venerdì 8 novembre 2013

“Io piscio altissimo verso i cieli oscuri …". Due sonetti di Arthur Rimbaud

Arthur Rimbaud nel 1871,
a diciassette anni

Jean Nicholas Arthur Rimbaud (Charleville, 20 ottobre 1854 - Marsiglia, 10 novembre 1891)

Due sonetti, due altre brecce entro cui penetrare in una nuova fortezza letteraria.
Verlaine, Baudelaire, Rimbaud, nomi che, a forza d'essere aggrovigliati dall'edera dei commenti, e soprattutto, dai rovi dello scandaloso dato biografico, finiscono per morire di illeggibilità.
Rimbaud: oltraggioso, omosessuale da latrina, menefreghista, vizioso, avventuriero, comunista istintuale, vagabondo e poeta d'un eclettismo talmente precoce e profondo da apparire terribile.
Tutto vero, s'intende; occorre, però, ancorare gli aggettivi alla lettura se non vogliamo vederli frullare come passeri impazziti nella gabbia del luogo comune.
Ecco due sonetti da recitare e meditare come rosari d'espiazione per tale eventuale colpa.
Il primo, Alla Locanda Verde (Au Cabaret-Vert), composto nell'ottobre 1870, a sedici anni, parla di uno dei suoi primi vagabondaggi. Rimbaud è in viaggio verso Charleroi, in Belgio, dove spera di ottenere una collaborazione nel Journal locale; ha pochi soldi, e consuma, perciò, il tragitto alternando spostamenti in treno e lunghe camminate. Arrivato nella cittadina, trova ristoro presso una locanda (realmente esistita: si chiamava Maison Verte, in onore al colore dell'insegna, della facciata e del mobilio).
Alla Locanda Verde è, più che un sonetto, una breve e complessa composizione musicale.
Inizia lento: vediamo il poeta strascinare le scarpe usurate su sentieri faticosi. È stanco.
Giunge infine alla meta. Il ritmo della poesia si allarga con un sospiro di sollievo: l'atmosfera nella locanda è calda, amichevole; il viaggiatore si rilassa, allunga le gambe indolenzite sotto il tavolo, pregusta la cena a base di crostini e prosciutto; intanto, nell'attesa, lascia vagare lo sguardo ozioso sulle scenette naif della carta da parati.
La breve stasi ha dilavato le scorie della fatica; la scena può, quindi, animarsi vivace, con piglio quasi rabelaisiano: la tenutaria, popputa e ridente, reca il desinare, una piccola natura morta d'eccezionale calore: il tiepido prosciutto rosa e bianco, lo spicchio odoroso dell'aglio e i crostini imburrati riposano in un piatto dai colori vivaci, la birra schiuma gioiosa da un copioso boccale. Uno stato d'animo di quieta felicità che il poeta rallenta e perfeziona grazie alla screziatura della nostalgia; il tardo sole autunnale, infatti, filtra dalle finestre e colora la spuma della bevanda: l'intera scena si soffonde, quindi, d'un alone di luce morente e dolcissima, propria dei tramonti d'ottobre.

Alla Locanda Verde (1)



(Alle cinque della sera)



Da otto giorni ormai stracciavo le scarpe

Sui sassi delle strade. Entrai a Charleroi.

- Alla Locanda Verde, chiesi dei crostini

Di burro e del prosciutto, freddo a metà.



Beato, sotto la verde tavola le gambe

Allungo: della tappezzeria contemplo

I disegni ingenui. - E che goduria

Quando la serva, tette grosse e occhio sveglio,



- Non si spaventa mica per un bacio quella! -

Mi porta ridendo le tartine al burro

E il prosciutto, tiepido, in un piatto colorato,



Prosciutto rosa e bianco profumato da uno spicchio

D'aglio, e il boccale colma, immenso, colla spuma

Che un tardo raggio di sole indora.



L'anno seguente, forse sempre in autunno, ecco Orazione della sera (Oraison du soir). Il sonetto potrebbe persino leggersi come virtuale continuazione dell'altro (è ancora ambientato in una locanda), ma il tono non concede più alla distensione; il linguaggio, ricco di tecnicismi e strepitose scurrilità, evoca un travaglio e un'atmosfera senza redenzione.
Il sole è già tramontato: si è alle soglie d'un notturno. Il diciassettenne Rimbaud siede con la pipa Gambier stretta fra i denti, collo e ventre ricurvi sul tavolo, il boccale convulso stretto nel pugno. Nell'aria fluttuano, dense, le nuvolaglie del tabacco.
Egli è immerso in una fantasticheria molteplice e dolorosa. I sogni, impalpabili come le esalazioni fumose o i ricordi, bruciano acidi l'anima come le merde fanno coi fondi delle vecchie piccionaie. Ricordi, sogni, rimorsi: veleni che, quali linfe oscure, trasudano dal giovane oro del cuore (l'alburno, ovvero la parte più vitale e recente dell'albero) pregiudicando qualsiasi rifugio nell'innocenza.
Alfine il poeta si scuote. Esce. Fuori, il bisogno, trattenuto a lungo e, perciò, doppiamente impetuoso, si libera alto, lungo e solenne contro i cieli oscuri, come una liturgia blasfema (l'issopo è pianta officinale delle celebrazioni religiose).
Rimbaud riesce a concentrare, in due righe che parlano d'un comunissimo atto triviale, non solo il senso d'una liberazione fisica (la minzione in sé) e interiore (dai veleni dell'esperienza); allo stesso tempo, ergendosi a divinità sacrilega forte del potere della parola, reca una sfida irriguardosa contro l'angustia d'ogni convenzione civile e morale: un assalto al cielo, bruciante e anarchico (e sprezzante, nella sua compiaciuta volgarità), del tutto coerente con la poetica spontanea e ribellista dell'autore.
Trova posto, infine, un ulteriore sberleffo: i girasoli (ironicamente sublimati in eliotropi), spettatori impettiti della rivolta come i borghesi senza volto di un quadro di René Magritte, concedono, muti, l'assenso all'irriverente aspersione.



Orazione della sera (2)



Qui seduto, come un angelo dal barbiere,

Vivo stringendo un boccale bello scanalato,

Collo e ipogastrio curvi, una Gambier tra

I denti, sotto l'aria gonfia di impalpabili veli.



Mille sogni, come caldi escrementi d'una vecchia

piccionaia, recano in me dolci bruciature

E il mio cuore triste, a tratti, un alburno pare,

Ove sanguina di cupe linfe il giovane oro.



E, quando, ringhiottito con cura ogni sogno,

Mi volto - di boccali me ne son fatti trenta o quaranta -

E mi raccolgo, pronto a mollare l'aspro bisogno,



Dolce come il Signore del cedro e degli issopi,

Io piscio altissimo e lontano, verso i cieli

Oscuri, e l'assenso riscuoto dei grandi eliotropi.





(1) Depuis huit jours, j'avais déchiré mes bottines

Aux cailloux des chemins. J'entrais à Charleroi.

- Au Cabaret-Vert : je demandai des tartines

Du beurre et du jambon qui fût à moitié froid.



Bienheureux, j'allongeai les jambes sous la table

Verte : je contemplai les sujets très naïfs

De la tapisserie. - Et ce fut adorable,

Quand la fille aux tétons énormes, aux yeux vifs,



- Celle-là, ce n'est pas un baiser qui l'épeure! -

Rieuse, m'apporta des tartines de beurre,

Du jambon tiède, dans un plat colorié,



Du jambon rose et blanc parfumé d'une gousse

D'ail, - et m'emplit la chope immense, avec sa mousse

Que dorait un rayon de soleil arriéré.



(2) Je vis assis, tel qu'un ange aux mains d'un barbier,

Empoignant une chope à fortes cannelures,

L'hypogastre et le col cambrés, une Gambier

Aux dents, sous l'air gonflé d'impalpables voilures.



Tels que les excréments chauds d'un vieux colombier,

Mille Rêves en moi font de douces brûlures :

Puis par instants mon coeur triste est comme un aubier

Qu'ensanglante l'or jeune et sombre des coulures.



Puis, quand j'ai ravalé mes rêves avec soin,

Je me tourne, ayant bu trente ou quarante chopes,

Et me recueille, pour lâcher l'âcre besoin :



Doux comme le Seigneur du cèdre et des hysopes,

Je pisse vers les cieux bruns, très haut et très loin,

Avec l'assentiment des grands héliotropes.

Nessun commento:

Posta un commento