"Non è colpa nostra se [i
testi di Shakespeare] sono così contemporanei e rivendicano di essere riadattatì":
così dichiara, appassionato, Valerio Binasco in unʼintervista al quotidiano il manifesto. Così viene anche da
pensare ogni volta che si vede un riadattamento, anzi una
"riscrittura" scenica sapiente, attraverso cui lʼinvenzione e la
capacità del drammaturgo inglese di lavorare con le storie e le emozioni umane
offrono ancora oggi la possibilità allo spettatore di porsi le stesse domande
eterne che lo assillavano cinque secoli fa. Una riscrittura, quella di Binasco
per La Tempesta della Popular Shakespeare Kompany
al Teatro
Vascello fino al 16 marzo , che, come quelle a firma di Peter Brook -
citato sovente dal regista e attore, come
"maestro" di riferimento - invoglia alla rilettura del testo poetico,
poiché la parola shakespeariana, soprattutto se privata da inutili orpelli
scenografici, sa ben trafiggere lʼanimo
di chi la legge e, soprattutto, quando viene ben recitata, di chi la ascolta.
Niente nave, nessun mare in
tempesta sul palco, niente più magia, ma solo un grande spazio vuoto delimitato
da grandissime pareti che sembrano dipinte con grandi stesure di sangue
rappreso e di fronte al quale noi, la platea, siamo il "mare", visto
dagli attori che ci indicano, ci guardano. E noi, dal mare, immaginiamo di
avere di fronte una spiaggia deserta, sui cui giace solo qualche ramo deformato
dal sole e dal sale. Sul palco gli
stessi personaggi italiani inventati da Shakespeare, ma in modern dress, come quelli che gli spettatori sono ormai abituati a
vedere sul piccolo schermo, nei talk show:
alcuni vestiti come quelli che si incontrano nei palazzi del potere del nostro
paese, con completi sobri con tenui colori, cravatte, occhiali cool e con prossemiche da politicanti, una
Miranda (atletica Deniz Ozdogan) con capigliatura corvina che ricorda lʼacerba
femminilità di un'Amy Winehouse, Calibano clochard , mentre Prospero - superbo
Binasco - con gli occhiali, veste un vecchio frack sgualcito, lo stesso e unico vestito che indossa nella
grotta dove vive da anni.
Ma il personaggio-chiave di ogni
Tempesta, Ariel, è il vero cuore di questo strepitoso allestimento della P.S.K.: interpretato da Fabrizio Contri, che sa muoversi con la dolce
incertezza di un vecchio affetto da demenza senile, per il quale ogni cosa è
una sorpresa, un incanto, e il cui sguardo è incredulo, sorridente e fiducioso come
quello di un bambino. Un "genio" non più magico, ma rovesciato anchʼesso
nella realtà, così come il regista ha rovesciato, nellʼimmaginazione, la
tempesta in platea. Un Ariel e un
Prospero inventati da Binasco cui si
possono dedicare, meglio delle mie, le
parole di Giorgio Agamben (in Profanazioni,
Nottetempo, Roma, 2005):
«[...] Viene tuttavia per ciascuno il momento in cui deve separarsi da Genius.
Può esser di notte, allʼimprovviso, quando al suono di una brigata che passa,
senti, non sai perché, che il tuo dio ti abbandona. O siamo invece noi a dargli
congedo, nellʼora lucidissima, estrema in cui sappiamo che cʼè salvezza, ma noi
non vogliamo più essere salvi. Vattene, Ariele!
È lʼora in cui Prospero depone i suoi incanti e sa che quanto di forza
gli resta ora è la sua, la stagione ultima, tarda, in cui lʼartista vecchio
spezza il suo pennello e contempla. Che cosa? I gesti: per la prima volta
soltanto nostri, completamente smagati da ogni incanto. Poiché certo, la vita
senza Ariele, ha perduto tutto il suo mistero e, tuttavia, da qualche parte
sappiamo che ora soltanto ci appartiene, che ora soltanto cominciamo a vivere
puramente umana e terrena, la vita che non ha mantenuto le sue promesse e può
ora per questo darci infinitamente di più. È il tempo esausto e sospeso, la
brusca penombra in cui cominciamo a dimenticarci di Genius, è la notte esaudita
[...] ».
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