Elvira Sessa
Bagnoli, la vedi? “Era una fumifera città rossa e nera (la chiamavano Ferropoli) sovrastata da un cielo incandescente, pieno di lampi: si srotolava per chilometri tra strutture verticali e orizzontali, spiazzi, fasci di binari, carriponte lunghi sino a ottanta metri e oltre, neri cumuli di residui minerali, strade, colmate a mare, pontili, navi, lampioni, camion, gru alte come palazzi”.
E quegli "odori acri che facevano battere il cuore come un afrodisiaco", li senti mentre salgono fino alla collina di Posillipo e ti invade un tramonto bruciato?
Era così la Bagnoli del fiorire dell'Ilva, nei primi decenni del Novecento: “introduceva in una città inquinata - la Napoli della guerra fredda, dell'abusivismo selvaggio, del contrabbando - valori inusuali: la solidarietà; l'orgoglio di chi si guadagna la vita esponendo ogni giorno il proprio torace alle temperature dell'altoforno; l'etica del lavoro; il senso della legalità...".
Sin dalle prime righe del romanzo, ti afferri a quella contro-cartolina di Napoli, scivoli nella tuta da operaio e indossi il casco giallo. Ti svegli alle sei e mezzo del mattino con il primo fischio della sirena dell'acciaieria, entri al suo piano terra, inizi a sentire l’odore di muffa del posto di ristoro degli operai turnisti, ti lasci portare dai suoi corridoi lunghi e fuligginosi, ami percorrerla con il chiarore a chiazze della luna, quando è assorta in un silenzio di “cattedrale con un'unica navata grigio-azzurra dall'alta volta a coste e i fianchi arabescati da geometriche carpenterie”. Ora ti arrampichi fino a raggiungere le finestrature sotto il tetto, accedi alle colate ed esclami “eccolo il mio impianto”.
Senza accorgertene, pagina dopo pagina, vieni risucchiato nella religione carnale della “fabbrica di Napoli": scaraventato nella vita del protagonista del romanzo, Vincenzo Buonocore (nome di fantasia), tecnico specializzato alla guida delle colate continue (un particolare processo di produzione industriale) dell'Ilva. Buonocore vi era entrato da semplice manovale, adolescente dai lunghi capelli, l'aveva vista agonizzare alla fine degli anni Settanta e poi inspiegabilmente rinascere e far da padrino, nel 1984 e nel 1985, al battesimo dei suoi due impianti di colata. Come Buonocore, ti fondi con questa creatura colossale dai "fasci di tubo simili a sistemi venosi”.
Un po' alla volta, finisci per conoscere tutto di lei, eppure continua ad apparirti misteriosa, come osserva il protagonista: la “spiavo come si può spiare una donna nuda dal buco della serratura (…) Quante ore della mia vita avevo trascorso in quel luogo? Provai a contarle senza riuscirci. Un numero spropositato (...) Perchè io facevo all'amore con le colate continue (...)".
Lavorarvi ti dà gioia, gli attrezzi e le macchine sono tuoi amici: si chiamano siviera, paniera, lingottiera, stampigliatrici, cannelli da taglio. Con loro parli, vedi che producono, creano, fanno. "Perchè la macchina è sacra, è tutto. É ordine e disciplina. É razionalità. In definitiva, è quanto di pulito e rispettabile resta ancora in questo mondo caotico".
Finchè piombi negli anni Novanta, quando il verdetto “dismissione” si abbatte, rapace, sulla tua tenera creatura, scarnandola con rabbia e portando oltreoceano le sue viscere pulsanti di vita.
Non te lo spieghi.
L'Ilva di Bagnoli veniva chiusa proprio quando doveva espandersi. Con la sua chiusura veniva buttata “dalla finestra una enorme massa di denaro”, “cinesi, tailandesi (…), e quant'altri acquisteranno poi impianti nuovi di zecca o comunque efficientissimi, pagandoli come rottame”. “Le voci della svendita andavano e venivano sulla cresta del vento: si smontano le colate continue a favore dei cinesi; si smonta l'altoforno 5 a favore degli indiani; si smontano i forni a calce a favore della Malesia; si smonta il treno di laminazione a favore della Tailandia; (...) si cedono al miglior offerente vagoni ferroviari, binari, due immensi scaricatori da pontile addetti al prelevamento dei minerali dalle navi (Malesia?)”.
Sì, perchè “L'Ilva, dicevano tutti, è come il maiale: una volta che l'hai ammazzato non butti via niente”.
Nel mattatoio si contano le prime vittime: la disoccupazione supera il 42% nel 1991 e Bagnoli, da che era “quartiere felice", cade nel mirino della camorra.
Ma non ti deprimi. Anzi, con “l'irrefrenabile vocazione per il lavoro (…) dell'umanità nascosta, quasi clandestina” dei partenopei, esegui ora la tua opera certosina a ritroso: il tuo fare, ora, è per disfare un po' alla volta, la tua creatura, le tue colate continue. E affinché l'eutanasia sia la più dolce possibile, sorvegli che nessuno usi l'impazienza “di chi vuol far presto ad ogni costo”.
E ti smembri anche tu, pezzo per pezzo.
Segui le sorti della tua creatura? Non proprio.
"Dobbiamo imparare a dismettere innanzitutto noi stessi" dice un personaggio dell'opera: "Distruggere all'improvviso una fabbrica può essere anche un'operazione semplice. Distruggere di colpo una civiltà, una cultura, una forma mentis è un altro paio di maniche".
E tu-Buonocore, inizi a sbullonare la tua corazza di acciaio, il tuo perfezionismo da macchina, ti scopri fragile, sul punto di tradire la donna che più ami per un'attraente giovane Marcella.
Dicevi: "l'umanità della macchina è prima di tutto un riflesso della nostra umanità. Se c'è, c'è. Se non c'è, che cosa può fare la macchina se non farsi essa stessa specchio della nostra stupidità diventando a sua volta cieca e brutale?".
Ora che è morta la grande macchina che aveva forgiato la tua identità, sei più uomo. Non muori con lei. Anzi, alla prospettiva di una brillante carriera a Meishan, in Cina, per dirigere il clone dell'impianto Ilva, con le tue colate continue, tu rinunci per non staccarti da Rosaria, la donna che ami, per la quale già in passato avevi rinunciato ad un'altra macchina: l'automobile Fulvia coupè "per la quale avevo firmato trenta cambiali di cinquantamila lire ciascuna" ma di cui Rosaria era gelosa.
Al suo aut-aut: o me o la Fulvia, avevi scelto lei.
Bagnoli, la vedi? “Era una fumifera città rossa e nera (la chiamavano Ferropoli) sovrastata da un cielo incandescente, pieno di lampi: si srotolava per chilometri tra strutture verticali e orizzontali, spiazzi, fasci di binari, carriponte lunghi sino a ottanta metri e oltre, neri cumuli di residui minerali, strade, colmate a mare, pontili, navi, lampioni, camion, gru alte come palazzi”.
E quegli "odori acri che facevano battere il cuore come un afrodisiaco", li senti mentre salgono fino alla collina di Posillipo e ti invade un tramonto bruciato?
Era così la Bagnoli del fiorire dell'Ilva, nei primi decenni del Novecento: “introduceva in una città inquinata - la Napoli della guerra fredda, dell'abusivismo selvaggio, del contrabbando - valori inusuali: la solidarietà; l'orgoglio di chi si guadagna la vita esponendo ogni giorno il proprio torace alle temperature dell'altoforno; l'etica del lavoro; il senso della legalità...".
Sin dalle prime righe del romanzo, ti afferri a quella contro-cartolina di Napoli, scivoli nella tuta da operaio e indossi il casco giallo. Ti svegli alle sei e mezzo del mattino con il primo fischio della sirena dell'acciaieria, entri al suo piano terra, inizi a sentire l’odore di muffa del posto di ristoro degli operai turnisti, ti lasci portare dai suoi corridoi lunghi e fuligginosi, ami percorrerla con il chiarore a chiazze della luna, quando è assorta in un silenzio di “cattedrale con un'unica navata grigio-azzurra dall'alta volta a coste e i fianchi arabescati da geometriche carpenterie”. Ora ti arrampichi fino a raggiungere le finestrature sotto il tetto, accedi alle colate ed esclami “eccolo il mio impianto”.
Senza accorgertene, pagina dopo pagina, vieni risucchiato nella religione carnale della “fabbrica di Napoli": scaraventato nella vita del protagonista del romanzo, Vincenzo Buonocore (nome di fantasia), tecnico specializzato alla guida delle colate continue (un particolare processo di produzione industriale) dell'Ilva. Buonocore vi era entrato da semplice manovale, adolescente dai lunghi capelli, l'aveva vista agonizzare alla fine degli anni Settanta e poi inspiegabilmente rinascere e far da padrino, nel 1984 e nel 1985, al battesimo dei suoi due impianti di colata. Come Buonocore, ti fondi con questa creatura colossale dai "fasci di tubo simili a sistemi venosi”.
Un po' alla volta, finisci per conoscere tutto di lei, eppure continua ad apparirti misteriosa, come osserva il protagonista: la “spiavo come si può spiare una donna nuda dal buco della serratura (…) Quante ore della mia vita avevo trascorso in quel luogo? Provai a contarle senza riuscirci. Un numero spropositato (...) Perchè io facevo all'amore con le colate continue (...)".
Lavorarvi ti dà gioia, gli attrezzi e le macchine sono tuoi amici: si chiamano siviera, paniera, lingottiera, stampigliatrici, cannelli da taglio. Con loro parli, vedi che producono, creano, fanno. "Perchè la macchina è sacra, è tutto. É ordine e disciplina. É razionalità. In definitiva, è quanto di pulito e rispettabile resta ancora in questo mondo caotico".
Finchè piombi negli anni Novanta, quando il verdetto “dismissione” si abbatte, rapace, sulla tua tenera creatura, scarnandola con rabbia e portando oltreoceano le sue viscere pulsanti di vita.
Non te lo spieghi.
L'Ilva di Bagnoli veniva chiusa proprio quando doveva espandersi. Con la sua chiusura veniva buttata “dalla finestra una enorme massa di denaro”, “cinesi, tailandesi (…), e quant'altri acquisteranno poi impianti nuovi di zecca o comunque efficientissimi, pagandoli come rottame”. “Le voci della svendita andavano e venivano sulla cresta del vento: si smontano le colate continue a favore dei cinesi; si smonta l'altoforno 5 a favore degli indiani; si smontano i forni a calce a favore della Malesia; si smonta il treno di laminazione a favore della Tailandia; (...) si cedono al miglior offerente vagoni ferroviari, binari, due immensi scaricatori da pontile addetti al prelevamento dei minerali dalle navi (Malesia?)”.
Sì, perchè “L'Ilva, dicevano tutti, è come il maiale: una volta che l'hai ammazzato non butti via niente”.
Nel mattatoio si contano le prime vittime: la disoccupazione supera il 42% nel 1991 e Bagnoli, da che era “quartiere felice", cade nel mirino della camorra.
Ma non ti deprimi. Anzi, con “l'irrefrenabile vocazione per il lavoro (…) dell'umanità nascosta, quasi clandestina” dei partenopei, esegui ora la tua opera certosina a ritroso: il tuo fare, ora, è per disfare un po' alla volta, la tua creatura, le tue colate continue. E affinché l'eutanasia sia la più dolce possibile, sorvegli che nessuno usi l'impazienza “di chi vuol far presto ad ogni costo”.
E ti smembri anche tu, pezzo per pezzo.
Segui le sorti della tua creatura? Non proprio.
"Dobbiamo imparare a dismettere innanzitutto noi stessi" dice un personaggio dell'opera: "Distruggere all'improvviso una fabbrica può essere anche un'operazione semplice. Distruggere di colpo una civiltà, una cultura, una forma mentis è un altro paio di maniche".
E tu-Buonocore, inizi a sbullonare la tua corazza di acciaio, il tuo perfezionismo da macchina, ti scopri fragile, sul punto di tradire la donna che più ami per un'attraente giovane Marcella.
Dicevi: "l'umanità della macchina è prima di tutto un riflesso della nostra umanità. Se c'è, c'è. Se non c'è, che cosa può fare la macchina se non farsi essa stessa specchio della nostra stupidità diventando a sua volta cieca e brutale?".
Ora che è morta la grande macchina che aveva forgiato la tua identità, sei più uomo. Non muori con lei. Anzi, alla prospettiva di una brillante carriera a Meishan, in Cina, per dirigere il clone dell'impianto Ilva, con le tue colate continue, tu rinunci per non staccarti da Rosaria, la donna che ami, per la quale già in passato avevi rinunciato ad un'altra macchina: l'automobile Fulvia coupè "per la quale avevo firmato trenta cambiali di cinquantamila lire ciascuna" ma di cui Rosaria era gelosa.
Al suo aut-aut: o me o la Fulvia, avevi scelto lei.
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