domenica 16 febbraio 2014

Philip Schultz, La sola verità (The One Truth)


Continua il  Laboratorio di traduzione di poesia, dedicato quest'anno alla raccolta Failure dello statunitense Philip Schultz, che proprio per questo libro ha vinto il premio Pulitzer. In attesa del prossimo incontro, che si terrà martedì 25 febbraio alle 18 intorno al grande tavolo di Plautilla, proponiamo la versione definitiva della poesia The One Truth (in basso il testo originale). Se qualcuna/o desidera partecipare al laboratorio o proporre varianti alla traduzione, è invitata/o a mettersi in contatto con la coordinatrice Fiorenza Mormile.

Dopo aver sognato troni splendenti
per sessant’anni, chiesto a un dio
mai amato forza e misericordia
dopo aver ficcato i pollici
nelle tasche dei suoi piani di immigrato,
mentre parcheggiava macchine di giorno
e portava il taxi di notte,
dopo che un figlio era nato morto
e lui aveva inciso il nome di quello vivo
nella neve sul parabrezza nella bufera del ’45,
dopo aver raschiato via piscio, sangue
e vomito dai pavimenti delle fabbriche
da mezzanotte all’alba,
poi riempito vassoi di noccioline,
dolciumi e sigarette
nei suoi distributori automatici per tutto il giorno,
il respiro un risucchio ansimante
e un sibilo affannoso
nella morsa del petto,
dopo essersi lavato faccia, ascelle
e palle in fredde stanze spoglie,
sempre di corsa tra la fame
di gloria e la paura
di non lasciare altro che debiti,
dopo un infarto e una caduta
giù per le scale di una fabbrica,
il figlio che gli urlava
di piantare il lavoro e riposarsi,
dopo essere stato messo k.o.
dal colpo che aspettava da una vita,
il figlio che gli chiedeva perdono
e la moglie che lo chiamava piangendo,
dopo aver alzato lo sguardo su di loro
dall’inferno, con l’anima
che gli avvizziva tra le braccia-
è questo allora il fallimento,
finire dove aveva cominciato,
nessuno tranne un Dio sordo e muto
a dargli il benvenuto,
i pugni che battevano al cancello-
è questa la sola verità,
trovarsi in un pozzo nero
al fondo di se stesso,
senza fiato abbastanza
per dire addio
o chiedere perdono?

After dreaming of radiant thrones
 for sixty years, praying to a god
he never loved for strength, for mercy,

after cocking his thumbs
 in the pockets of his immigrant schemes,
 while he parked cars during the day
and drove a taxi all night,
 after one baby was born dead,
and he carved the living one's name
in windshield snow in the blizzard of 1945,
after scrubbing piss, blood
and vomit off factory floors
from midnight to dawn,
then filling trays with peanuts,
candy and cigarettes
in his vending machines all day,
 his breath a wheezing suck
and bellowing gasp
in the fist of his chest,
 after washing his face, armpits
 and balls in cold back rooms,
 hurrying between his hunger
for glory and his fear
of leaving nothing but debt,
after having a stroke and
falling down factory stairs,
his son screaming at him
 to stop working and rest,
after being knocked down
by a blow he expected all his life,
his son begging forgiveness,
his wife crying his name,
after looking up at them
straight from hell, his soul
withering in his arms—
 is this what failure is,
to end where he began,
 no one but a deaf dumb God
to welcome him back,
 his fists pounding at the gate—
 is this the one truth,
to lie in a black pit
at the bottom of himself
 without enough breath
to say goodbye


or ask for forgiveness?

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