Elvira Sessa
"Buongiorno
- tessera elettorale
- vediamo se è nelle liste
– sì -
documento di riconoscimento –timbro
– inchiostro -
sigillo del seggio - può ritirare
la scheda - sa come si vota?- cabina numero
3- riponga la scheda piegata nell'urna
- può restituirci la matita copiativa -
ecco i suoi documenti-arrivederci". Tam-tam-tam.
Il processo elettorale.
Mentre lo
scorso 25 maggio assistevo a quel rito, nel seggio di Valle
Aurelia (nell'attuale Municipio XIII del comune di Roma) pensavo che
la democrazia sta tutta qui: in passaggi di
carte-cartoni-inchiostro-matite-firme-timbri e nella carne e nelle
ossa che li muovono. É emozionante.
La democrazia è fatta dalla
signora centenaria che tratteneva a stento la matita tra le dita, dal
signore ottantenne sulla sedia a rotelle che vorace afferrava la
scheda e, a me che chiedevo "Riepilogo come si vota per queste
elezioni?", rispondeva sorridendo: "É da cinquant'anni che
voto, grazie...". É fatta dal nonno che, tenendo per mano una
bimbetta irrequieta, fissava con simpatia
me trentenne: "Anche io ho fatto il presidente di seggio, da
giovane". É fatta dal ragazzo con lo zaino da mare che, dopo
aver votato, ci salutava dicendo "Buon lavoro!" É fatta
dalla mamma con il passeggino che, ricordando "il lenzuolo"
delle scorse elezioni regionali (una scheda elettorale lunga più di
un metro), prendeva la scheda quasi incredula: "Ah meno male,
stavolta è più semplice!". É fatta dalla signora con le
stampelle che, alle 9 di
sera passate, da sola sfidava il buio del parcheggio
antistante la scuola di via Ettore Stampini (non c'era neppure un
lampione ad illuminare la strada che separava il cancello del
parcheggio dall'ingresso della scuola dov’era il
seggio). É fatta dalla pasionaria che sventolava
l'attestato sostitutivo della tessera elettorale per le elezioni
comunali del 2013 e con quello si impuntava, convinta che aveva tutto
il diritto di votare, finchè, convocati i carabinieri, i
rappresentanti di lista ed il delegato del sindaco, non si rassegnava
che non c'era verso: doveva andare in circoscrizione per un nuovo
attestato. Ed alle 22,30 la vedevo spuntare soddisfatta, sull'uscio
della porta, pronta ad aggredire la scheda: aveva il nuovo attestato,
poteva votare, finalmente.
L'affluenza nel seggio è
stata al di sopra della media nazionale, ma di quelle centinaia di
elettori, di giovani ne ho visti davvero pochi. La nostra democrazia,
riflettevo, si regge sulla matita degli anziani, su gambe zoppicanti
e mani tremanti che, nella cabina elettorale, rivivendo
una conquista del passato, guardano
il futuro dei loro figli e nipoti. In quelle cabine elettorali c'era
il silenzioso abbraccio di tre generazioni.
E ho sentito il peso di una staffetta, di un testimone che ci viene
consegnato da chi ha visto nascere le parole “Il voto è
personale ed eguale, libero e segreto. Il suo esercizio è un dovere
civico” (art. 48 comma 2 della Costituzione), da chi aveva
vissuto gli anni in cui la legge sanzionava il non-voto: “L’elettore
che non abbia esercitato il diritto di voto, deve darne
giustificazione al sindaco (….). L’elenco di coloro che si
astengono dal voto (…) senza giustificato motivo è esposto per la
durata di un mese nell’albo comunale (…). Per il periodo di
cinque anni la menzione ‘non ha votato’ è iscritta nei
certificati di buona condotta (…).” (art. 115 del D.P.R.
n.361 del 30 marzo 1957- testo unico delle leggi per la elezione
della Camera dei deputati, norma poi abrogata con il D.lgs
n. 534 del 1993).
E mi è venuto in mente
Italo Calvino quando scrive che Amerigo
Ormea, protagonista dell’opera "La
giornata d’uno scrutatore",
“si concentrava sullo squallore dei
loro arnesi elettorali-quella cancelleria, quei cartelli, il
libriccino ufficiale del regolamento consultato ad ogni dubbio dal
presidente (...) perchè questo era per lui uno squallore ricco,
ricco di segni, di significati (...). La democrazia si presentava ai
cittadini sotto queste spoglie dimesse, grigie, disadorne; ad Amerigo
a tratti ciò pareva sublime, nell’Italia da sempre ossequiente a
ciò che è pompa, fasto, esteriorià, ornamento; gli pareva
finalmente la lezione d’una morale onesta e austera; e una perpetua
silenziosa rivincita sui fascisti, su coloro che la democrazia
avevano creduto di poter disprezzare proprio per questo suo squallore
esteriore, per questa sua umile contabilità, ed erano caduti in
polvere con tutte le loro frange e i loro fiocchi, mentre essa, col
suo scarno cerimoniale di pezzi di carta ripiegati come telegrammi,
di matite affidate a dita callose o malferme, continuava la sua
strada”.
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