No, a Wolfgang Goethe i cani non piacevano proprio.
Nella diciassettesima elegia romana egli afferma di
tollerare solo l’abbaiare che annuncia la venuta dell’amata; altri latrati non possono che ferire crudamente i timpani del Vate:
Noia mi
dan parecchi rumori; ma sopra ogni altro
Odio il
latrar dei cani: lacerami gli orecchi.
Solo un
cane sovente io odo con gioia latrare,
E
questo è il cane che s'allevò il vicino.
Esso a
la mia fanciulla un giorno abbaiava, quand'ella
Venìa
furtiva, e quasi n'era il mister tradito.
Ora,
appena l'ascolto, mi dico pur sempre: ella viene?
O
ripenso quel tempo, che l'Attesa venìa.
Nel settantreesimo epigramma veneziano il tono si fa più
conciso e definitivo:
Davvero
non mi meraviglia che gli uomini amino i cani,
Un briccone miserabile è infatti, come l'uomo, il cane.
(Wundern kann es mich nicht, daß Menschen die Hunde so
lieben;
Denn ein erbärmlicher Schuft ist, wie der Mensch, so
der Hund)
Nel
Faust, invece, il cane (un can barbone incontrato per caso) diviene il cavallo
di Troia di Mefistofele:
Non
guaire, barbone! Alle sante armonie
che ora
mi prendono l’anima
non
s’accorda il tuo ringhio di bestia.
Siamo
avvezzi a sentire che gli uomini deridono
quello
che non intendono
e di
fronte a bellezza e bontà
infastiditi,spesso
brontolano. Ringhiare
a
quelle vuole, come loro, il cane?
….
Se devo
spartire la stanza con te,
smetti
di mugolare,
caro
cane, smetti di latrare.
Compagnia
tanto fastidiosa
Non la
riesco a sopportare.
Uno di
noi due
Se ne
deve andare.
Mi
spiace mancare ai doveri dell’ospite.
La
porta è aperta,il passo è libero….
Ma che
mi tocca di vedere?
Può
capitare una simile cosa
In
natura? E’ illusione? E’ realtà?
Come si
fa grande e grosso!
S’alza
di prepotenza,
non ha
più nulla che paia di un cane…
Che
spettro mi sono portato qua dentro!
Sembra
già un ippopotamo. Ha occhi
di
fuoco, ha zanne spaventose.
E un cane,
piuttosto prevedibilmente, divenne uno dei motivi delle dimissioni dal teatro di
Weimar, dopo venticinque anni di gestione:
"A
quel tempo un celebre commediante di nome Karsten si era esibito in tutta la
Germania in una commedia intitolata Il
cane di Aubry. Il protagonista della pièce era un barbone ammaestrato che
era diventato assai famoso anche personalmente. Quando i proprietari del teatro
di Weimar decisero di ospitare la commedia, Goethe andò su tutte le furie.
Diede le dimissioni per l’affronto.
Per
spiegare la propria posizione scrisse un’irata poesia ad un amico, il
drammaturgo e storico Johann Schiller :
Il
palcoscenico non è un canile
O un
luogo per un botolo.
Il
barbone fa il suo ingresso,
Il
poeta la sua uscita:
Un artista
non s’inchina a un cane” (1)
Chissà
quale shock infantile presiedette a tale idiosincrasia, oggi incomprensibile.
Carlo Emilio
Gadda era altro famigerato cinofobo (in realtà odiava tutti gli animali, portatori
di sozzura e disordine, con l’eccezione del cavallo – del cavallo, però,
disciplinato nelle parate militari). In Una tigre nel parco egli definisce le radici psicologiche del suo atteggiamento: si rivede
bambino (sì, anche Gadda fu bimbo), a giocare sui prati, imitando, appunto, una
tigre:
“Volevo
ad ogni costo andare a quattro zampe, nel folto più dei cespi e dell’erbe, onde
procurarmi la gioiosa certezza (ogni qualvolta lo ritenessi necessario ed
urgente) della mia immedesimazione in una «tigre reale».
Il no
dell’Io cosmico si manifestò tutt’a un tratto, l’ultima volta che feci la tigre
a quattro zampe, sotto la specie d’una strana marmellata (oh! non era di
susine!) che prese a fertilizzare tra le mie dita quella jungla improvvisamente
fetida: e nel suo luogo più folto e nel momento mio più tigrino. Ne piansi a
dirotto benché tigre: fino alla completa abluzione delle zampe anteriori, cui
dalla fedel nutrice venni amorosamente sottoposto, alla più vicina fontanella:
e il mio ideale di riuscire una tigre reale vanì, ahi!, per sempre”.
L’infante
manina gaddiana affonda, perciò, nella merda -
evento che innescherà, a suo dire, la mania totalizzante per l’ordine e il
personale disgusto per cani e cagnette, seminatori di cioccolatini e polpette (e disgusto per i polli, i pesci, i gatti; per la vita in
generale):
“Il
sole e le luci declinavano verso la loro dolcezza, allorché il figlio discese
da Simposio, o forse dalle Leggi, e, senza preveder, aprì la porta di sala. Vi
vide la mamma, con gli occhi arrossati dalle lacrime, tener crocchio:
all'impiedi: e intorno, come una congiura che tenga finalmente la sua vittima,
Peppa, Beppina, Poronga, polli, peone, la vecchia emiplegica del venerdì, la
moglie nana e ingobbita dell'affossamorti, nera come una blatta, e il gatto, e
la gatta tirati dal fiuto del pesce: ma fissavano il cagnolino del Poronga,
lercio, che ora tremava e dava segni, il vile, d'aver paura dei due gatti, dopo
aver annusato a lungo e libidinoso le scarpe di tutti e anche pisciato sotto la
tavola. Ma il filo della piscia aveva poi progredito per suo conto verso il
camino. E sul piatto il pesce morto, fetente. Era enorme, giallo, con gli occhi
molli e cianotici dopo l'impudicizia e la nudità; con la bocca rotondo-aperta
pareva gli avessero dato a suggere, per finirlo, il tubo del gas. E nel
cestello i funghi dall'odor di piedi; per aria mosche e anzi alcuni mosconi,
due calabroni, una o forse due vespe, un farfallone impazzito contro la
specchiera: e, computò subito, stringendo i denti, un adeguato contigente di
pulci. La rabbia, una rabbia infernale, non alterò tuttavia la sua faccia.
Aveva una speciale capacità d'odio senza alterazioni fisiognomiche. Era, forse,
un timido. Ma più frequentemente veniva ritenuto un imbecille. Si sentì
mortificato, stanco. L'antica ossessione della folla: l'orrore de' compagni di
scuola, dei loro piedi, della loro refezione di croconsuelo; il fetore della
«ricreazione», il diavolìo sciocco; le lunghe processioni verso gli orinatoi
intasati, in ordine, due a due; la imperativa maestra che diceva basta a chi la
faceva troppo lunga: alcuni rimandavano dunque il saldo a un tempo migliore. Il
disgusto che lo aveva tenuto fanciullo, per tutti gli anni di scuola, il
disprezzo che nei mesi dopo guerra aveva rivolto alle voci dei cosiddetti
uomini: per le vie di Pastrufazio s'era veduto cacciare, come fosse una belva,
dalla loro carità inferocita, di uomini: di consorzio, di mille. Egli era uno …
La
turpe invasione della folla… Gli zoccoli, i piedi: nella casa che avrebbe
dovuto esser sua… I calcagni color fianta, i diti, divisibili per 10, con le
unghie… e la piscia del cane vile, pulcioso, con occhio destro pieno di
marmellata, dentro cui sguazzavano cicìk e ciciàk le piante quadrupedanti di
quegli zoccoli. Un rutto enorme, inutilità gli parvero gli anni, dopo le
scempiaggini di cui s' erano infarciti i suoi maggiori…”.
Così l’intrattabile
ingegnere ne La cognizione del dolore.
Che gli
animalisti si acquietino, tuttavia.
Goethe
e Gadda non li legge più nessuno.
(1) Brano tratto da Stanley
Core, Cani e padroni: come trovare il
cane ideale per la propria personalità, 1999