lunedì 7 aprile 2014

Parole in Rwanda: armi di morte, strumenti di vita


Il 7 aprile di vent'anni fa cominciò in Ruanda un massacro che durò tre mesi e che portò alla morte oltre ottocentomila persone, per lo più di etnia tutsi. Fu un genocidio dal quale, come ha osservato giorni fa Agnes Binagwaho, ministra per la salute del paese africano, “nessun ruandese – superstite, corresponsabile o esule – emerse indenne, mentre il mondo stava a guardare senza fare nulla”.  Ricordiamo quei giorni tragici proponendo uno stralcio dall'introduzione al libro autobiografico di Paul Rusesabagina Hotel Rwanda, da cui è stato tratto nel 2004 un film con Don Cheadle.
 
Paul Rusesabagina
Il Rwanda è stato un fallimento a più livelli. Anzitutto, è stato il fallimento del colonialismo europeo, che sfruttò differenze insignificanti per portare avanti la sua strategia del divide et impera. Poi è stato il fallimento dell’Africa, incapace di superare le sue divisioni etniche attraverso la formazione di governi di coalizione. Poi ancora è stato il fallimento delle democrazie occidentali, incapaci di impedire la catastrofe intervenendo ai primi inequivocabili segnali. È stato il fallimento degli Stati Uniti, che non ebbero il coraggio di chiamare il genocidio col suo vero nome. È stato il fallimento delle Nazioni Unite, impotenti a svolgere il loro compito di corpo di pace.
Tutto ciò significa che a fallire furono le parole. Perché questo è ciò che voglio dire: le parole sono le più efficaci armi di morte che l’uomo possiede, ma possono anche essere potenti strumenti di vita; potrebbero addirittura essere gli unici.

Oggi sono convinto che a salvare quelle 1.268 persone nel mio hotel siano state le parole. Non i liquori, non i soldi, non le Nazioni Unite. Solo comuni parole rivolte contro l’oscurità. Perché le parole sono importanti. Io le ho usate in molti modi durante il genocidio: per supplicare, intimidire, persuadere, lusingare, negoziare. Sono stato ambiguo ed evasivo quando era necessario. Mi sono comportato da amico nei confronti di persone che disprezzavo. Ho messo casse di champagne nei bagagliai delle loro auto. Le ho adulate spudoratamente. Ho detto qualunque cosa ritenevo necessaria per evitare che le persone che si erano rifugiate nel mio hotel venissero uccise. Non avevo alcuna causa da perorare, alcuna ideologia da promuovere, se non quel semplice obiettivo. Le parole sono state il mio legame con un mondo più sensato, con la vita quale dovrebbe essere vissuta.
Non sono né un politico né un poeta. Ho costruito la mia carriera su parole semplici e ordinarie, riguardanti la vita di tutti i giorni. Sono solo un direttore d’albergo, né più né meno, addestrato a negoziare contratti e incaricato di fornire alloggio a coloro che ne hanno bisogno. Il mio lavoro non subì alcun cambiamento durante il genocidio, anche se mi trovai gettato in un mare di fuoco. Usai solo quelle parole che mi sembravano normali e sensate. Feci ciò che chiunque avrebbe fatto in quelle circostanze. Dissi di no ad azioni ignobili, come credevo che chiunque avrebbe fatto, e ancora mi sconcerta che molti invece abbiano potuto dire di sì. 

(da Hotel Rwanda, ll Canneto Editore 2013, traduzione di Melissa Ori)

Nessun commento:

Posta un commento