Furore,
l’odissea di un gruppo di contadini dell’Oklahoma, espropriati dalle banche, in
viaggio disperato verso la California, consacrò Steinbeck a cantore del progressismo
roosveltiano. La sua presa di posizione a favore dei diseredati fu netta e riconosciuta
con favore dalla sinistra mondiale, ma, esteticamente, il romanzo si regge su
contrapposizioni antimoderniste, istintive, immediate: da destra populista, da
Blut und Boden, terra e sangue.
Anzitutto,
l’inizio: da catastrofe biblica, una piaga immane voluta da un dio onnipotente e sconosciuto.
Poi le
contrapposizioni: la terra e i muscoli di chi la coltiva contro l’invisibilità
del potere finanziario e contro la carica nichilista rappresentata dalla
tecnologia (i nuovi trattori):
“Va
bene, gridavano i mezzadri, ma la terra è nostra. L'abbiamo misurata noi,
dissodata noi. Siamo nati qui, qui ci hanno ucciso, qui siamo morti. Anche se
non è buona, è nostra lo stesso. E' l'esserci nati, l'averla lavorata,
l'esserci morti, che la fa nostra. E' questo che ce ne dà il possesso, e non
una carta con dei numeri sopra.
E'
doloroso, ma noi non c'entriamo. E' il mostro. La banca non è un essere umano.
Va
bene, ma è una società di esseri umani.
Niente
affatto. Questo è il vostro errore. La banca è qualcosa di diverso da un essere
umano. Capita che chiunque faccia parte di una banca non approvi l'operato
della banca, eppure la banca lo fa lo stesso. Vi ripeto che la banca è qualcosa
di più di un essere umano. E' il mostro. L'hanno fatta degli uomini, questo sì,
ma gli uomini non la possono tenere sotto controllo”.
La
terra, il sangue, il ius sanguinis, persino lo sperma, tutto ciò che è vitale
grida contro il mostro. Ecco uno dei protagonisti che si aggira fra i campi abbandonati
come uno spirito folle del deserto:
“Vado a
visitare i posti che conosco, dove mi son capitati dei fatti indimenticabili.
Vicino a casa mia c'è una conca, tutta cespugli. E' lì dentro che m'ero
sverginato, a quattordici anni. Be', tornavo lì, e mi coricavo a terra, e
rivivevo tutto l'episodio. E il posto dietro la stalla dove mio padre è rimasto
sbudellato dal toro. Il suo sangue è ancora lì, sotto la terra; nessuno può
averlo levato via. Be', vado lì, e m'inginocchio sulla terra bagnata dal suo
sangue. Mi credete proprio tocco nel cervello?”.
Il
sangue, la terra; e la famiglia. Quando l’uomo è strappato alla propria terra,
sembra dire Steinbeck, la famiglia si disgrega: la famiglia Joad vede dapprima
morire i vecchi nonni (impazziscono appena partiti), quindi perdono Noé,
fratello del protagonista Tom, e Connie, e il predicatore Casy, anima veggente del
romanzo; infine il piccolo di Rosa Tea,
nato morto.
Il
romanzo si chiude, tuttavia, con una speranza, ancora affidata alla carne, al sangue: Rosa
Tea, che ha visto perdere il figlioletto, allatta un uomo che sta morendo di fame,
divenendo una dea apportatrice di vita:
“Rosa
Tea sollevò un lembo della coperta e si denudò il petto. ‘Su prendete’ disse.
Gli si fece più vicino e gli passò una mano sulla testa. ‘Qui, qui, così’. Con
la mano gli sosteneva la testa e le sue dita lo carezzavano delicatamente tra i
capelli. Ella si guardava attorno, e le sue labbra sorridevano, misteriosamente”.
Tutto
ciò che è umano (terra, carne, sangue, fluidi vitali e corporei) si schiera
contro il potere incorporeo e mostruoso delle banche, della finanza, dell’ingiustizia.
E Steinbeck sembra dire: chi sceglierà l’ingiustizia si troverà contro l’uomo,
la terra e il sangue, forze inesauribili.
E la scelta, oggi, è ancora questa; e tale resterà nei prossimi anni.
Chi ha in mano il destino dei molti se ne ricordi.
John Steinbeck
Nella
regione rossa e in parte della regione grigia dell'Oklahoma le ultime piogge
erano state benigne, e non avevano lasciato profonde incisioni sulla faccia
della terra, già tutta solcata di cicatrici. Gli aratri avevano cancellato le
superficiali impronte dei rivoletti di scolo. Le ultime piogge avevano fatto
rialzare la testa al granturco e stabilito colonie d'erbacce e d'ortiche sulle
prode dei fossi, così che il grigio e il rosso cupo cominciavano a scomparire
sotto una coltre verdeggiante.
Agli
ultimi di maggio il cielo impallidì e perdette le nuvole che aveva ospitate per
così lungo tempo al principio della primavera. Il sole prese a picchiare e
continuò di giorno in giorno a picchiar sempre più sodo sul giovane granturco
finché vide ingiallire gli orli d'ogni singola baionetta verde.
Le
nuvole tornarono, ma se ne andarono subito, e dopo qualche giorno non tentarono
nemmeno più di ritornare. Le erbacce si vestirono d'un verde più scuro per
mascherarsi alla vista, e smisero di moltiplicarsi. La terra si coprì d'una
sottile crosta dura che impallidiva man mano che il cielo impallidiva, e
risultava rosa nella regione rossa, bianca nella grigia.
Nei
solchetti scavati dall'acqua la terra si sgretolò in rigagnoli di polvere
minuta, tosto percorsi da innumerevoli processioni di formiche e formiconi. E
sotto le sferzate ogni giorno più crudeli del sole le foglie del giovane
granturco perdevano la loro baldanza e la loro durezza; s'inchinavano, dapprima,
e poi, man mano che s'infiacchiva la loro colonna vertebrale, si prostravano. E
venne il giugno, e il sole diventò selvaggio; le strisce brune, sulle foglie
del granturco, si estesero dagli orli fino a toccare le colonne vertebrali. Le
ortiche si sfrangiarono, si raggrinzirono, invecchiarono.
Sulle
strade, mulinate dalle ruote dei carri e trebbiate dai ferri dei cavalli, la
crosta della massicciata andò in frantumi e creò la polvere. Le minime cose
animate sollevavano questa polvere per aria: gli uomini camminando sollevavano
nuvolette che s'alzavano fino alla loro cintola; i carri, nuvole più dense che
raggiungevano le cime delle siepi; le automobili, nuvoloni che oscuravano il
sole. E a tutta questa polvere occorreva molto tempo per ricadere e posare.
Verso
la metà di giugno le nuvole dei cielo, alte, pesanti, gravide di pioggia, si
mobilitarono nel Golfo ed iniziarono la loro marcia di invasione nel Texas. Gli
uomini nei campi levavano gli occhi verso di esse e annusavano l'aria e
rizzavano diti bagnati di saliva per ragguagliarsi sulla provenienza del vento.
I cavalli diventavano inquieti. Le nuvole passando lasciarono precipitare parte
del loro carico e s'affrettarono ad invadere altre contrade, lasciandosi alle
spalle il cielo pallido come prima e il sole feroce, e nella polvere crateri
pieni d'acqua, e nei campi di granturco chiazze rinverdite.
Passate
le nuvole arrivò un venticello che, sospingendole verso settentrione, faceva
mormorar sommesso il granturco annaffiato. Passò un giorno e il vento aumentò
d'intensità e di costanza. La polvere s'alzò dalle strade e coprì le ortiche
dei fossi e si spinse anche addentro nei campi di granturco. Il vento si fece
impetuoso e si accanì nel rodere la crosta lasciata dall'acqua nei campi. A poco
a poco il cielo si oscurò, per i turbini di polvere che il vento sprigionava
dalla terra e trascinava via. Il vento si fece più impetuoso e sbriciolò la
crosta formata dalla pioggia e la polvere turbinò per i campi trascinando
nell'aria piume grigiastre, come spirali di fumo. Il granturco, flagellato dal
vento, emetteva suoni secchi, rovinosi. La polvere impalpabile non ricadeva
ormai più sulla terra, ora, ma si disperdeva nell'oscurità del cielo.
Il
vento si fece ancor più impetuoso e guizzando di tra le pietre sollevava con
violenza paglia e foglie morte e piccole zolle di terra, lasciando tracce al
suo passaggio, al pari d'una nave tra i flutti.
Il sole
splendeva rosso nell'aria oscura e fredda. Una notte il vento impazzò, zappò
furiosamente la terra attorno alle radici del granturco, e il granturco si mise
a lottare per difesa contro il vento agitando le sue foglie indebolite, ma
nella lotta le radici risultarono denudate delle zolle di terra protettrice ed
ogni pianta risultò inclinata nella direzione del vento.
L'alba
venne, ma non il giorno. Nel cielo grigio apparve un sole rosso, un fioco
cerchio rosso che emanava una scialba luce crepuscolare, e col progredire delle
ore il crepuscolo ripiombò nella tenebra e il vento fischiò ed urlò sul
granturco abbattuto.
Uomini
e donne stavano tappati in casa, e quando dovevano uscire si annodavano una
pezzuola davanti alla faccia per filtrare la polvere e portavano occhiali da
automobilista per proteggersi gli occhi.
La
notte fu nera come l'inchiostro, perché le stelle non potevano penetrare
attraverso la polvere per raggiungere la tetra, e le luci accese nell'interno
delle case non arrivavano nemmeno sull'aia. Ora l'aria e la polvere erano
mescolate insieme in parti uguali. Le case erano ermeticamente chiuse, con tutte
le fessure delle porte e delle finestre otturate da stracci; ma la polvere
penetrava ugualmente negli interni, così impalpabile che risultava invisibile,
e si posava come polline sui tavoli, sulle seggiole, sui piatti, sulle
pietanze. Gli esseri umani se la spazzolavano di dosso, mentre strati di polvere
s'erano accumulati sulle soglie delle case.
A metà
della notte il vento s'allontanò e lasciò il paese in pace, perché l'aria densa
di polvere smorzava ancor più della nebbia ogni rumore d'intorno. Le creature
umane, coricate nei loro letti, udirono che il vento era caduto: fu il cessare
del vento a destarle. Ma non s'alzarono, continuarono a giacere immobili
tendendo l'orecchio al silenzio. Poi i galli cantarono, ma con voci smorzate, e
le creature umane si rivoltarono impazienti nei loro letti aspettando il
mattino. Sapevano che occorreva molto tempo alla polvere per ridiscendere a
terra e lasciar pura l'aria. Difatti, venuto il mattino, la polvere restava
sospesa come nebbia, e il sole era di sangue. Per tutta la giornata e così per
tutto il giorno seguente piovve polvere, ricoprendo in modo eguale tutta la
terra. Si posò sul granturco, s'accumulò sulle filagne delle staccionate, sui
fili di ferro, sui tetti, sulle ortiche, sugli alberi.
Gli
esseri umani uscirono dalle case e annusarono l'aria pungente e calda
proteggendosi le nari contro la polvere. E i piccoli, i bambini, uscirono
anch'essi, ma senza gridare, senza correre come avrebbero fatto dopo un comune
temporale. Gli uomini s'appoggiarono coi gomiti sulle staccionate e osservarono
il granturco rovinato, quasi secco ormai, con solo qualche strisciolina di
verde sotto la pellicola di polvere. Gli uomini non parlavano, e si muovevano
appena. E le donne uscirono di casa e vennero a mettersi vicino ai loro uomini
per sapere se era questa la volta che i loro uomini si sarebbero dati per
vinti. Le donne senza farsi vedere studiavano i visi dei loro uomini; perché al
granturco si poteva, alla fin fine, rinunciare, purché fosse salvo qualcos'altro.
I piccoli, lì vicino, disegnavano figure nella polvere coi diti dei piedi, e
anch'essi inconsciamente studiavano i visi dei genitori, per vedere se si
sarebbero dati per vinti. Studiavano le facce dei genitori e disegnavano figure
nella polvere. I cavalli all'abbeverata, prima di arrischiarsi a bere, col
labbro superiore
spazzavano
il pelo dell'acqua. Dopo un poco, i visi degli uomini perdettero la loro stupefatta
perplessità ma acquistarono un'espressione dura, collerica, ostile. Allora le donne
capirono che erano salvi, che gli uomini non si davano per vinti, e allora
ardirono domandare: Cosa facciamo? E gli uomini risposero: Chi lo sa, ma le
donne capirono che erano salvi, e i piccoli capirono che erano salvi. Le donne
e i piccoli avevano l'intima convinzione che nessun disastro era catastrofico
se i loro uomini non si arrendevano. Le donne rientrarono in casa alle loro
faccende, e i piccoli cominciarono a giocare, ma con discrezione, sulle prime.
Col progredire del giorno il sole, meno rosso, ricominciò a scaldare la terra
impolverata. Gli uomini, seduti sui gradini d'accesso alle loro case,
s'occupavano a disegnar figure in terra servendosi di fuscelli o di sassolini.
Non parlavano; meditavano,
calcolavano.
Uno dei miei libri preferiti di Steinbeck..che nessuno legge più :( purtroppo...
RispondiEliminaevviva, comunque a monteverdelegge lo abbiamo letto anche in un gruppo di lettura di un paio di anni fa! :-)
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