venerdì 4 aprile 2014

Laboratorio di traduzione: Philip Schultz, "Modelli"

Vi proponiamo la versione italiana di Specimen, uno dei testi che fanno parte della raccolta con cui Philip Schultz ha vinto nel 2008  il premio Pulitzer. La traduzione è stata elaborata nel corso del Laboratorio, che in questo ciclo 2013-2014 ha come oggetto appunto gli scritti del poeta statunitense. Sotto, la versione originale del testo.

 Philip Schulz

Ho fatto  sessant’anni  l’anno scorso a Parigi.
Stavamo al Lutetia,
dove era  acquartierata la Gestapo
durante la guerra, mia moglie, i due ragazzi ed io,
e molte anziane signore vietnamite
con barboncini dai collari di diamanti.

Una volta mio padre sorprese un uomo
che rubava sigarette da uno
dei suoi distributori automatici.
Non smise di stringergli la gola
fino a quando la sala da biliardo non puzzò di escrementi
e il corpo crollò a terra
come una sentenza.

L’ultima volta che ero stato a Parigi
ero povero in canna, mi imboscavo
dalla guerra del Vietnam.
Una sera, in una vecchia chiesa,
pensai di togliermi la vita.
Non capivo l’essere così giovane
e non appartenere a nessun luogo
in mezzo a tante sconcertanti melodie.

Amavo i bassi edifici bianchi,
i colori accattivanti, la luce antica.
Tanto lusso non faceva per noi.
Era una questione d’orgoglio.
Mio padre morì in bancarotta una settimana
prima di fare sessant’anni.
Non mi aspettavo di avere una famiglia;
Non mi aspettavo la felicità.

Al Lutetia erano tutti
vestiti come i modelli
da loro amati  tutta la vita.
La gente scivolava lungo
guide di velluto rosso
come musica scintillante
che si sente solo una volta o due.

Tornando a casa, mio padre disse,
“Se permetti a qualcuno di rubarti  qualcosa
 non ce la puoi fare.”
Sedevo là, tranciato dalle luci del traffico,
senza appartenere a quel che diceva.
Appartenevo a una musica
scintillante e  sconcertante
che non mi aspettavo di sentire.





I turned sixty in Paris last year.
We stayed at the Lutetia,
where the Gestapo headquartered
during the war, my wife, two boys, and me,
and several old Vietnamese ladies
carrying poodles with diamond collars.

Once my father caught a man
stealing cigarettes out of one
of his vending machines.
He didn’t stop choking him
until the pool hall stunk of excrement
and the body dropped to the floor
like a judgment.

When I was last in Paris
I was dirt poor, hiding
from the Vietnam War.
One night, in an old church,
I considered taking my life.
I didn’t know how to be so young
and not belong anywhere, stuck
among so many perplexing melodies.

I loved the low white buildings,
the ingratiating colors, the ancient light.
We couldn’t afford such luxury.
It was a matter of pride.
My father died bankrupt one week
before his sixtieth birthday.
I didn’t expect to have a family;
I didn’t expect happiness.

At the Lutetia everyone
dressed themselves like specimens
they’d loved all their lives.
Everyone floated down
red velvet hallways
like scintillating music
you hear only once or twice.

Driving home, my father said,
“Let anyone steal from you
and you’re not fit to live.”
I sat there, sliced by traffic lights,
not belonging to what he said.
I belonged to a scintillating
and perplexing music
I didn’t expect to hear. 

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