Allo scrittore Andrea Pomella, che abbiamo avuto come ospite da Plautilla il 4 dicembre, abbiamo rivolto alcune domande a partire dal suo ultimo romanzo L'uomo che trema (Einaudi 2018). Ecco cosa ci ha risposto:
È vero che per conoscere il mondo devo conoscere il mio mondo e il linguaggio che lo esprime?
Ogni cosa esiste nel linguaggio, nulla esiste al di fuori di esso. Un libro è una metafora perfetta della realtà sensibile, è un oggetto afono, chiuso, inerme, poi nell’istante in cui un lettore lo apre e inizia a leggerlo, il mondo che vi è contenuto improvvisamente prende vita, genera delle conseguenze. Ogni libro è un mondo che si esprime attraverso un linguaggio, e ogni mondo è un libro. In questo senso il mio non è quel che si dice “un libro sulla depressione”, è più un libro che racconta il mio mondo attraverso il linguaggio della depressione. La depressione è una lente che filtra la realtà, è appunto il linguaggio che la esprime.
È in qualche modo la scrittura un atto di generosità, un dono che si mette a disposizione dell’altro?
La scrittura non è mai un fatto individuale. Non si scrive per sé, altrimenti non si scriverebbe e basta. L’invenzione stessa della scrittura risponde al bisogno di condivisione del pensiero. Per quanto mi riguarda, scrivere non può essere altro che questo: mettere a disposizione una storia, mostrare i polsi, è come dire: “Questo è tutto ciò che ho”.
Si può parlare di valore sociale di un prodotto intellettuale come il romanzo e il suo in particolare si può attribuire un tale valore? E se sì in che modo?
Si dice che un prodotto artistico debba sempre mirare a produrre un cambiamento all’interno della società a cui si rivolge. Che sia piccolo o grande non importa. Se il mio romanzo abbia o meno un valore sociale non sta a me dirlo. Posso dire però che ho scritto il libro tenendo ben a mente questo presupposto e sapendo che stavo affrontando un tema che ha, sì, un enorme impatto sociale. Molti lettori mi confidano che leggendolo hanno compreso meglio alcuni aspetti di sé, della propria storia, o che banalmente si sono riconosciuti e quindi si sono sentiti meno soli. Anche questo, forse, è un modo di incidere sulla realtà.
(Daniela Moriconi)
mercoledì 12 dicembre 2018
mercoledì 5 dicembre 2018
MVL teatro: Il decennio dei giovani leoni di Piazza del Popolo
Fino al 9 dicembre va in scena al Teatro Vascello Fiato d’Artista, un diario teatrale che ha come sfondo la Roma degli anni Sessanta. Protagonista e autrice è Paola Pitagora, attrice che noi tutti, nati intorno a quel decennio abbiamo conosciuto come l’indimenticabile Lucia dei Promessi Sposi, incorniciata dalla coroncina stellata nel monitor bianconero della tivù. Erano i tempi dell’intervallo con le città d’Italia su sottofondo musicale della Sonata per arpa di Pietro Domenico Paradisi, quando le macchine percorrevano allegramente i centri storici e venivano parcheggiate anche in piazze come Piazza del Popolo, ora divenuta isola pedonale per le comitive di turisti che assaltano la capitale, nonché luogo orribilmente transennato per occasionali intrattenimenti politici e musicali. Proprio questa piazza è teatro virtuale del racconto dell’attrice, pubblicato nel 2001 da Sellerio con il titolo Fiato d’Artista, Dieci anni a Piazza del Popolo, affidato qui alla regia di sua figlia Evita Ciri e di Nicola Campiotti, e alla recitazione di due giovani attori, Giulia Vecchio e Francesco Villano. Lei controfigura dell’attrice ventenne e lui del suo giovane amore, Renato Mambor, artista della cosiddetta Scuola di Piazza del Popolo. Con tantissime belle immagini proiettate su un fondale bianco, per la gioia degli occhi e del cuore di chi ha l’età per riconoscere luoghi e personaggi di quegli anni.
É un racconto che si snoda soprattutto sul piano sentimentale, sia tra i due protagonisti, a cui la stessa Paola Pitagora, presente in scena, affida la recitazione di alcuni momenti fondamentali della loro storia, sia con gli altri personaggi, qui solo evocati, con cui i due condividevano le giornate e le notti. Nei frammenti narrati si ritrova il fermento di una generazione ormai per lo più trascorsa, divenuta ormai il soggetto di un tempo dimenticato, un passato remoto: Jannis Kounellis, Mario Schifano, Pino Pascali, Sergio Lombardo, Tano Festa, Franco Angeli, Francesco Lo Savio, Renato Mambor e Cesare Tacchi. Questi erano gli artisti che negli anni Sessanta si incontravano al bar Rosati, dove trascorrevano lunghe ora a dialogare di arte e a inventare la battaglia di una nuova avanguardia italiana che nasceva sulle ceneri della guerra perduta dai futuristi e che cercava un proprio spazio in un mondo conquistato culturalmente dalla nuova capitale del mondo, New York. Più o meno erano tutti maschi, tranne Giosetta Fioroni, e tutti belli, anzi magnifici, eroici, e, alcuni di loro, destinati a morire giovani, proprio come si addice all’epica della giovinezza: è il caso esemplare di Pino Pascali, la cui vita si infranse mentre correva con la sua amata motocicletta alle quattro del mattino, proprio nei sottopassaggi del Muro Torto a due passi da Piazza del Popolo, come racconta in scena la stessa Paola Pitagora con parole emozionate.
Erano una decina di artisti che, proprio in quegli anni, si nutrivano di un poderoso fiato d’artista ispiratore, ma anche di una profonda e rigorosa meditazione teorica. Successivamente avrebbero intrapreso altre strade, spesso divergenti e con fortune diverse, alla ricerca di una rifondazione dell’arte e dei suoi linguaggi e strumenti. Di tutto questo Paola Pitagora è l’affettuosa testimone, che – sedotta dalle idee estetiche di quegli ultimi fascinosi del secolo trascorso – si ribellò ai divieti di un padre borghese che sognava per lei un avvenire di donna tranquilla, per partecipare alle vicissitudini di Renato Mambor e del gruppo di artisti di Piazza del Popolo. Ma che, di fronte agli slip di una amante occasionale trovati nel letto e denunciati con noncurante candore dal divertito fedifrago, lo piantò in asso sbattendo la porta e se ne andò per seguire la sua strada verso una carriera di attrice affermata. Affettuosa malinconia è il sentimento che resta per questa storia, ma forse ogni ricordo che osserva a ritroso una rivoluzionaria giovinezza che si è conclusa lascia questo sapore dolce e amaro insieme. Nel frattempo i giovani leoni della Scuola di Piazza del Popolo hanno scritto un capitolo fondamentale della storia dell’arte, e di questo si parlerà ancora nella rassegna Fiato d'Artista al Teatro Vascello, in un ricco programma di incontri, fino al 9 dicembre.
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martedì 27 novembre 2018
Widows di Steve McQueen
Roberta Rondini
Widows è un film del quale consiglio la visione e che
mi piacerebbe fosse tra quelli di cui si
discuterà nel Gruppo “Al cinema con
MVL”. Un film potente, pensato e girato su piani molteplici, che utilizza il
thriller, il genere rapina, per
parlare sottilmente e fascinosamente di politica e di sociale nell’America di
oggi, spostando, non a caso, il luogo originario di svolgimento della storia da
Londra a Chicago. Un film, inoltre, declinato al femminile.
Ripresa da una miniserie
televisiva scritta da Lynda La Plante negli anni Ottanta e adattata dal regista
Steve McQueen e da Gillian Flynn (sceneggiatrice
anche di Gone Girl), la storia è il
grimaldello che il regista – e fior di artista – britannico usa per acconciare
una scena che, prendendo avvio dagli esiti di una rapina andata tragicamente
male per la morte di tutti i protagonisti (con le vedove intenzionate a
recuperare quei soldi), prende il largo verso una panoramica di quello che si
muove nella società contemporanea americana in termini di politiche sociali, di
razzismo, di riscatto femminile e di riscatto etnico delle minoranze, non solo
“negre” ma anche ispaniche e europee di vecchia immigrazione.
Il dramma è raccontato alla maniera raffinata ed elegante di
McQueen, con attenzione ai particolari, alle tecniche scelte per le
inquadrature degli esterni : Chicago,
ricca e povera, ripresa dal basso e dall’alto – notevole il “racconto” del
sobborgo cittadino con la macchina da presa legata al cofano di una autovettura
in movimento; e degli interni: le
sequenze ambientate nei locali pubblici o la memorabile inquadratura primo
piano di Viola Davis, protagonista nera fisicamente imponente, nella sua camera
da letto bianca, con il cane bianco adagiato sul letto bianco. Raffinatezze
stilistiche di un regista, artista e scultore, che si esprime attraverso
dettagli e inquadrature di grande eleganza capaci di dare il senso della sua
attenzione ai dettagli per raccontare una storia.
domenica 25 novembre 2018
Dal laboratorio di traduzione: "Retaggio" di Kaveh Akbar
Fiorenza Mormile
Reyhaneh Jabbari, a 26-year-old Iranian woman,
Nella Giornata contro la violenza sulle donne vi proponiamo
Retaggio, un testo di denuncia contro la condanna a morte di una ragazza
iraniana impiccata per avere ucciso l’uomo che cercava di violentarla.
L’autore è il poeta iraniano-americano Kaveh Akbar, nato a Teheran il 15 gennaio 1989 e trasferitosi con i genitori negli Stati Uniti in giovanissima età.
Kaveh al lavoro - foto di proprietà dell'autore |
Nel testo l’impatto contro con il rigore spietatamente
misogino della giustizia iraniana mina l’attaccamento di Akbar alle proprie
radici natali e culturali. La penultima strofa “possa Dio colpirci /per farci
(…) ridestare il cervello a frustate” suona sarcastica rispetto ai metodi
adottati dalla Shari’a. Le aspettative deluse “esponiamo l’amore alla luce/ per
stupirci della sua impotenza” scatenano in Akbar un profondo senso di colpa,
facendolo sentire correo di quella morte: “malgrado tutti i nostri rituali di
misericordia (…) te abbiamo mandato avanti”. Qualcosa di simile avviene
all’interno di ciascuno di noi anche qui, così lontano dagli ayatollah, ad ogni
nuovo caso di violenza di genere.
Reyhaneh Jabbary |
Reyhaneh
Jabbary, una donna iraniana di 26 anni, è stata impiccata
il 25 ottobre 2014, per aver ucciso
il 25 ottobre 2014, per aver ucciso
un uomo che
cercava di violentarla.
il corpo è una moschea prestata dal Cielo secoli e secoli
macchiano il mattone smaltato la nostra pelle si sfalda come un frammento
al centro di una clessidra a volte mi vergogno tanto
del mio sentire
quanto poco conti gli angeli
non hanno a cuore l’umiltà
ti sei rasata il capo hai passato undici giorni in
isolamento mezza morta di fame
e non una tromba divina si è sciolta in canto ora è solitudine tutto intorno
più che una persona sto diventando un vaso di ricordi è un mito
che l’amore viva nel
cuore vive nella gola lo
spingiamo fuori
quando parliamo quando restiamo senza fiato ne prendiamo un po’ per noi
nei libri l’amore può far cessare la guerra un soldato getta la spada
per imboccare di ostriche il nemico nella vita esponiamo l’amore alla
luce
per stupirci della sua impotenza hai detto in una lettera a Sholeh
che non uccidevi neppure gli scarafaggi nella cella li tiravi su
per le antenne e li lanciavi tra le sbarre in un cortile
dove vedevi uomini martellare lunghe assi di cipresso per
farne una forca
gli stessi uomini che anni
prima avevano gettato i loro anelli nel fango che li innaffiavano
cinque volte al giorno che sparavano ai merli per scacciarli dai rami dei mandorli
e baciavano la terra alla vista dei germogli per poi maledirsi a vicenda quando gli
steli
invece di lambirgli le labbra si seccavano alle loro
ginocchia possa Dio colpirci
per farci svegliare ridestare il cervello a frustate si possa misurare ogni vittoria
dall’assenza momentanea del dolore non c’è conforto nella storia è un dono
ricevuto alla nascita una tasca in cui ci ripieghiamo alla morte e ora addio a te montagna
a te armada di fiori a te intero miserabile decennio con un groppo in gola
malgrado tutti i nostri rituali di misericordia
ripetuti all'infinito te abbiamo mandato avanti.
Traduzione di Maria Adelaide Basile, Marta Izzi, Giselda Mantegazza, Fiorenza Mormile,
Anna Maria Rava, Anna
Maria Robustelli, Jane Wilkinson.
Heritage
Reyhaneh Jabbari, a 26-year-old Iranian woman,
was
hanged on October 25th, 2014, for killing a man
who was
attempting to rape her.
the body is a mosque borrowed from
Heaven centuries of time
stain the glazed brick our skin rubs away like a chip
in the middle of an
hourglass sometimes I am so ashamed
of my sentience how little it
matters angels don't care about
humility
you shaved your
head spent eleven days half-starved
in solitary
and not a single divine trumpet wept into
song now it's lonely all over
I'm becoming more a vessel of memories than a
person it's a myth
that love lives in the
heart it lives in the throat we push it out
when we speak when we
gasp we take a little for ourselves
in books love can be
war-ending a soldier drops his sword
to lie forking oysters into his enemy's
mouth in life we hold love up to the
light
to marvel at its
impotence you said in a letter
to Sholeh
you weren't even killing the roaches in your
cell that you would take them up
by their antennae and flick them through the bars into a
courtyard
where you could see men hammering long planks of cypress
into gallows
the same men who years before threw their rings in the
mud who watered them
five times
daily who shot blackbirds off almond branches
and kissed the soil at the sight of
sprouts then cursed each other when the stalks
which should have licked their lips withered dryly at their
knees may God beat
us awake scourge our brains to
life may we measure every victory
by the momentary absence of
pain there is no solace in history this is a gift
we are given at birth a pocket we
fold into at death goodbye now you
mountain
you armada of
flowers you entire miserable
decade in a lump in my throat
despite all our endlessly rehearsed rituals of
mercy it was you we sent on
Si ringrazia l’autore per l’autorizzazione alla riproduzione
dell’originale.
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martedì 20 novembre 2018
Dal Laboratorio di Traduzione un nuovo testo di Joy Harjo: Questo è il mio cuore
Fiorenza Mormile
Il terzo testo di Joy Harjo è This is My Heart, una canzone d’amore composta dalla poetessa nativa americana che in questo concerto del 2008 alterna il canto con a solo di sax mostrando le sue doti di performer.
Questo è il mio cuore
Questo è il mio cuore. È un buon cuore.
Tesse una membrana di nebbia e fuoco.
Quando facciamo l'amore nel mondo dei fiori
il mio cuore è vicino abbastanza da cantare per te
in una lingua troppo goffa
per le parole umane.
Questa è la mia testa. È una buona testa.
Dentro le ronza uno sciame di preoccupazioni.
Qual è la fonte di questo mistero.
Perché non posso vederla qui, adesso,
reale come queste mani che forgiano
il mondo?
Questa è la mia anima. È una buona anima.
"Vieni qui, smemorata", mi dice.
E ci sediamo vicine.
Ci prepariamo qualcosa da mangiare
poi un sorso di qualcosa di dolce,
per la memoria, per la memoria.
Questa è la mia canzone. È una buona canzone.
Ha camminato all'infinito lungo il bordo del fuoco e dell'acqua,
scalato costole di desiderio per cantare per te.
Le sue ali nuove vibrano vulnerabili.
Vieni a stenderti accanto a me.
Poggia la testa qui.
Il mio cuore è vicino abbastanza per cantare.
Traduzione di Maria Adelaide Basile, Giselda Mantegazza, Marta Izzi, Fiorenza Mormile, Anna Maria Rava, Anna Maria Robustelli, Paola Splendore, Jane Wilkinson.
Joy Harjo
This is My Heart
This is my heart. It is a good heart.
Weaves a membrane of mist and fire.
When we make love in the flower world
my heart is close enough to sing to you
in a language too clumsy
for human words.
This is my head. It is a good head.
Whirs inside with a swarm of worries.
What is the source of this mystery?
Why can’t I see it right here, right now,
as real as these hands hammering
the world together?
This is my soul. It is a good soul.
It tells me, “Come here forgetful one.”
And we sit together.
We cook a little something to eat,
then a sip of something sweet,
for memory, for memory.
This is my song. It is a good song.
It walked forever the border of fire and water,
climbed ribs of desire to sing to you.
Its new wings quiver with vulnerability.
Come lie next to me.
Put your head here.
My heart is close enough to sing.
A Map to the Next World, W.W. Norton 2002, and a CD of music Native Joy for Real, 2004
Si ringrazia l’autrice per l’autorizzazione a riprodurre il testo originale
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Native joy for real,
Paola Splendore,
This is my heart
martedì 30 ottobre 2018
Dal Laboratorio di Traduzione: Joy Harjo, Una mappa per il prossimo mondo
Fiorenza Mormile
Quando il mondo come lo conoscevamo finì, segnava con il crollo delle Torri la fine del mondo come lo conoscevamo, questa, dedicata alla nipotina Desiray, è tutta proiettata nel mondo successivo.
JOY HARJO
Una mappa per il prossimo mondo
per Desiray Kierra Chee
Ecco una seconda poesia di Joy Harjo. Se la poesia precedente,
Photo Credit: Karen Kuehn |
Per Harjo i nativi che vorranno abitarvi non potranno prescindere dalla consapevolezza delle proprie radici tribali e dalla necessità di superare tanto i torti subiti che gli errori compiuti.
Prendendo forza dagli astri la piccola Desiray dovrà costruirsi da sola la propria mappa, senza farsi deviare dalle lusinghe consumistiche intorno a sé, per riconnettersi alla storia della sua gente e rinsaldare il legame tra le generazioni.
JOY HARJO
Una mappa per il prossimo mondo
per Desiray Kierra Chee
Negli ultimi giorni del quarto mondo ho voluto tracciare una mappa per chi si sarebbe arrampicato attraverso il buco nel cielo.
I miei soli strumenti erano i desideri degli umani via via che emergevano da campi di morte, camere da letto e cucine.
Perché l’anima è una vagabonda con tante mani e piedi.
La mappa deve essere di sabbia e non si legge con una luce qualunque.
Deve portare il fuoco alla città tribale vicina, per rinnovare lo spirito.
Deve portare il fuoco alla città tribale vicina, per rinnovare lo spirito.
Nella legenda ci sono istruzioni sulla lingua della nostra terra, come fu che dimenticammo di riconoscere il dono, come non lo abitassimo o non ne facessimo parte.
Attenzione al moltiplicarsi di supermercati e centri commerciali,
altari del denaro. Il segno più evidente dell'allontanamento dalla grazia.
Tieni nota degli errori della nostra smemoratezza; la nebbia ci ruba i figli mentre dormiamo.
Fiori di rabbia spuntano dalla depressione. Ne nascono mostri di furia nucleare.
Alberi di cenere dicono addio all'addio e la mappa sembra scomparire.
Non conosciamo più i nomi degli uccelli, né come parlare
loro chiamandoli per nome.
Un tempo sapevamo tutto in questa lussureggiante promessa.
Ciò che ti dico è vero ed è stampato in un avviso
sulla mappa. La nostra smemoratezza ci insegue, percorre la terra dietro di noi, lasciando una scia di pannolini, siringhe e sangue sprecato.
sulla mappa. La nostra smemoratezza ci insegue, percorre la terra dietro di noi, lasciando una scia di pannolini, siringhe e sangue sprecato.
Dovremo accontentarci di una mappa imperfetta, piccola mia.
Si entra dal mare del sangue di tua madre, dalla piccola morte di tuo padre che non vede l'ora di riconoscersi in qualcun altro.
Non c’è uscita.
La mappa si può interpretare attraverso la parete dell’intestino – una spirale sulla via della conoscenza.
Viaggerai attraverso la membrana della morte, sentirai odore di cucina dall’accampamento dove i nostri parenti banchettano con carne fresca di cervo e zuppa di mais, nella Via Lattea.
Non ci hanno mai lasciato, li abbiamo abbandonati noi in nome della scienza.
E al tuo prossimo respiro mentre entriamo nel quinto mondo
non ci sarà nessuna X, nessuna guida con parole da portare con te.
Dovrai navigare seguendo la voce di tua madre, rinnovare la canzone che sta cantando.
Dai pianeti balugina nuovo coraggio.
E illumina la mappa impressa col sangue della storia, una mappa che riuscirai a conoscere, se lo vorrai, dalla lingua dei soli.
Quando emergerai rintraccia le orme degli sterminatori di mostri, là dove sono entrati nelle città di luce artificiale e hanno ucciso ciò che ci stava uccidendo.
Vedrai dirupi rossi. Sono il cuore, contengono la scala.
Un cervo bianco ti accoglierà quando l’ultimo umano si isserà dalle rovine.
Ricorda il buco della vergogna che segna l’atto dell'abbandono dei nostri territori tribali.
Non siamo mai stati perfetti.
Eppure, il viaggio che facciamo insieme è perfetto su questa terra, che un tempo era una stella e ha fatto gli stessi errori degli umani.
Li potremmo rifare, ha detto lei.
Cruciale per trovare la strada è questo: non c’è inizio né fine.
Devi farti da sola la tua mappa.
(Traduzione di Maria Adelaide Basile, Marta Izzi, Giselda Mantegazza, Fiorenza Mormile, Anna Maria Rava, Anna Maria Robustelli, Paola Splendore, Jane Wilkinson).
JOY HARJO
A Map to the Next World
for Desiray Kierra Chee
In the last days of the fourth world I wished to make a map for
those who would climb through the hole in the sky.
My only tools were the desires of humans as they emerged
from the killing fields, from the bedrooms and the kitchens.
For the soul is a wanderer with many hands and feet.
The map must be of sand and can’t be read by ordinary light. It
must carry fire to the next tribal town, for renewal of spirit.
In the legend are instructions on the language of the land, how it was we forgot to acknowledge the gift, as if we were not in it or of it.
Take note of the proliferation of supermarkets and malls, the
altars of money. They best describe the detour from grace.
Keep track of the errors of our forgetfulness; the fog steals our
children while we sleep.
Flowers of rage spring up in the depression. Monsters are born
there of nuclear anger.
Trees of ashes wave good-bye to good-bye and the map appears to disappear.
We no longer know the names of the birds here, how to speak to them by their personal names.
Once we knew everything in this lush promise.
What I am telling you is real and is printed in a warning on the
map. Our forgetfulness stalks us, walks the earth behind us,
leaving a trail of paper diapers, needles, and wasted blood.
An imperfect map will have to do, little one.
The place of entry is the sea of your mother’s blood, your father’s small death as he longs to know himself in another.
There is no exit.
The map can be interpreted through the wall of the intestine — a spiral on the road of knowledge.
You will travel through the membrane of death, smell cooking
from the encampment where our relatives make a feast of fresh deer meat and corn soup, in the Milky Way.
They have never left us; we abandoned them for science.
And when you take your next breath as we enter the fifth world
there will be no X, no guidebook with words you can carry.
You will have to navigate by your mother’s voice, renew the song she is singing.
Fresh courage glimmers from planets.
And lights the map printed with the blood of history, a map you
will have to know by your intention, by the language of suns.
When you emerge note the tracks of the monster slayers where they entered the cities of artificial light and killed what was killing us.
You will see red cliffs. They are the heart, contain the ladder.
A white deer will greet you when the last human climbs from the destruction.
Remember the hole of shame marking the act of abandoning our tribal grounds.
We were never perfect.
Yet, the journey we make together is perfect on this earth who was once a star and made the same mistakes as humans.
We might make them again, she said.
Crucial to finding the way is this: there is no beginning or end.
You must make your own map.
(from How We Became Human: New and Selected Poems:1975-2001 by Joy Harjo. Copyright © 2002 by Joy Harjo)
Si ringrazia l’autrice per avere autorizzato la riproduzione del testo originale.
mercoledì 10 ottobre 2018
Dal laboratorio di traduzione: Sinéad Morrissey in programma per il 2018/2019. La prima traduzione di Joy Harjo dall'attività 2017/2018.
Fiorenza Mormile
Joy Harjo
Quando il mondo come lo conoscevamo finì
Sognavamo su un’isola occupata al limite estremo
di una nazione vacillante quando venne giù.
Due torri s’innalzavano dall’isola del commercio a est fino a toccare il cielo. Gli uomini camminavano sulla luna.
Il petrolio era stato tutto succhiato da due fratelli. Poi il mondo venne giù. Inghiottito da un drago di fuoco, dal petrolio e dalla paura.
Tutto intero.
Stava arrivando.
Aspettavamo già da prima dei missionari con le loro
vesti lunghe e solenni di vedere cosa sarebbe successo.
Lo vedemmo
dalla finestra della cucina sul lavello
mentre facevamo il caffè, cucinavamo riso
e patate, da sfamare un esercito.
Vedemmo tutto, mentre cambiavamo pannolini e davamo da mangiare ai bambini. Lo vedemmo,
attraverso i rami
dell’albero della conoscenza
attraverso gli squarci delle stelle, attraverso
il sole e le tempeste dalle ginocchia
mentre facevamo il bagno e lavavamo
i pavimenti.
L’assemblea degli uccelli ci avvertì, mentre volavano sopra
i caccia torpedinieri nel porto, ancorati là dalla prima presa di potere.
Fu dal loro canto e parlottio che capimmo quando alzarci
quando guardare dalla finestra
al sommovimento in corso - il campo magnetico scaturito dal dolore.
Lo sentimmo.
Il frastuono in ogni angolo del mondo. Mentre
la fame di guerra cresceva in chi avrebbe rubato per diventare presidente re o imperatore, possedere gli alberi, le pietre, e tutto quello che si muoveva sulla terra, dentro la terra
e sopra.
Capimmo che stava arrivando, assaporavamo i venti che raccoglievano conoscenze
da ogni foglia e fiore, da ogni montagna, mare
e deserto, da ogni canto e preghiera da questo minuscolo universo che fluttua nei cieli dell’essere
infinito.
E poi finì, questo mondo che avevamo imparato ad amare
per le sue dolci distese d’erba, per i cavalli e per i pesci
multicolori, per le possibilità scintillanti
dei sogni.
Ma poi c’erano i semi da piantare e i bambini
che avevano bisogno di latte e di essere consolati, e qualcuno
raccolse una chitarra o un ukulele dalle macerie
e cominciò a cantare del battito leggero
del calcio sotto la pelle della terra
che sentivamo là, sotto di noi
un animale caldo
un canto che nasceva tra le sue gambe
una poesia.
(Traduzione a cura di Maria Adelaide Basile, Marta Izzi, Giselda Mantegazza, Fiorenza Mormile, Anna Maria Rava, Anna Maria Robustelli, Paola Splendore, Jane Wilkinson)
Joy Harjo
When the World as We Knew It Ended
We were dreaming on an occupied island at the farthest edge
of a trembling nation when it went down.
Two towers rose up from the east island of commerce and touched the sky. Men walked on the moon. Oil was sucked dry
by two brothers. Then it went down. Swallowed
by a fire dragon, by oil and fear.
Eaten whole.
It was coming.
We had been watching since the eve of the missionaries in their
long and solemn clothes, to see what would happen.
We saw it
from the kitchen window over the sink
as we made coffee, cooked rice and
potatoes, enough for an army.
We saw it all, as we changed diapers and fed
the babies. We saw it,
through the branches
of the knowledgeable tree
through the snags of stars, through
the sun and storms from our knees
as we bathed and washed
the floors.
The conference of the birds warned us, as they flew over
destroyers in the harbor, parked there since the first takeover.
It was by their song and talk we knew when to rise
when to look out the window
to the commotion going on—
the magnetic field thrown off by grief.
We heard it.
The racket in every corner of the world. As
the hunger for war rose up in those who would steal to be president to be king or emperor, to own the trees, stones, and everything else that moved about the earth, inside the earth
and above it.
We knew it was coming, tasted the winds who gathered intelligence from each leaf and flower, from every mountain, sea and desert, from every prayer and song all over this tiny universe floating in the skies of infinite being.
And then it was over, this world we had grown to love
for its sweet grasses, for the many-colored horses
and fishes, for the shimmering possibilities
while dreaming.
But then there were the seeds to plant and the babies
who needed milk and comforting, and someone
picked up a guitar or ukulele from the rubble
and began to sing about the light flutter
the kick beneath the skin of the earth
we felt there, beneath us
a warm animal
a song being born between the legs of her;
a poem.
from How We Became Human: New and Selected Poems:1975-2001 by Joy Harjo. Copyright © 2002 by Joy Harjo. Used by permission of W.W. Norton & Company, Inc., www.wwnorton.com.
Si ringrazia l’autrice per l’autorizzazione a riprodurre il testo originale.
Il Laboratorio di Traduzione di poesia, al suo settimo anno di attività, riprende martedì 16 ottobre dalle 16:45 alle 19, con cadenza quindicinale.
L’autrice scelta per cominciare è la nordirlandese Sinéad Morrissey, (si pronuncia Mòrissi), nata nel 1972 e cresciuta a Belfast, dove insegna Scrittura creativa allo Seamus Heaney Centre for Poetry della Queen’s University. L’ultima delle sue sei raccolte di poesia, On Balance, (Carcanet, 2017) è risultata finalista al Costa Prize. La penultima, Parallax (Carcanet, 2013), ha vinto il T.S. Eliot Prize di quell'anno. Con un dettato lineare, ma non privo di complessità, Morrissey oscilla tra una quotidianità molto personale (l’amore, la maternità, il trauma di un aborto) e problematiche sociali contemporanee, dalla censura del regime sovietico alla gestione della crisi greca da parte dell’euroburocrazia.
Il titolo Parallax rimanda alla deformazione che i fatti subiscono se si cambia la prospettiva, il punto di osservazione del problema, come avviene al teschio nel quadro Gli ambasciatori di Holbein. Lo sguardo e l’inquadratura con il loro portato di soggettività, considerati fondamento di ogni creazione artistica, sono il fulcro anche della raccolta precedente: Through The Square Window (Carcanet, 2009). E forse, venendo dall'Ulster, in Parallax Morrissey allude alla lateralità del proprio sguardo sul mondo britannico.
Una lateralità che rimanda a quella esplorata, nello scorso anno di attività, nella poesia delle due native americane Joy Harjo e Natalie Diaz, di cui iniziamo a darvi documentazione a partire da oggi.
Una lateralità che rimanda a quella esplorata, nello scorso anno di attività, nella poesia delle due native americane Joy Harjo e Natalie Diaz, di cui iniziamo a darvi documentazione a partire da oggi.
Della prima, Harjo, rimandandovi alla relativa scheda introduttiva presentata a novembre scorso, postiamo qui Quando il mondo come lo conoscevamo finì / When the World as We Knew It Ended dalla raccolta How We Became Human: New and Selected Poems: 1975-2001.
In questo testo la violenta cesura inflitta alla storia occidentale dall’11 settembre viene filtrata nell’ottica dei nativi americani: separati, marginali, ma forse più attrezzati a cominciare un nuovo corso nel segno della musica e della poesia perché ammaestrati dalle traversie e fortemente legati alla natura e ai valori fondamentali della vita.
Joy Harjo
Quando il mondo come lo conoscevamo finì
Sognavamo su un’isola occupata al limite estremo
di una nazione vacillante quando venne giù.
Due torri s’innalzavano dall’isola del commercio a est fino a toccare il cielo. Gli uomini camminavano sulla luna.
Il petrolio era stato tutto succhiato da due fratelli. Poi il mondo venne giù. Inghiottito da un drago di fuoco, dal petrolio e dalla paura.
Tutto intero.
Stava arrivando.
Aspettavamo già da prima dei missionari con le loro
vesti lunghe e solenni di vedere cosa sarebbe successo.
Lo vedemmo
dalla finestra della cucina sul lavello
mentre facevamo il caffè, cucinavamo riso
e patate, da sfamare un esercito.
Vedemmo tutto, mentre cambiavamo pannolini e davamo da mangiare ai bambini. Lo vedemmo,
attraverso i rami
dell’albero della conoscenza
attraverso gli squarci delle stelle, attraverso
il sole e le tempeste dalle ginocchia
mentre facevamo il bagno e lavavamo
i pavimenti.
L’assemblea degli uccelli ci avvertì, mentre volavano sopra
i caccia torpedinieri nel porto, ancorati là dalla prima presa di potere.
Fu dal loro canto e parlottio che capimmo quando alzarci
quando guardare dalla finestra
al sommovimento in corso - il campo magnetico scaturito dal dolore.
Lo sentimmo.
Il frastuono in ogni angolo del mondo. Mentre
la fame di guerra cresceva in chi avrebbe rubato per diventare presidente re o imperatore, possedere gli alberi, le pietre, e tutto quello che si muoveva sulla terra, dentro la terra
e sopra.
Capimmo che stava arrivando, assaporavamo i venti che raccoglievano conoscenze
da ogni foglia e fiore, da ogni montagna, mare
e deserto, da ogni canto e preghiera da questo minuscolo universo che fluttua nei cieli dell’essere
infinito.
E poi finì, questo mondo che avevamo imparato ad amare
per le sue dolci distese d’erba, per i cavalli e per i pesci
multicolori, per le possibilità scintillanti
dei sogni.
Ma poi c’erano i semi da piantare e i bambini
che avevano bisogno di latte e di essere consolati, e qualcuno
raccolse una chitarra o un ukulele dalle macerie
e cominciò a cantare del battito leggero
del calcio sotto la pelle della terra
che sentivamo là, sotto di noi
un animale caldo
un canto che nasceva tra le sue gambe
una poesia.
(Traduzione a cura di Maria Adelaide Basile, Marta Izzi, Giselda Mantegazza, Fiorenza Mormile, Anna Maria Rava, Anna Maria Robustelli, Paola Splendore, Jane Wilkinson)
Joy Harjo
When the World as We Knew It Ended
We were dreaming on an occupied island at the farthest edge
of a trembling nation when it went down.
Two towers rose up from the east island of commerce and touched the sky. Men walked on the moon. Oil was sucked dry
by two brothers. Then it went down. Swallowed
by a fire dragon, by oil and fear.
Eaten whole.
It was coming.
We had been watching since the eve of the missionaries in their
long and solemn clothes, to see what would happen.
We saw it
from the kitchen window over the sink
as we made coffee, cooked rice and
potatoes, enough for an army.
We saw it all, as we changed diapers and fed
the babies. We saw it,
through the branches
of the knowledgeable tree
through the snags of stars, through
the sun and storms from our knees
as we bathed and washed
the floors.
The conference of the birds warned us, as they flew over
destroyers in the harbor, parked there since the first takeover.
It was by their song and talk we knew when to rise
when to look out the window
to the commotion going on—
the magnetic field thrown off by grief.
We heard it.
The racket in every corner of the world. As
the hunger for war rose up in those who would steal to be president to be king or emperor, to own the trees, stones, and everything else that moved about the earth, inside the earth
and above it.
We knew it was coming, tasted the winds who gathered intelligence from each leaf and flower, from every mountain, sea and desert, from every prayer and song all over this tiny universe floating in the skies of infinite being.
And then it was over, this world we had grown to love
for its sweet grasses, for the many-colored horses
and fishes, for the shimmering possibilities
while dreaming.
But then there were the seeds to plant and the babies
who needed milk and comforting, and someone
picked up a guitar or ukulele from the rubble
and began to sing about the light flutter
the kick beneath the skin of the earth
we felt there, beneath us
a warm animal
a song being born between the legs of her;
a poem.
from How We Became Human: New and Selected Poems:1975-2001 by Joy Harjo. Copyright © 2002 by Joy Harjo. Used by permission of W.W. Norton & Company, Inc., www.wwnorton.com.
Si ringrazia l’autrice per l’autorizzazione a riprodurre il testo originale.
venerdì 5 ottobre 2018
Gruppi di lettura da Plautilla
Dal 6 ottobre riprendono le attività di MVL - Plautilla.
Per celebrare il decimo compleanno dell'associazione, nata nell'autunno 2008, la prossima stagione porta una grande novità: il gruppo di lettura raddoppia e propone ai partecipanti due diverse opzioni.
Riprende il 6 ottobre alle ore 11 il classico Gruppo di lettura del sabato mattina, che articola i suoi incontri mensili intorno a un tema-guida. Quest'anno ritorna al filo conduttore del primo ciclo del gruppo, ovvero il tema dell'Altro ma da una prospettiva differente, alla ricerca di libri che pongono l'accento sull'idea di altro come avversario, sia esso esterno o interiore. Il primo libro scelto è Un pallido orizzonte di colline di Kazuo Ishiguro ed. Einaudi; il libro è fuori commercio ma si trova facilmente nelle librerie on line. Chi lo desidera può inoltre leggere un breve saggio di Jean-Luc Nancy L'intruso (Cronopio).
Nasce inoltre un secondo gruppo, intitolato Libri nuovi e dedicato alla produzione più recente, che si terrà il giovedì pomeriggio. Questo gruppo di lettura ha scelto Il sale di Jean Bapstiste Del Amo (NEO) e l'incontro si terrà giovedì 18 ottobre alle ore 18,00 sempre da Plautilla.
Riprende il 6 ottobre alle ore 11 il classico Gruppo di lettura del sabato mattina, che articola i suoi incontri mensili intorno a un tema-guida. Quest'anno ritorna al filo conduttore del primo ciclo del gruppo, ovvero il tema dell'Altro ma da una prospettiva differente, alla ricerca di libri che pongono l'accento sull'idea di altro come avversario, sia esso esterno o interiore. Il primo libro scelto è Un pallido orizzonte di colline di Kazuo Ishiguro ed. Einaudi; il libro è fuori commercio ma si trova facilmente nelle librerie on line. Chi lo desidera può inoltre leggere un breve saggio di Jean-Luc Nancy L'intruso (Cronopio).
Nasce inoltre un secondo gruppo, intitolato Libri nuovi e dedicato alla produzione più recente, che si terrà il giovedì pomeriggio. Questo gruppo di lettura ha scelto Il sale di Jean Bapstiste Del Amo (NEO) e l'incontro si terrà giovedì 18 ottobre alle ore 18,00 sempre da Plautilla.
martedì 26 giugno 2018
Gruppi di lettura
Per celebrare il decimo compleanno dell'associazione, nata nell'autunno 2008, la prossima stagione porta una grande novità: il gruppo di lettura raddoppia e propone ai partecipanti due diverse opzioni. Accanto al gruppo "classico" del sabato mattina, che articola i suoi incontri intorno a un tema-guida (per il 2018/19 "L'altro/2", ritorno al filo conduttore del primo ciclo da una prospettiva diversa, dove si pone l'accento sull'idea di altro/avversario, sia esso esterno o interiore), nasce un secondo gruppo, intitolato "Libri nuovi" e dedicato alla produzione più recente, che si terrà il giovedì pomeriggio.
Rispettivamente i libri scelti sono Un pallido orizzonte di colline di Kazuo Ishiguro (Einaudi); il libro è fuori commercio ma si trova facilmente nelle librerie on line.
Chi lo desidera può inoltre leggere un breve saggio di Jean-Luc Nancy L'intruso (Cronopio). La discussione si svolgerà sabato 6 ottobre alle 11.00 da Plautilla.
Il secondo gruppo di lettura ha scelto Il sale di Jean-Bapstiste Del Amo (NEO) e l'incontro si terrà giovedì 18 ottobre alle 18.00, sempre da Plautilla.
Augurandovi una buona estate piena di letture interessanti e piacevoli, speriamo di vedervi numerosi nella prossima stagione e, a proposito dell'Altro, vi lasciamo con un racconto che lo esemplifica egregiamente.
Fredrick Brown "La sentinella"
Era bagnato fradicio e coperto di fango e aveva fame freddo ed era lontano 50mila anni‐luce da casa. Un sole straniero dava una gelida luce azzurra e la gravità doppia di quella cui era abituato, faceva d'ogni movimento un'agonia di fatica. Ma dopo decine di migliaia d'anni, quest'angolo di guerra non era cambiato. Era comodo per quelli dell'aviazione, con le loro astronavi tirate a lucido e le loro superarmi; ma quando si arriva al dunque, tocca ancora al soldato di terra, alla fanteria, prendere la posizione e tenerla, col sangue, palmo a palmo. Come questo fottuto pianeta di una stella mai sentita nominare finché non ce lo avevano mandato. E adesso era suolo sacro perché c'era arrivato anche il nemico. Il nemico, l'unica altra razza intelligente della galassia... crudeli schifosi, ripugnanti mostri. Il primo contatto era avvenuto vicino al centro della galassia, dopo la lenta e difficile colonizzazione di qualche migliaio di pianeti; ed era stata subito guerra; quelli avevano cominciato a sparare senza nemmeno tentare un accordo, una soluzione pacifica. E adesso, pianeta per pianeta, bisognava combattere, coi denti e con le unghie. Era bagnato fradicio e coperto di fango e aveva fame, freddo e il giorno era livido e spazzato da un vento violento che gli faceva male agli occhi. Ma i nemici tentavano di infiltrarsi e ogni avamposto era vitale. Stava all'erta, il fucile pronto. Lontano 50mila anni‐luce dalla patria, a combattere su un mondo straniero e a chiedersi se ce l'avrebbe mai fatta a riportare a casa la pelle. E allora vide uno di loro strisciare verso di lui. Prese la mira e fece fuoco. Il nemico emise quel verso strano, agghiacciante, che tutti loro facevano, poi non si mosse più. Il verso, la vista del cadavere lo fecero rabbrividire. Molti, col passare del tempo, s'erano abituati, non ci facevano più caso; ma lui no. Erano creature troppo schifose, con solo due braccia e due gambe, quella pelle d'un bianco nauseante e senza squame...
Da: Fredrick Brown, Tutti i racconti, A. Mondadori Editore, 1992
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venerdì 15 giugno 2018
MVL gruppo di lettura: La ferrovia sotterranea
Maria Vayola
La ferrovia sotterranea è stata, durante il secolo XIX, una rete clandestina di percorsi e rifugi per permettere agli schiavi di fuggire dal sud al nord dove la schiavitù era già stata abolita. Venne definita così perché la terminologia che la individuava venne presa in prestito dal linguaggio ferroviario: i luoghi di sosta, per esempio, erano chiamati stazioni, coloro che li presidiavano capi stazione . La hunderground railroad, nel libro di Colson Whitehead, diventa una ferrovia sotterranea reale, che scorre in tunnel scavati nella terra dagli abolizionisti; è così che l'autore l'aveva immaginata da bambino, quando gliene parlavano, e quel ricordo gli ha dato spunto a elaborare un espediente narrativo sorprendente ed efficace.
Il romanzo, ambientato a metà dell'800 prima della guerra di secessione, racconta la fuga dalla piantagione della giovane schiava Cora, della sua fermezza nella ricerca della libertà, del suo coraggio a perseverare nonostante gli ostacoli, della sua giusta ostinazione a riconoscersi ed affermarsi come essere umano e non come oggetto, della sua crescita identitaria. A lei si oppone, con la stessa fermezza, Ridgway, cacciatore di schiavi, che fa della sua stessa determinazione quasi una filosofia di vita in cui i principi a cui si ispira sono sintetizzati nella definizione "Destino manifesto" che lui spiega a Cora in questo modo: "Significa prenderti ciò che è tuo, quello che ti appartiene, qualunque cosa pensi che sia. E tutti gli altri se ne stanno ai loro posti assegnati per permetterlo. Che siano i pellerossa o gli africani, devono arrendersi, sacrificarsi, in modo che noi possiamo ottenere ciò che ci spetta di diritto... A mio padre piaceva fare i suoi discorsi da indiano sul Grande Spirito», proseguì Ridgeway, «Ma dopo tutti questi anni, io preferisco lo spirito americano, quello che ci ha fatti venire dal Vecchio Mondo al Nuovo, a conquistare, costruire e civilizzare. E distruggere quello che va distrutto. A elevare le razze inferiori. Se non a elevarle, a sottometterle. Se non a sottometterle, a sterminarle. Il nostro destino prescritto da Dio: l’imperativo americano». Parole che ben delineano anche il concetto di "libertà americana" e che è in evidente contraddizione con la libertà di Cora.
La scelta di una giovane donna come protagonista marca una ulteriore discriminazione, anche all'interno della stessa comunità afro-americana, individuando una "linea di genere", oltre a quella di colore concettualizzata da W. E. B. Du Bois , che attraversa la storia e le società.
Nella prima parte del libro l'autore ci descrive la vita dello schiavo, quale essa era veramente, sottoposta ad un quotidiano annichilimento ottenuto con il terrore, dove, qualsiasi cosa fosse ritenuta arbitrariamente un affronto al padrone, era punita con una inaudita ferocia che si abbatteva sugli adulti e sui bambini; non erano considerati essere umani, neanche animali ma oggetti con la differenza che l'oggetto schiavo provava dolore psichico e fisico, fonte di maggiore potere e soddisfazione per chi sistematicamente li distruggeva.
Dal momento della fuga di Cora, Whitehead inserisce il realismo magico con l'invenzione di una vera ferrovia sotterranea con rotaie, stazioni e treni, cosa che gli permette di cambiare le regole del racconto, di allontanarsi da uno stretto realismo storico della narrazione e di inserire alterazioni anacronistiche di riferimenti storici.
giovedì 14 giugno 2018
MVL cinema: La casa sul mare
Tre fratelli, due uomini e una donna, si ritrovano nella casa del padre malato, sulla costa francese vicino Marsiglia. Lì hanno trascorso buona parte della loro vita, Armand il più grande, lì vive ancora gestendo un ristorante in cui sembra non aver cambiato nulla dall'epoca in cui anche il padre vi lavorava. E' un locale senza pretese, se non quella di essere luogo di aggregazione, di incontro, di scambio di pensiero, oltre che di ristorazione. Joseph è un professore di filosofia e porta con sé la sua giovanissima compagna. Angel, attrice di teatro, non è più tornata in quella casa, da quando quel luogo è stato per lei teatro di un lutto che ha segnato in modo indelebile la sua vita.
Il nuovo mondo si insinua in una comunità dove si erano allacciati rapporti di amicizia, dove quello che contava erano i rapporti umani e la solidarietà, il rispetto e la dignità. Il vecchio padre aveva alimentato quei principi, affermandoli e praticandoli in un periodo in cui l'orrore della guerra passata richiedeva un attenta ricostruzione dei valori umani che erano stati annientati, il futuro si presentava come un laboratorio di vita. I suoi figli erano partiti da quei principi, li avevano modulati alle loro esistenze, alle loro esigenze di cambiamento, forzandoli ancora di più: il mondo doveva, poteva, essere cambiato, il futuro era sempre lì carico di entusiasmo e speranza.
E i fratelli, in quel luogo, avevano vissuto la spensieratezza, l'avventatezza, l'allegria che solo la giovane età può dare, momenti che formano, che colmano, che riempono quel nucleo nella memoria che sarà, poi, fonte di ricordi piacevoli ma anche di una inevitabile nostalgia.
mercoledì 2 maggio 2018
Gruppo di Lettura - Finalisti al Premio Brancato
Come abbiamo annunciato, il Premio Brancati - tra i più importanti e seri riconoscimenti letterari in Italia - ha invitato il gruppo di lettura di Monteverdelegge a far parte della giuria 2018, un impegno che ci onora e per il quale abbiamo partecipato alla segnalazione dei finalisti per le tre categorie: Narrativa, Poesia e Giovani. In questi giorni le liste sono state rese pubbliche e abbiamo avuto il piacere di scoprire che alcune nostre proposte sono tra le opere prescelte.
Pubblichiamo di seguito il comunicato stampa ufficiale che designa i finalisti:
La Giuria della XLIX edizione del Premio Vitaliano Brancati
dedicato al grande scrittore dal Comune di Zafferana Etnea, composta da
esponenti della cultura letteraria italiana, vincitori delle edizioni
precedenti e gruppi di lettura scelti di anno in anno sull’intero
territorio nazionale, ha decretato i finalisti per le tre categorie: Narrativa,
Poesia e Giovani.
NARRATIVA
Michele Mari "Leggenda Privata” Einaudi
“Non c'è
scampo per chi scrive: anche se credevi di esserti già messo a nudo, il passato torna sempre. E stavolta chiede il
conto. Un'«autobiografia horror» in cui l'autore sfida se stesso
confrontandosi con il demone più forte di tutti: la letteratura.”
Figlio del designer Enzo Mari e della disegnatrice Iela Mari, insegna Letteratura italiana
all'Università Statale di Milano anche se dal 1992 risiede a Roma.
Collabora alle pagine letterarie di Repubblica, dopo aver scritto per anni sul Corriere
della Sera e sul Manifesto. Ha scritto numerosi romanzi, saggi e
ricevuto importanti premi letterari.
Wanda Marasco La compagnia delle anime finte” Neri Pozza
"Dalla collina di Capodimonte, la «Posillipo
povera», Rosa guarda Napoli e parla al corpo di Vincenzina, la
madre morta. Le parla per riparare al guasto che le ha unite oltre il legame di
sangue e ha marchiato irrimediabilmente la vita di entrambe”.
Scrittrice, attrice, regista e insegnante napoletana, i suoi due ultimi romanzi pubblicati da Neri
Pozza hanno avuto un grandissimo consenso e sono stati finalisti di alcuni premi
letterari.
Giorgio Falco "Ipotesi si una sconfitta" Einaudi
“Lo sgretolamento di un Paese
incarnato nel corpo e nella vita di un uomo.
Un magnifico romanzo sul lavoro, che
da narrazione epica diventa cronaca del fallimento.”
Lo scrittore nato ad Abbiategrasso è al suo settimo romanzo
dall’ esordio nel 2004. Dal 2009 collabora con Repubblica.
MVL cinema: I segreti di Wild River
Maria Vayola
I segreti di Wild River è un film che si presenta come un thriller e che al suo interno contiene ben più di una trama tesa all'individuazione dei colpevoli di un omicidio.
Lo sceneggiatore e regista, Taylor Sheridan, ha voluto con questo film chiudere la sua trilogia sulla frontiera, dopo Sicario, ambientato al confine con il Messico e Hell or High Water ambientato in Texas ( di questi due ne è stato solo lo sceneggiatore) ha dislocato il suo film in una riserva indiana, individuando una "frontiera" che non è più limite, fisico e metaforico, da superare, ma ristagno di problematiche sociali e di marginalità estreme.
Una ragazza nativa americana della riserva di Wild River in Wyoming viene ritrovata morta per assideramento dopo essere scappata da una violenza di gruppo . Trova il suo corpo Cory Lambert, un cacciatore di animali predatori che mettono a repentaglio gli allevamenti della zona. La ragazza è la figlia di un suo amico, e, se ce ne fosse bisogno, ravviva il suo dolore per la perdita di sua figlia avvenuta in circostanze analoghe. La vittima è un "indiana" e la sua morte non interessa: è una delle tante donne native scomparse senza che gli apparati giudiziari se ne siano mai preoccupati, non esiste neanche una statistica che ne segnali il numero, a differenza delle altre donne americane. Per risolvere il caso viene mandata dall' FBI una agente di primo pelo, inesperta anche se determinata a fare il suo lavoro che chiederà a Cory di aiutarla nelle indagini.
La riserva è un luogo isolato e abbandonato dalle istituzioni, stretto tra monti perennemente innevati e battuto da tempeste di neve e da un freddo feroce. La vita lì non ha speranze di crescita, droga e violenza suppliscono la mancanza di aspettative e una coabitazione tra nativi e bianchi riproduce spesso le contraddizioni mai risolte del razzismo americano. A questo quadro di desolazione non corrisponde un adeguato apparato che riesca a contenere e indirizzare socialmente il disagio degli abitanti della riserva che, privati della loro identità culturale, inseriti in un contesto naturale estremo, non riescono tutti a costruirsi una vita di relazioni sane e autentiche, alcuni soccombono a un abbrutimento senza speranza di riscatto.
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