Un
altro mezzo capolavoro nascosto della letteratura italiana. Pubblicato nel 1912,
ma scritto già dal 1910. Nei primi capitoli del romanzo, Papini tratteggia i propri
lineamenti infantili di figura scontrosa e solitaria che scopre gradatamente,
per continue sorprese e causalità, il sapere, la lettura e la scrittura: egli si
compiace e annega in queste terre incognite e vastissime che cerca di dominare
e domare con un impeto d’erudizione quasi folle; e destinato allo scacco.
Un uomo finito è un’autobiografia di
fallimenti scritta ad appena trent’anni; fallimenti da parte di un’anima che
ambiva alla totalità. Di un’anima enciclopedica, che, tesa a ergersi oltre tutti
i limiti, finiva poi per precipitare nell’angustia del presente (ecco perché:
un uomo finito). La stessa ansia porterà in seguito lo scrittore a coinvolgersi
nelle esperienze più estreme e brucianti dei primi decenni del secolo: l’interventismo durante il primo conflitto mondiale, la resipiscenza e la denuncia degli orrori della guerra, l’adesione al fascismo, la conversione al cattolicesimo. Un uomo finito
risente in nuce di tali continue tensioni e brusche virate; il che dona, a distanza
di un secolo, una straordinaria complessità psicologica all'opera (al netto dei connaturati difetti retorici)
– complessità derivata da quelle esacerbate accelerazioni dell’animo che portarono il fiorentino al variegato panorama della sua produzione: dai meravigliosi arabeschi
kafkiani dei racconti giovanili (Il tragico quotidiano, Il pilota cieco) alle invettive antiaccademiche, dall'apologetica cristiana sino alle suggestioni più scopertamente
irrazionalistiche del Novecento.
Giovanni
Papini
Io
non son mai stato bambino. Non ho avuto fanciullezza.
Calde
e bionde giornate di ebbrezza puerile; lunghe serenità dell' innocenza; sorprese
della scoperta quotidiana dell'universo: che son mai? Non le conosco o non le
rammento. L'ho sapute dai libri, dopo; le indovino, ora, nei ragazzi che vedo;
ho sentite e provate per la prima volta in me, passati i vent'anni, in qualche
attimo felice di armistizio o di abbandono. Fanciullezza è amore, è letizia, è
spensieratezza ed io mi vedo nel passato, sempre, separato, triste, meditante.
Fin
da ragazzo mi son sentito tremendamente solo e diverso — né so il perché. Forse
perché i miei eran poveri o perché non ero nato come gli altri ? Non so: ricordo
soltanto che una zia giovane mi dette il soprannome di vecchio a sei o sett'anni
e che tutti i parenti l'accettarono. E difatti me ne stavo il più del tempo
serio e accigliato : discorrevo pochissimo, anche cogli altri ragazzi; i complimenti
mi davan noia ; i gestri mi facevan dispetto; e al chiasso sfrenato dei compagni
dell'età più bella preferivo la solitudine dei cantucci più riparati della
nostra casa piccina, povera e buia. Ero, insomma, quel che le
signore
col cappello chiamano un ‘bambino scontroso’ e le donne in capelli ‘un rospo’.
Avevan
ragione : dovevo essere, ed ero, tremendamente antipatico a tutti. E mi ricordo
che sentivo benissimo intorno a me questa antipatia la quale mi faceva più
timido, più malinconico, più imbronciato che mai.
Quando
mi ritrovavo per caso con altri ragazzi non entravo quasi mai nei loro giochi.
Mi piaceva star da parte a guardarli coi miei occhi verdi e seri di giudice e
di nemico. Non per invidia : era piuttosto disprezzo quel che sentivo dentro in
quei momenti. Fin da quel tempo incominciò la guerra fra me e gli uomini. Io li
sfuggivo e loro mi trascuravano ; non li amavo e mi odiavano.
Fuori,
nei giardini, chi mi scacciava e chi mi rideva dietro ; a scuola mi tiravano i
riccioli o mi accusavano ai maestri ; in campagna, anche in villa dal nonno, i
ragazzi dei contadini mi tiravan le sassate, senza che avessi fatto nulla a
nessuno, quasi sentissero ch'era d'un'altra razza. I parenti m'invitavano o mi
carezzavano quando proprio non potevan farne a meno, per non mostrare dinanzi
agli altri una parzialità troppo indecente, ma io m'accorgevo benissimo della
finzione e dello sforzo e mi nascondevo e tacevo e ad ogni loro parola
rispondevo sgarbato ed acerbo.
Un
ricordo più di tutti gli altri s'è inciso nel mio cuore : umide serate domenicali
di novembre o dicembre, in casa del nonno, col vino caldo in mezzo alla tavola,
dentro a una zuppiera, sotto il gran lume a petrolio bronzato ; col vassoio
delle bruciate accosto e tutta la famiglia — zii e zie, cugini e cugine in
quantità — coi visi rossi attorno.
Il
patriarca, accanto al fuoco, bianco ed arguto, rideva e beveva. Scoppiettavano
i ciocchi già mezzi coperti di lieve cenere delicata; sbattevano i bicchieri
sui piatti; squittivano le zie bigotte e sapute sui casi e gli scandali della settimana
e i ragazzi ridevano e strillavano in mezzo al fumo turchino dei sigari
paterni. A me tutto quel brusìo di festa economica e idiota faceva male
all'anima e al capo. Mi sentivo straniero lì dentro, e lontanissimo
da
tutti. E appena mi riusciva passavo di nascosto la porta e a passi prudenti,
rasente al muro umidiccio, mi inoltravo nell'andito lungo e tenebroso che
portava fin all'uscio di casa. E lì sentivo il mio piccolo cuore di solitario
che batteva con veemenza, come se stessi per far un non so che di male, per
commettere un tradimento.
In
quell'andito v'era una porta vetrata che dava sopra una corticina scoperta: la
schiudevo appena e mi mettevo ad ascoltar l'acqua che veniva giù stanca e a
malincuore, rimbalzando sui mattoni e sulle pozze ; che veniva giù
senz'entusiasmo, senza furia, ma con l'ostinatezza
lenta
e odiosa di qualcosa che non finirà mai. Ed io l'ascoltavo nel buio, col freddo
nel viso e cogli occhi bagnati e se dallo spiraglio qualche goccia mi schizzava
d'un tratto sulla carne mi sentivo felice, come se quella stilla capricciosa
venisse a purificarmi, a invitarmi altrove,
fuori
delle case e delle domeniche. Ma una voce mi richiamava alla luce, al
supplizio, ai commenti. “Che ragazzo maleducato!”.
Sì,
è vero: io non sono stato bambino. Sono stato un ‘vecchio’ e un ‘rospo’ pensoso
e scontroso. Fin da allora il meglio della mia vita era dentro di me. Fin da
quel tempo, tagliato fuori dall'affetto e dalla gioia, mi rintanavo, mi
nascondevo, mi distendevo in me stesso, nell'anima, nella fantasticheria
bramosa, nella solitaria ruminazione del mondo rifatto attraverso l'io. Non c'era
altro scampo, altra gioia per me. Non piacevo agli altri e l'odio mi rinchiuse
nella solitudine. La solitudine mi fece più triste e più spiacente ; la
tristezza mi chiuse il cuore ed aizzò il cervello. La diversità mi staccò anche
dai prossimi e la separazione mi fece sempre più diverso. E fin da quel
principio di vita cominciai a gustare, se non a capire, la virile dolcezza di
quell'infinita e indefinita malinconia che non vuole sfoghi e consolazioni, ma
che si consuma in sé stessa, senza scopo, creando a poco a poco quell'abitudine
della vita interna, solitaria, egoista che ci allontana per sempre dagli
uomini.
No:
io non ho mai conosciuto la fanciullezza. Non ricordo affatto d'essere stato
bambino. Mi rivedo, sempre, selvatico e soprappensiero, appartato e silenzioso,
senza un sorriso, senza uno scoppio di franca gioia. Mi rivedo pallido e
attonito come nel mio primo ritratto.
La
fotografia è strappata a metà, sotto il cuore. E piccina, sudicia e stinta : i
bordi del cartoncino son neri, come le cornici dei morti. Un viso sbiancato di
bambino sognante guarda verso sinistra e si sente che lì a sinistra, di faccia
a lui, nessuno lo guarda. Gli occhi son tristi, un po' affossati — non son
venuti bene? — , la bocca è chiusa a forza, coi labbri un po' soprammessi, per
non far vedere i denti. Unica bellezza : i riccioli morbidi, lunghi,
inanellati
che cascan giù sul bavero della marinara.
La
mamma dice che son io a sett'anni. Può essere. Questo mezzo ritratto è Tunica
prova ch'io abbia della mia fanciullezza. Ma vi par forse questo un ritratto di
bambino? Questo piccolo spettro slavato, che non mi guarda, che non vuol
guardare nessuno?
Si
vede subito che quegli occhi non son fatti per tingersi del celeste del cielo ;
son bigi, son nuvolosi di suo.
Quelle
gote si vede bene che son bianche, che son pallide e che saranno sempre bianche
e sempre pallide: diventeranno rosse soltanto per fatica o vergogna. E quelle labbra
così chiuse, volontariamente chiuse, non son fatte per aprirsi al riso, alla
parola, alla preghiera, al grido.
Son
le labbra serrate di chi patirà senza la seccante debolezza dei lamenti. Son
labbra che verranno baciate troppo tardi. In questa mezza fotografia sbiadita
io ritrovo l'anima morta di quei giorni; il viso delicato del ‘rospo’; il
cipiglio dello ‘scontroso’; l'accoramento calmo del vecchio. E mi si stringe il
cuore ripensando a tutti quei giorni smorti, a quegli anni infiniti; a quella
vita rinchiusa, a quella mestizia senza motivi; a quella nostalgia incancellabile
di altri cieli e d'altri camerati.
No
no : quello non è il ritratto di un bambino.
Io
vi ripeto che non ho avuto fanciullezza.
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