Il 7 aprile di
vent'anni fa cominciò in
Ruanda un massacro che durò tre mesi e che portò alla morte oltre ottocentomila persone, per lo più di etnia tutsi. Fu un
genocidio dal quale, come ha osservato giorni fa Agnes
Binagwaho, ministra per la salute del paese africano, “nessun ruandese – superstite,
corresponsabile o esule – emerse indenne, mentre il mondo stava a
guardare senza fare nulla”. Ricordiamo quei giorni tragici proponendo uno stralcio dall'introduzione al libro autobiografico di Paul Rusesabagina Hotel Rwanda, da cui è stato tratto nel 2004 un film con Don Cheadle.
Paul Rusesabagina
Il Rwanda è stato un
fallimento a più livelli. Anzitutto, è stato il fallimento del
colonialismo europeo, che sfruttò differenze insignificanti per
portare avanti la sua strategia del divide et impera. Poi è stato il
fallimento dell’Africa, incapace di superare le sue divisioni
etniche attraverso la
formazione di governi di coalizione. Poi
ancora è stato il fallimento delle
democrazie occidentali, incapaci
di impedire la catastrofe intervenendo
ai primi inequivocabili
segnali. È stato il fallimento degli Stati Uniti, che
non ebbero il
coraggio di chiamare il genocidio col suo vero nome. È stato
il
fallimento delle Nazioni Unite, impotenti a svolgere il loro compito
di
corpo di pace.
Tutto ciò significa che a
fallire furono le parole. Perché questo è ciò
che voglio dire: le
parole sono le più efficaci armi di morte che l’uomo
possiede, ma
possono anche essere potenti strumenti di vita; potrebbero
addirittura essere gli unici.
Oggi sono convinto che a
salvare quelle 1.268 persone nel mio hotel
siano state le parole.
Non i liquori, non i soldi, non le Nazioni Unite. Solo
comuni parole
rivolte contro l’oscurità. Perché le parole sono importanti.
Io
le ho usate in molti modi durante il genocidio: per supplicare,
intimidire, persuadere, lusingare, negoziare. Sono stato ambiguo ed
evasivo quando era necessario. Mi sono comportato da amico nei
confronti di persone
che disprezzavo. Ho messo casse di champagne
nei bagagliai delle loro
auto. Le ho adulate spudoratamente. Ho
detto qualunque cosa ritenevo
necessaria per evitare che le persone
che si erano rifugiate nel mio hotel
venissero uccise. Non avevo
alcuna causa da perorare, alcuna ideologia
da promuovere, se non
quel semplice obiettivo. Le parole sono state il
mio legame con un
mondo più sensato, con la vita quale dovrebbe essere
vissuta.
Non sono né un politico
né un poeta. Ho costruito la mia carriera su
parole semplici e
ordinarie, riguardanti la vita di tutti i giorni. Sono solo
un
direttore d’albergo, né più né meno, addestrato a negoziare
contratti e
incaricato di fornire alloggio a coloro che ne hanno
bisogno. Il mio lavoro
non subì alcun cambiamento durante il
genocidio, anche se mi trovai gettato in un mare di fuoco. Usai solo
quelle parole che mi sembravano normali e sensate. Feci ciò che
chiunque avrebbe fatto in quelle circostanze.
Dissi di no ad azioni
ignobili, come credevo che chiunque avrebbe fatto,
e ancora mi
sconcerta che molti invece abbiano potuto dire di sì.
(da Hotel Rwanda, ll Canneto Editore 2013, traduzione di Melissa Ori)
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