubbidiente che è stato il "maestro degli italiani": non è mai troppo tardi. Neppure per ricominciare da lì, da quell'esperienza antica come mio zio Peppino - eppure ancora oggi necessaria - di istruire più gente possibile (anche attraverso uno strumento come la Tv) perché l'istruzione rende liberi e perfino felici. Che il maestro Alberto Manzi fosse avanti anni luce l'aveva già dimostrato scrivendo un libro come Orzowei, (prima edizione 1955), divenuto negli anni Settanta una serie televisiva per la tv dei ragazzi.
Qui di seguito l'incipit del libro affiancato dalle copertine delle quattro diverse edizioni succedutesi negli anni. Buona lettura e, se la vedete, lasciate qui un commento sulla fiction Rai.
Orzowei/Incipit
Orzowei, 1^ edizione 1955 Firenze, Vallecchi Editore |
"Dai, prendetelo!... prendetelo!..."
Nella foga della corsa una pentola fu rovesciata e Amebais, la vecchia ubriacona, uscì dalla capanna urlando imprecazioni contro quei demoni che buttavano tutto all'aria.
"Non c'è più tranquillità, no! Ma se vi prendo vi farò frustare tutti!" urlò rivolta al gruppo dei ragazzi che correvano verso la foresta.
Ma questi non le badavano.
Un po' perché Amebais era sempre stata una pazza brontolona; ma, maggiormente, perché la loro caccia era interessante.
La selvaggina era rappresentata da Isa, il ragazzo che Amûnai aveva portato dalla foresta.
Amûnai, il Ring-kop (che significa: il grande guerriero), l'aveva trovato nove, dieci anni prima, avvolto in una fascia rossa in una cesta appesa ad un grosso ramo. La cesta era stata legata in maniera che né serpenti, né belve potevano raggiungerla. L'aveva preso con sé, e portato al villaggio. La vecchia Amebais aveva dovuto fargli da madre, ma adempì al suo compito fin quando il ragazzo non fu in grado di trovarsi qualcosa da mangiare tra i rifiuti del villaggio. La sua avarizia non le permetteva di più.
E fino a che Amûnai fu il capo, Isa - questo era il nome che gli avevano dato - Isa, dunque, ebbe di che sfamarsi e fu trattato con rispetto.
Ma allorché il Ring-kop perse il comando, Isa dovette arrangiarsi per vivere.
Era trattato così per un solo motivo: perché era un bianco; se bianca poteva dirsi quella pelle bruciata dal sole e dal vento.
Isa era ora nel suo undicesimo anno di vita; età in cui i nostri ragazzi son capaci soltanto di portare la cartella a scuola e d'imparare qualche lezione a memoria.
Orzowei, 2^ edizione 1964, Milano, Casa Editrice Valentino Bompiani |
Ma per Isa la vita era stata dura; e se non sapeva leggere, né scrivere, sapeva però tante altre cose che gli permettevano di vivere, sia pure stentatamente, tra il disprezzo del villaggio e la "grande padrona": la foresta.
Oltre tutto Isa era schernito e assalito dagli altri ragazzi. E doveva difendersi dalle loro crudeltà, prendendone spesso a sangue, fino a che non sopraggiungeva a liberarlo qualche uomo del villaggio. Solo allora la masnada lo lasciava pesto e sanguinante sul terreno.
Oppure fuggiva, se poteva.
E mentre gli altri lo cercavano, egli se ne stava immobile acquattato in un cespuglio, respirando appena.
Per questo Isa era un ribelle.
Solo la frusta gli incuteva timore.
Ma ormai si era assuefatto anche a quella.
"Dai, dai, prendetelo!... prendetelo!..."
I ragazzi lo stavano inseguendo.
Quale gioco più bello per dei futuri cacciatori che inseguire una preda viva?
Isa correva velocemente su lo scosceso terreno.
Aveva un buon distacco. Le lunghe cacce lo
avevano reso veloce, pronto. Se avesse voluto, avrebbe distaccato di molto gli inseguitori per poi rifugiarsi tranquillamente su qualche albero e lì giocare a tirar frutta e rami secchi alle scimmie.
Ma non voleva.
Anzi, rallentò.
Avanti a tutti veniva Mései, il nipote dello stregone. Mései che da anni lo tormentava; Mései che lo derideva sempre. Specialmente da quando non era considerato più Um-fan,
un ragazzo portatore, ma un aspirante guerriero.
Fra poco egli avrebbe fatto la sua "prova" e se fosse riuscito avrebbe avuto la sua lancia e il suo tucul.
Isa, invece, era stato scacciato persino dagli Um-fan.
Non poteva seguire il villaggio alla guerra o alla caccia neppure come portatore.
Egli era un "orzowei", uno sciacallo d'uomo, un niente.
Era bianco.
Rallentò. Gli altri gridarono, certi della buona riuscita della caccia. Ma lui sorrise; voleva stancarli, farli cadere uno per volta con la lingua ciondoloni.
Mései era ormai a pochi passi.
"Sei preso!" gridò. "Sei preso! Ti metteremo al palo, oggi!"
Urlavano tutti di gioia.
Improvvisamente Isa sentì il terreno cedergli sotto i piedi; barcollò, cadde. Mései con due salti gli fu sopra e gli puntellò le spalle con le magre ginocchia.
"Sei preso" ansimò. "Muoviti ora!"
Isa si divincolava, ma l'avversario era robusto. Mangiava tutti i giorni, lui.
Gli altri li avevano raggiunti, ma ad un cenno di Mései si fermarono in circolo.
"Oggi è la mia preda. Mi voglio divertire io. Alzati, 'orzowei'!"
Lentamente Isa si alzò.
Con mossa fulminea Mései gli piombò addosso facendolo rotolare nuovamente in terra.
Un coro di risate salutò il ruzzolone.
"Alzati, su!" gridò ridendo Mései.
Isa doveva aver battuto contro qualche sasso.
Sentiva un forte dolore alla schiena.
Si tirò su pian piano, ma l'avversario fu lesto a colpirlo con un pugno. Barcollò; ma pur venendo colpito nuovamente, riuscì ad afferrarlo. Si avvinghiarono rotolando sul terreno.
E come uno riusciva a metter l'altro con le spalle a terra, colpiva, coi pugni stretti, sugli occhi, sul naso, ovunque.
Quando Isa riuscì a rimanere a lungo su Mései, qualcuno, raccolta della sabbia, gliela gettò negli occhi.
Abbandonò la presa e Mései ne approfittò.
Con un sasso lo colpì ripetutamente, finché non lo vide esanime, mentre un rivolo di sangue usciva dalle ferite.
Allora tutti fuggirono.
Orzowei, 3^ edizione 1961, Milano, Casa Editrice Valentino Bompiani&C. |
Solo a notte tarda Isa rientrò nel villaggio.
La luna era già alta nel cielo ed illuminava le capanne conferendo loro un aspetto fiabesco.
Il ragazzo si trascinò fin verso il tucul del vecchio Amûnai.
"Sono io" mormorò.
"Entra. Cosa ti è accaduto?"
"Il pugno di Mései mi ha colpito" rispose. "Nel pugno stringeva una pietra. Ora la testa mi fa molto male."
"Fai vedere."
Il vecchio s'alzò dal giaciglio e ravvivò il fuoco. Poi osservò la ferita.
"Un bel colpo. Potevi morire. Chi ti ha aiutato?"
"Nessuno. Non ho compreso nulla fin che il freddo non m'ha svegliato. E son venuto da te."
"Hai perso molto sangue."
Gli fasciò la ferita dopo avergliela medicata con un decotto di erbe.
"Domani sarai a posto, se gli spiriti del male non ti verranno a trovare. Dormi, ora."
"Ehi, cialtrone alzati!"
Una ruvida mano scosse bruscamente Isa.
"Che c'è?" chiese balzando a sedere sul giaciglio.
"Il Consiglio è nella 'Grande Casa'. T'aspettano."
"A me?!"
"Sì, te L"orzowei', hanno detto. Sei tu, no?"
L'uomo rise ed uscì.
La lama della zagaglia rifletté sul ragazzo un raggio di sole.
Poco dopo Isa correva verso la "Grande Casa".
Era questa una capanna di vaste proporzioni ove potevano stare comodamente una sessantina di
persone.
Isa non vi era mai stato; come tutti i ragazzi dei villaggio. La "Grande Casa" era "tabù" per loro e per le donne.
Solo i guerrieri potevano varcarne la soglia.
Sull'uscio Isa sostò. Tremava.
Qualche grave decisione era stata presa dal Consiglio nei suoi riguardi, per essere stato chiamato.
Ieri non aveva fatto nessun danno; ne era sicuro.
Era stato nei campo di Uf-nain, ma non aveva rubato il granturco. Ah, ecco! la lotta. Sì, aveva colpito, ricordava bene; ma chi aveva sofferto più danni era stato lui. Aveva ancora la testa fasciata. Poi, il Consiglio non si era mai interessato delle liti dei ragazzi.
Be', era meglio entrare.
Scostò la pelle di bufalo e rimase immobile. Nel centro dell'ampia capanna, tutta addobbata di pelli e di trofei di caccia, vi era lo stregone del villaggio rivestito con i sacri paludamenti.
Una maschera grottesca e dall'aspetto terribile, gli ricopriva il volto.
Seduti su pelli di bufalo, in circolo, vi erano tutti i guerrieri e i vari Ring-kop dalla testa ornata dal cerchio piumato.
I vecchi, audaci "lupi" (i migliori fra tutti i guerrieri) erano seduti in fondo alla capanna e, in mezzo a loro, era il Gran Capo.
La pelle striata d'una tigre gli scendeva dalle spalle fin sui fianchi. Un cerchio d'oro, su cui ondeggiavano molte penne di struzzo, gli ornava il capo.
La lunga lancia e lo scudo giacevano ai suoi piedi.
Lo stregone s'avvicinò al ragazzo danzando ed urlando.
Isa non si mosse. Malgrado il ghigno terribile, egli sapeva bene che sotto la maschera si celava Ao-sam, un vecchio tutto tremante, che un giorno aveva avuto paura del piccolo Sci-scià, il porcospino.
Nessuno sapeva ciò, ma Isa aveva veduto e da quel giorno aveva perso ogni stima e rispetto per lo stregone.
Questi gli danzò attorno per dieci minuti; poi, fermandoglisi di fronte, lo toccò col bastone sacro e ritornò al suo posto.
Allora il Gran Capo si alzò.
Nella capanna si fece silenzio.
"Vieni avanti" ordinò.
Isa avanzò lentamente fin che il suo petto toccò la punta della lancia che il Gran Capo tendeva nella sua direzione.
"Mohamed Isa, ché questo è il tuo nome," disse "il Consiglio ha deciso. Compirai la gran prova. Il vecchio Ring-kop che ti ha trovato nella foresta ha parlato in tuo favore. Partirai questa notte. E finché la tinta bianca che coprirà il tuo corpo non sarà scomparsa, il villaggio sarà per te 'tabù'. I cacciatori ti inseguiranno, ti cacceranno. Non dovrai farti prendere. Se riuscirai, il tuo posto sarà tra i guerrieri. Allora avrai la tua zagaglia e il tuo tucul."
"Io insisto nuovamente" gridò Unguasci, uno fra i più forti guerrieri, "egli non deve fare la prova. L"orzowei' non è del nostro villaggio."
"Che importa?" l'interruppe sorridendo malignamente un altro. "Tanto morirà!"
"Sarà così. Ma anche se dovesse riuscire" proseguì Unguasci "non deve essere ammesso tra i guerrieri. Ricordatevi: è un 'orzowei', un trovato!"
"Io ho parlato" l'interruppe il Gran Capo" ed ho deciso. Isa farà la prova. Se riuscirà, sarà un guerriero del nostro villaggio."
Nessuno replicò.
In silenzio si alzarono mentre lo stregone urlava qualcosa. Un canto triste, solenne, si levò nella capanna; man mano crebbe d'intensità fino a tramutarsi in coro possente.
Era il canto di caccia; il canto della vittoria dell'uomo sulla giungla.
Isa era sempre immobile nel centro della capanna.
Non credeva ancora a quanto gli stava accadendo.
Era questo il giorno che aveva atteso con ansia, che aveva temuto non giungesse mai per lui.
Gli si dava l'occasione di mostrare la sua forza, la sua abilità. Gli si dava, soprattutto, il riconoscimento d'essere uno del villaggio, non più un "trovato".
Quando il canto cessò, il Gran Capo gli consegnò lo scudo e l'assegai, un piccolo spiedo che sarebbe stata l'unica arma per tutto il tempo della grande prova.
"Partirai questa notte, quando la luna avrà raggiunto la cima dell'albero sacro. Buona caccia!"
Il Capo uscì. Con lui, molti guerrieri.
Ma la cerimonia non era ancora terminata.
Lo stregone pestò le radici che gli uomini gli avevano portate; vi versò sopra del cocco e un liquido resinoso, e mise tutto a bollire in un'ampia pentola.
Ogni tanto, pronunciando delle strane parole, versava nella caldaia polvere d'incenso.
Più tardi Isa, denudato, fu fatto immergere nel pentolone. Ne uscì con tutto il corpo dipinto di bianco; d'un bianco avorio.
Sapeva che la tinta non sarebbe scomparsa presto e che né l'acqua, né il sole l'avrebbero tolta.
Era la gran prova.
Tutti dovevano superarla. Questa era la legge.
Quando un ragazzo era diventato abbastanza grande da poter essere ammesso nei guerrieri, veniva preso, denudato, dipinto e lasciato libero nella foresta. Chiunque lo vedeva poteva dargli la caccia ed ucciderlo.
Nessuno poteva aiutarlo, pena la morte.
Doveva vivere solo, fino a che il tempo non avesse cancellato la bianca vernice; se riusciva a tornare era nominato guerriero.
Se non tornava, il villaggio sapeva di aver perso un ragazzo che non sarebbe mai stato un ottimo cacciatore; e non piangeva.
Isa sorrise quando lo stregone lo fece inginocchiare dinanzi a sé per benedirlo.
Era felice come mai lo era stato sino allora.
Fuori, tutti i ragazzi lo guardarono ammutoliti, invidiandolo.
"Creperai" sibilò Mései. "La foresta ti ucciderà e gli avvoltoi si ciberanno del tuo immondo corpo!"
Isa non lo degnò neppure di uno sguardo.
Andò a salutare tutta la gente del villaggio nelle loro capanne, come voleva la legge.
Ma solo la vecchia Amebais gli strinse la mano.
Il padre di Mései lo fissò con una strana luce negli occhi, poi disse:
"Hai preso il posto di mio figlio. Toccava a lui la gran prova. Questo è un affronto che ci umilia dinanzi al villaggio. Ma attento, 'orzowei'. Il bianco, nel verde della foresta, si nota immediatamente. Ed ogni cacciatore ha diritto di ucciderti."
Isa, per tutta risposta, sorrise.
Si recò ai piedi dell'albero sacro, che s'ergeva solitario poco distante dal villaggio ed attese la notte.
Non riuscì a dormire.
Con gli occhi semichiusi osservò il sole fare il suo giro; il breve crepuscolo; la notte.
Quando la luna cominciò ad argentare le nere chiome degli alberi, un uomo gli si avvicinò.
"L'ora è prossima, figlio!"
"Lo vedo, Amûnai."
Orzowei, 4^ 2004, Milano, I Delfini Fabbri editori |
Si guardarono senza parlare. Poi Isa disse:
"Ti ringrazio di essere venuto."
"So" mormorò il vecchio Ring-kop "di non averti allevato come un figlio; né ho mai fatto qualcosa che potesse aiutarti."
"Mi salvasti la vita."
"Sì, quand'eri piccolo. Ma ti ho fatto vivere poi peggio di uno dei cani del villaggio."
"Non fa niente, Amûnai."
"Son venuto a salutarti. E ricorda: il bianco risalta e la tua tinta è nuova. C'è chi avrebbe piacere di pungerti con la sua lancia. Sii prudente! Il sole ti è nemico, ricorda. Muoviti solo quando le ombre nascondono ogni cosa. Sii svelto come il capriolo e audace come il leopardo. Che la tua caccia sia fortunata, figlio!"
"Grazie padre."
Il vecchio guerriero tossicchiò. Cercava di nascondere la sua commozione
"Ritorna presto al villaggio. T'aspetterò qui, quando la nuova luna sarà nata. E... non mi fare attendere invano!"
"Non ti farò attendere a lungo, se posso."
Ristettero silenziosi uno accanto all'altro fino a che parve loro che la punta dell'albero sacro, ondeggiante al vento, toccasse la luna.
Allora Isa si alzò. Raccolse lo scudo e l'assegai, salutò con un cenno il Ring-kop e s'allontanò nella foresta.
In quello stesso momento il tamburo rullò.
Dapprima con un ritmo lento; poi i colpi si fecero più frequenti, assordanti.
Era il segnale della caccia all'uomo.
L'inizio d'una lunga battuta dietro le orme di un ragazzo dipinto di bianco.
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