venerdì 14 giugno 2013

Tesori fra la cenere

G. Luca Chiovelli


Rinvenire una bella poesia in un libro di poesie è impresa possibile ed ovvia; scovarla in una prosa pare già operazione che ha il sapore della sfida; trovarne una in testi dimenticati e desueti pare un impervio snobismo. D'altra parte snob è acronimo per s(ine) nob(ilitate), il che mi aggrada grandemente, essendo sprovvisto di quarti di nobiltà, accademica e di qualsiasi altro tipo.
E poi, chissà, frugando fra la polvere qualcuno di voi trarrà gusto dall'operazione, e vorrà leggere uno di questi libri, come se, rovistando in soffitta, si dia con lo stinco in una cassa dimenticata e si senta l'insano desiderio di aprirla, solo per il ghiribizzo di sapere cosa c'è dentro. Un esercizio spirituale e meritorio che servirà, forse, a rivitalizzare alcuni mucchietti di cenere della letteratura nazionale.
L'importante sarà nel darsi in balia dei suoni e nel rinunciare temporaneamente al senso; quello, il significato, arriverà spontaneamente nella rilettura.
Occorre leggere e rileggere molto lentamente, magari da soli.
Saliremo di difficoltà, da Leopardi a Machiavelli sino alla vetta dell'Anonimo Romano; scenderemo di pochissimo con Gadda, ma per buone ragioni, come vedrete. Divagheremo un pochino.
Solo quattro esempi. Cominciamo con Leopardi.


"Tempo verrà, che esso universo, e la natura medesima, sarà spenta. E nel modo che di grandissimi regni ed imperi umani, e loro maravigliosi moti, che furono famosissimi in altre età, non resta oggi segno né fama alcuna; parimente del mondo intero, e delle infinite vicende e calamità delle cose create, non rimarrà pure un vestigio; ma un silenzio nudo, e una quiete altissima, empieranno lo spazio immenso. Così questo arcano mirabile e spaventoso dell’esistenza universale, innanzi di essere dichiarato né inteso, si dileguerà e perderassi"[1].

Questa è una grande poesia, ma un pezzo molto facile. Serve a temperare il gusto, "come [se tu] fussi digiuno e mangiassi una presa di confetto, e beessi un bicchiere di vino buono, ch'è un invitarti a desinare", per dirla con un altro mucchio di cenere che nessuno leggerà mai più, Il libro dell'arte di Cennino Cennini[2].
Proseguiamo.
Nella lettera all'ambasciatore fiorentino presso la Santa Sede, Francesco Vettori, il quarantaquattrenne Niccolò Machiavelli, in una prosa italiana tra le più straordinarie di ogni tempo, descrive la propria giornata nel ritiro di Sant'Andrea in Percussina presso San Casciano; arrestato, torturato ed espulso da Firenze poco tempo prima (al ritorno dei Medici), egli elaborò i suoi capolavori proprio nella quiete della “villa”, coniugando lo studio assiduo e il “badalucco”, lo svago. Sentitelo: “Ho un libro sotto, o Dante o Petrarca, o uno di questi poeti minori, come Tibullo, Ovidio e simili; leggo quelle loro amorose passioni e quelli loro amori; ricordomi de' mia; godomi un pezzo in questo pensiero". Poi Machiavelli si scuote, se ne va a mangiare in un'osteria, s'incuriosisce dei nuovi venuti, spettegola: "domando delle nuove de' paesi loro, intendo varie cose, e noto varii gusti e diverse fantasie d'uomini". Poi, in compagnia dell'oste, d'un mugnaio, di due fornaciai e d’un beccaio s’intrattiene come un assiduo frequentatore di bettole. Confessa: "Io m'ingaglioffo per tutto dì giuocando a cricca, a trich-trach, e poi dove nascono mille contese e infiniti dispetti di parole iniuriose, e il più delle volte si combatte un quattrino e siamo sentiti non di manco gridare da San Casciano. Così, rinvolto in tra questi pidocchi, traggo il cervello di muffa".
Poi, tornato in casa, si netta materialmente e spiritualmente dei vili passatempi del pomeriggio, entra nella propria biblioteca, rischiarata dai tremolanti lumi delle candele, un tempio silenzioso, dove i maggiori del passato, Tacito, Cicerone, Seneca, Tito Livio, lo fissano solenni ed accigliati. Improvvisamente, però, come le statue di Memnone, quei giganti si animano, e rendono suoni melodiosi, comprensibili, amichevoli; lo accolgono come suoi pari, con tale generosità e liberalità per cui egli è fatto altro uomo.

"Venuta la sera, mi ritorno a casa ed entro nel mio scrittoio; e in sull'uscio mi spoglio quella veste cotidiana, piena di fango e di loto, e mi metto panni reali e curiali; e rivestito condecentemente, entro nelle antique corti delli antiqui huomini, dove, da loro ricevuto amorevolmente, mi pasco di quel cibo che solum è mio e ch’io nacqui per lui; dove io non mi vergogno parlare con loro e domandarli della ragione delle loro azioni; e quelli per loro humanità mi rispondono; e non sento per quattro hore di tempo alcuna noia, sdimentico ogni affanno, non temo la povertà, non mi sbigottisce la morte"[3].

La scalata si fa difficile, qualcuno ha il fiato grosso. Prepariamoci al sesto grado dell'Anonimo Romano. Alcuni[4] lo identificano come Bartolomeo di Jacovo da Valmontone. Valmontone, insediamente antico, già lambito dalla via Labicana, oggi è comune in provincia di Roma, noto esclusivamente per essere la sede di un ciclopico outlet.
Nella poesia in prosa, tratta dalla Cronica (nota anche come Vita di Cola di Rienzo), Stefano della Colonna, signore di Palestrina e Poncello (ovvero Napoleone) Orsini, signore di Castel S. Angelo, sindaci dell'Urbe, arrivano a Roma, fra l’acclamazione popolare, per deporre il senatore Iacopo Savelli. Anno 1325.
Fazioni armate invadono la città, aizzano le turbe. Fra gli spettatori, presso la chiesa di S. Maria in Publicolis, c'è l'autore, ancora bambino. E questo ricordo, sfocato dagli anni ("me recordo come per suonno") gode della poetica disarmonia del sogno, e al tempo stesso, s'arricchisce dei particolari invisibili all'attenzione pratica degli adulti, quelli da cui la meraviglia infantile trae il massimo diletto, ingigantendoli ai ritmi reiterati delle favole: il rumore delle folle, i colori rutilanti, lo zoccolare dei cavalli, il garrire delle bandiere, lo strepito degli strumenti musicali da festa.

"... sonata la campana, fecero adunare lo puopolo, la moita cavallaria armata e li moiti pedoni. Tutta Roma stava armata. Bene me recordo como per suonno. Io stava in Santa Maria dello Piubico e viddi passare la traccia delli cavalieri armati li quali traievano a Campituoglio. Forte ivano regogliosi. Moiti erano, e bene a cavallo e bene armati. L'uitimo de quelli, se bene me recordo, portava una iuba de zannato roscio e una scuffia de zannato giallo in capo, una mazza a cavallo in mano. Passavano per la strada ritta ... La traccia era longa. La campana sonava. Lo puopolo se armava. Io stava in Santa Maria dello Piubico. A queste cose poneva cura ... Granne fu la festa, granne fu l'onore là in Campituoglio. Nella piazza de Santa Maria fuoro spase trabacche e paviglioni. Là erano tromme e ceramelle e onne instrumento. Vedesi rompere de aste, currere de cavalli e pettorali de sonaglie. Moite erano le banniere. Più erano le reconoscianze. Moita se faceva festa. Moito li fu fatto onore. Nella chiesia de Santa Maria de l'Arucielo stavano doi lietti, li più onorati. Ben pareva cosa reale. Queste cose me recordo como per suonno. Currevano anni Domini MCCC[XXV]"[5].

Probabilmente la colonna di armati, diretta al Campidoglio, passava per l'attuale via dei Falegnami, dov'era, e non è più, Santa Maria in Publicolis. Qualcuno obietterà che la chiesa, invece, si trova ancora lì. In realtà fu demolita prima del 1500; questa attuale è un tardo rifacimento barocco, opera della famiglia Santacroce, a cui piaceva credere di discendere dalla gens Publicola.
Anche le città, come le letterature dell'Italia, scompaiono senza che ce ne accorgiamo. Anche Roma sta scomparendo. E dire che ci viviamo dentro. Non passa giorno senza che vengano consumati i segni del passato: una pietra levigata dai secoli, una breccia del Foro, un’edicola, un arco barocco, un affresco, un terrazzino liberty chiuso da infissi in alluminio anodizzato. Recentemente, in una via della periferia, dalle mie parti, sono stati effettuati improcrastinabili lavori di rifacimento stradale, dovuti agli sventramenti a rate che si sono succeduti negli ultimi anni. All'angolo, in una rientranza del muro, c'era un'edicola mariana, di quelle popolari, tirate su alla meglio e che risaliva ai tempi della guerra. La Vergine Maria e il Bambinello, forse una tempera su tavola, con un tettuccio di legno a copertura, l'iscrizione a ringraziamento, i lacerti di qualche ex voto, qualche vasetto di piante grasse e mazzetti di fiori secchi; le persone anziane ancora li portavano, i fiori, e forse qualche donna ancora si segnava. La via è stata riasfaltata, il muro reintonacato brutalmente a cemento, ai danni di iscrizioni, fiori e tettino. Sopravvive il piccolo dipinto, ma la Madonna e il Bimbetto, impolverati e schizzati dalla calcina, han messo su un'arietta depressa, da suicidi. E l'insano gesto, questo il mio timore, lo metteranno presto in atto dissolvendosi dall’oggi al domani. Vi pare una barzelletta? Se non mi credete, credete ad uno migliore di me:

“I monumenti, le cose antiche, fatte di pietra o legni o altre materie, le chiese, le torri, le facciate dei palazzi, tutto questo, reso antropomorfico e come divinizzato in una figura unica e cosciente, si è accorto di non essere più amato, di sopravvivere. E allora ha deciso di uccidersi: un suicidio lento e senza clamore, ma inarrestabile. Ed ecco che tutto ciò che per secoli è sembrato ’perenne’, e lo è stato in effetti fino a due tre anni fa, di colpo comincia a sgretolarsi, contemporaneamente. Come cioè percorso da una comune volontà, da uno spirito. Venezia agonizza, i sassi di Matera sono pieni di topi e serpenti, e crollano, migliaia di canali (stupendi) in Lombardia, in Toscana, in Sicilia, stanno diventando dei ruderi: affreschi, che sembravano incorruttibili fino a qualche anno fa, cominciano a mostrare lesioni inguaribili. Le cose sono assolute e rigorose come i bambini e ciò che esse decidono è definitivo e irreversibile. Se un bambino sente che non è amato e desiderato - si sente ’in più’ - incoscientemente decide di ammalarsi e morire: e ciò accade. Così stanno facendo le cose del passato, pietre, legni, colori. E io nel mio sogno l’ho visto chiaramente, come in una visione”[6].

Anche certi libri si suicidano; li ho visti con i miei propri occhi, afflosciati sugli scaffali, derelitti, sfiniti dal disinteresse altrui, che parevano implorare il colpo di grazia. E ho visto certi affreschi, vicino Piazza Trilussa, sbiaditi e ormai prossimi all'invisibilità sfiorire nella mestizia; e certe statue antiche, annerite dalla fuliggine metropolitana, ingrugnirsi tra l'affranto e il disgustato, già pronte allo sgretolamento volontario e liberatorio.
E le città, come detto, si dissolvono; Roma, Acaya, Pompei, Cortona, l'Aquila. Qualcuno dirà che  l'Aquila è stata vittima di un cataclisma, ma anche Roma lo è stata, terremotata ripetutamente, nel 1962, poi nel 1971, nel 1974 e nel 1978, per stare al solo dopoguerra. Evidentemente, eravamo tutti distratti.
Alla città dell'Aquila, che era e non sarà più, dedicò una poesia Carlo Emilio Gadda. Una lirica nel senso finora inteso, incastonata nel tessuto prosastico; un notturno perfetto e bellissimo.
Lo scrittore, affaticato, assiste al tramutare del giorno nella prima sera; il vento, infreddato dal passaggio nelle valli, sale a scuotere gli alberi e a donare nettezza alle figure e ai suoni; qualcuno rincasa; lontano, i coni di luce dei fanali delle auto appaiono e scompaiono silenziosi seguendo i tornanti delle strade di montagna:

"Si avvicinavano le ore della notte, già la stanchezza del viaggio pesava. E il vento venne, messi in fragore i castani, dalle gole del Piceno abbuiato. Oppure lambiva la muraglia della montagna color pervinca, divallando ad investire la città. Ombre, salendo, rincasavano da fuori le mura: qualche bicicletta portava il suo padrone al contado. Poi anche i lumi dell’elettrico apparvero, dondolando, nella fredda limpidità della sera. Da uno spalto guardai a lungo, in direzione di Pagànica e di Poggio, ed oltre, verso i Vestini: giù, dentro valle, d’un calesse udivo schioccare la frusta, e il trotto, generoso al ritorno. I fari di alcuna macchina mettevano in corsa coni luminosi nelle rotabili, celati o palesati dai colli, secondo il giro e l’andare. La favola del dì si chiudeva"[7].

Tutte queste intelligenze, ora disperse, accendono in me una nostalgia fortissima; e la sensazione d’una perdita incolmabile.
Questo è quello che sento per un’Italia annientata, che non esiste più. 

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[1] Giacomo Leopardi, Cantico del gallo silvestre, 1927
[2] Cennino Cennini, Il libro dell’arte, 1400 circa
[3] Niccolò Machiavelli, Lettera XI a Francesco Vettori, 10 Dicembre 1513
[4] G. Billanovich, Come nacque un capolavoro: la Cronica del non Anonimo romano. Il vescovo Ildebrandino Conti, Francesco Petrarca e Bartolomeo di Iacovo da Valmontone, Accademia Nazionale dei Lincei, 1995
[5] Anonimo Romano, Cronica, Adelphi, 1979
[6] Pier Paolo Pasolini, Tempo, 5 Aprile 1969
[7] Carlo Emilio Gadda, Genti e terre d'Abruzzo, La Gazzetta del Popolo, 19 Febbraio 1935
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Consigli di lettura

Cennino Cennini, Il libro dell'arte, Le Monnier, 1991; Neri Pozza, 2008
Carlo Emilio Gadda, Genti e terre d'Abruzzo, La Gazzetta del Popolo, 19 Febbraio 1935 in Le meraviglie d’Italia, Einaudi, 1964
Niccolo Machiavelli, Lettera XI a Francesco Vettori, 10 Dicembre 1513 in Lettere a Francesco Vettori e Francesco Guicciardini, Rizzoli, 1989.
Anonimo Romano, Cronica, Adelphi, 1979.
Giacomo Leopardi, Cantico del gallo silvestre, 1927 in Operette morali, edizioni varie.
G. Billanovich, Come nacque un capolavoro: la Cronica del non Anonimo romano. Il vescovo Ildebrandino Conti, Francesco Petrarca e Bartolomeo di Iacovo da Valmontone, Accademia Nazionale dei Lincei, 1995

1 commento:

  1. Quando il sostantivo "attualità" acquista molti altri sensi rispetto a quelli cui siamo abituati. Grazie, anche se depressa...

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