mercoledì 10 ottobre 2018

Dal laboratorio di traduzione: Sinéad Morrissey in programma per il 2018/2019. La prima traduzione di Joy Harjo dall'attività 2017/2018.

Fiorenza Mormile

Il Laboratorio di Traduzione di poesia, al suo settimo anno di attività, riprende martedì 16 ottobre dalle 16:45 alle 19, con cadenza quindicinale. 


L’autrice scelta per cominciare è la nordirlandese Sinéad Morrissey, (si pronuncia Mòrissi), nata nel 1972 e cresciuta a Belfast, dove insegna Scrittura creativa allo Seamus Heaney Centre for Poetry della Queen’s University. L’ultima delle sue sei raccolte di poesia, On Balance, (Carcanet, 2017) è risultata finalista al Costa Prize. La penultima, Parallax (Carcanet, 2013), ha vinto il T.S. Eliot Prize di quell'anno. Con un dettato lineare, ma non privo di complessità, Morrissey oscilla tra una quotidianità molto personale (l’amore, la maternità, il trauma di un aborto) e problematiche sociali contemporanee, dalla censura del regime sovietico alla gestione della crisi greca da parte dell’euroburocrazia. 
Il titolo Parallax rimanda alla deformazione che i fatti subiscono se si cambia la prospettiva, il punto di osservazione del problema, come avviene al teschio nel quadro Gli ambasciatori di Holbein. Lo sguardo e l’inquadratura con il loro portato di soggettività, considerati fondamento di ogni creazione artistica, sono il fulcro anche della raccolta precedente: Through The Square Window (Carcanet, 2009). E forse, venendo dall'Ulster, in Parallax Morrissey allude alla lateralità del proprio sguardo sul mondo britannico.
Una lateralità che rimanda a quella esplorata, nello scorso anno di attività, nella poesia delle due native americane Joy Harjo e Natalie Diaz, di cui iniziamo a darvi documentazione a partire da oggi.


Della prima, Harjo, rimandandovi alla relativa scheda introduttiva  presentata a novembre scorso, postiamo qui Quando il mondo come lo conoscevamo finì / When the World as We Knew It Ended dalla raccolta How We Became Human: New and Selected Poems: 1975-2001.
In questo testo la violenta cesura inflitta alla storia occidentale dall’11 settembre viene filtrata nell’ottica dei nativi americani: separati, marginali, ma forse più attrezzati a cominciare un nuovo corso nel segno della musica e della poesia  perché ammaestrati dalle traversie e fortemente legati alla natura e ai valori fondamentali della vita. 

Joy Harjo

Quando il mondo come lo conoscevamo finì 

Sognavamo su un’isola occupata al limite estremo
di una nazione vacillante quando  venne giù.

Due torri s’innalzavano dall’isola del commercio a est fino a toccare il cielo. Gli uomini camminavano sulla luna.
Il petrolio era stato tutto succhiato da due fratelli. Poi il mondo venne giù. Inghiottito da un drago di fuoco, dal petrolio e  dalla paura.
Tutto intero.

Stava arrivando.

Aspettavamo già da prima dei missionari con le loro
vesti lunghe e solenni di vedere cosa sarebbe successo.

Lo vedemmo
dalla finestra della cucina sul lavello
mentre facevamo il caffè, cucinavamo riso
e patate, da sfamare un esercito.

Vedemmo tutto, mentre cambiavamo pannolini e davamo da mangiare ai bambini. Lo vedemmo,
attraverso i rami
dell’albero della conoscenza
attraverso  gli squarci delle stelle, attraverso
il sole e le tempeste dalle ginocchia
mentre facevamo il bagno e lavavamo
i pavimenti.

L’assemblea degli uccelli ci avvertì, mentre volavano sopra
i caccia torpedinieri nel porto, ancorati là dalla prima presa di potere.
Fu dal loro canto e parlottio che capimmo quando alzarci
quando guardare dalla finestra
al sommovimento in corso - il campo magnetico scaturito dal dolore.

Lo sentimmo.
Il frastuono in ogni angolo del mondo. Mentre
la fame di guerra cresceva in chi avrebbe rubato per diventare presidente re o imperatore, possedere gli alberi, le pietre, e tutto quello che si muoveva sulla terra, dentro la terra
e sopra.

Capimmo che stava arrivando, assaporavamo i venti che raccoglievano conoscenze
da ogni foglia e fiore, da ogni montagna, mare
e deserto, da ogni canto e preghiera da questo minuscolo universo che fluttua nei cieli dell’essere
infinito.

E poi finì, questo mondo che avevamo imparato ad amare
per le sue dolci distese d’erba, per i cavalli e per i pesci
multicolori, per le possibilità scintillanti
dei sogni.

Ma poi c’erano i semi da piantare e i bambini
che avevano bisogno di latte e  di essere consolati, e qualcuno
raccolse una chitarra o un ukulele dalle macerie
e cominciò a cantare del battito leggero
del calcio sotto la pelle della terra
che sentivamo là, sotto di noi

un animale caldo
un canto che nasceva tra le sue gambe
una poesia.

(Traduzione a cura di Maria Adelaide Basile, Marta Izzi, Giselda Mantegazza, Fiorenza Mormile, Anna Maria Rava, Anna Maria Robustelli, Paola Splendore, Jane Wilkinson)

Joy Harjo

When the World as We Knew It Ended

We were dreaming on an occupied island at the farthest edge
of a trembling nation when it went down.

Two towers rose up from the east island of commerce and touched the sky. Men walked on the moon. Oil was sucked dry
by two brothers. Then it went down. Swallowed
by a fire dragon, by oil and fear.
Eaten whole.

It was coming.

We had been watching since the eve of the missionaries in their
long and solemn clothes, to see what would happen.

We saw it
from the kitchen window over the sink
as we made coffee, cooked rice and
potatoes, enough for an army.

We saw it all, as we changed diapers and fed
the babies. We saw it,
through the branches
of the knowledgeable tree
through the snags of stars, through
the sun and storms from our knees
as we bathed and washed
the floors.

The conference of the birds warned us, as they flew over
destroyers in the harbor, parked there since the first takeover.
It was by their song and talk we knew when to rise
when to look out the window
to the commotion going on—
the magnetic field thrown off by grief.

We heard it.
The racket in every corner of the world. As
the hunger for war rose up in those who would steal to be president to be king or emperor, to own the trees, stones, and everything else that moved about the earth, inside the earth
and above it.

We knew it was coming, tasted the winds who gathered intelligence from each leaf and flower, from every mountain, sea and desert, from every prayer and song all over this tiny universe floating in the skies of infinite being.

And then it was over, this world we had grown to love
for its sweet grasses, for the many-colored horses
and fishes, for the shimmering possibilities
while dreaming.

But then there were the seeds to plant and the babies
who needed milk and comforting, and someone
picked up a guitar or ukulele from the rubble
and began to sing about the light flutter
the kick beneath the skin of the earth
we felt there, beneath us

a warm animal
a song being born between the legs of her;
a poem.

from How We Became Human: New and Selected Poems:1975-2001 by Joy Harjo. Copyright © 2002 by Joy Harjo. Used by permission of W.W. Norton & Company, Inc., www.wwnorton.com.

Si ringrazia l’autrice per l’autorizzazione a riprodurre il testo originale.

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