Bernard
Quiriny, La biblioteca di Gould
L'Orma, pp. 192, euro 16,50
traduzione di Lorenza Di Lella
a cura di Giuseppe Girimonti Greco
traduzione di Lorenza Di Lella
a cura di Giuseppe Girimonti Greco
Leyla Khalil
Quando
ho letto in quarta di copertina che Quiriny riprende Borges, Bolaño
e Calvino, sono andata letteralmente in estasi. Una cara amica ha
tentato di dissuadermi, mettendomi in guardia sul fatto che spesso
proprio chi si diverte a citare i grandi finisce poi per deludere.
Io, testarda, non le ho dato retta e mi son letta d'un fiato il
Quiriny col suo La biblioteca di Gould, edito da L'Orma,
tradotto da Lorenza Di Lella e curato da Giuseppe Girimonti Greco.
D'un fiato perché è un libro densissimo e senza dubbio bello,
divertente, ma al tempo stesso anche un condensato di pezzi grossi
della letteratura novecentesca in versione rimacinata. Riprende
Jarry, ripesca Queneau, oltre ai tre grandi citati in precedenza.
Riprende troppo, cita apertamente Borges e Vila-Matas, non nasconde
riferimenti intertestuali, ma poi... Cosa ha di nuovo?
La
biblioteca di Gould è una biografia di questo balzano
bibliotecario, Gould, raccontato attraverso una decina di città
inesistenti, qualche aneddoto sulla sua vita, la descrizione delle
sue particolarissime collezioni libresche e di scrittori ossessionati
dalla paura di essere dimenticati, da libri scritti e poi rinnegati e
via dicendo. Eppure, le città inesistenti richiamano quelle
invisibili che già Calvino ci aveva magistralmente narrato, gli
Scrittori inesistenti ce li ha già raccontati Volodine, e sono
comunque storie che si possono inventare a bizzeffe. Una maniera di
“giocar facile”, proiettando un'ucronia nel futuro: basta
prendere un “what if”, per dirla all'inglese, e tirare tutte le
conseguenze possibili. Il fatto è che basterebbe una sola delle idee
di Quiriny per scrivere un romanzo intero. Invece lui non narra, non
scrive ma descrive una dopo l'altra queste realtà parallele,
affastellando conseguenze di eventi o realtà improbabili,
rimpicciolendo la lente fino all'inverosimile, fino a che tutte le
realtà che crea sembrano minuscole immagini caleidoscopiche spiate
con la lente mentre danno disegni assurdi. In un'ottica di narrativa
ottocentesca o comunque mainstream, una sola storia basterebbe a
soddisfare la voglia di fantasia del lettore; ma non è questo il
fine di Quiriny, evidentemente.
A Quiriny interessa andare più in là
possibile con l'immaginazione sintetica di mondi alternativi. Inizia,
immagina, scrive e mette da parte per cominciare un mondo immaginario
nuovo, da capo, al capitolo seguente. Un po' come uno dei personaggi
di cui narra, quello che perde la memoria a breve termine e che
finisce per scrivere racconti brevissimi che mano a mano si fanno
sempre più simili fra loro fino al giorno in cui scrive due racconti
identici senza riconoscerne l'identità perché già non si riconosce
più come autore di ciò che ha scritto il giorno prima. Il tema del
riconoscimento dell'identità torna spesso, come in quella città
narrata dove si parlano tre lingue uguali fra le quali però non c'è
intercomprensione alcuna, così ogni insegna è scritta tre volte
nella stessa maniera. O come la città speculare che al di là del
fiume replica se stessa ed ogni palazzo, albero, probabilmente ogni
persona della rive gauche ha un suo doppio sulla rive droite. Il
mondo di Quiriny è una grande Babele. Viene spesso, leggendo
l'autore francese, il dubbio che questi non stia facendo altro che
metaforizzare se stesso attraverso una miriade di esempi. Una su
tutte, quella dei libri-matrioska. Leggendo la spiegazione di
Quiriny, sorge il dubbio che il suo scritto non sia una bambola russa
che contiene mille altri libri.
Perché
in effetti La biblioteca di Gould è un libro pienissimo di
spunti: più che un libro, a me verrebbe da pensarlo come utensile
per scrittori in cerca di ispirazione. Ogni frase che Quiriny scrive
contiene potenziali racconti, film, miraggi visionari. D'altronde,
Quiriny descrive l'assurdo non soltanto in termini di libri
strampalati e scrittori incredibili, ma anche narrando di opere
d'arte interattive che non possono esistere o, come già detto, città
che non ci sono.
Tutto
potenziale, in Quiriny, e tutto visto attraverso una lente di
rimpicciolimento in cui si guarda tanto all'universale che i singoli
individui finiscono per non essere altro che lillipuziani macchinari
impazziti, senza importanza, le cui storie sono appena accennate,
solo per contribuire ad un'immagine generale. E l'immagine generale è
anche frutto di giochi e trappole tese al lettore, il quale finisce
nella condizione descritta da Quiriny stesso, ovvero quella in cui “a
furia di cercare sottotesti”, non si legge più, ma si scruta e si
ispeziona soltanto. A me piacerebbe prenderla, ognuna di quelle
storie, e raccontarla, perché le vite dei singoli è così bello
raccontarle una ad una, scavare nella psiche, non lasciarsi sfuggire
niente.
Si
finisce di leggere Quiriny, un po' come il protagonista e amico di
Gould di cui l'autore narra la storia finisce di leggere i
“libri-sileni” che Gould gli presta, quei “libri da nulla,
romanzetti mal confezionati, baggianate di ogni specie, senza valore,
ma che a dispetto di tutto racchiudono tesori”. Quei libri in cui
“non speriamo di trovarci nulla di interessante, poi di colpo ci
imbattiamo in un paragrafo memorabile, in un dialogo spassoso o in
una battuta esilarante”. Il fatto che Quiriny lasci il
lettore con la descrizione di “un brutto romanzo al cui interno
sono racchiuse dieci righe sublimi” fa pensare che forse,
autoironicamente, ritenga che anche il suo sia uno di quelli.
Quiriny
torna tanto su se stesso che se dovessi pescare un'immagine per
descriver il suo scritto sarebbe di certo un uroboro, il noto
serpente che si morde la coda.
Brutto
romanzo ovviamente non lo ritengo, personalmente. Lo ritengo, invece,
utensile per scrittori in cerca di ispirazione. C'è il mondo, nel
libro di Quiriny, ma visto troppo da lontano. C'è bisogno di
qualcuno che voglia scrutarlo più da vicino, sarebbe curioso veder
cosa ne vien fuori.
Nessun commento:
Posta un commento