Assolutamente
affascinante e carismatica!
Così definirei la signora Maria Grazia Pighetti Carbone,
morta a Genova alcuni giorni fa, mamma di Maria Teresa.
Ho avuto la fortuna di conoscerla, anche se per
poco tempo, e ho intrattenuto con Lei un rapporto telefonico: io a Roma, Lei
lontana, nella mia Liguria.
“Sa, ora sto rileggendo i tragici greci, in lingua
originale s’intende”, mi diceva in una delle nostre ultime conversazioni.
Solo due anni fa, nel libro Ci chiamavano libertà.
Partigiane e resistenti in Liguria 1943-1945, della giornalista Donatella
Alfonso, è stata raccolta una Sua testimonianza che oggi mi sembra il modo
migliore per ricordarLa e far sentire a Maria Teresa l’affetto e la vicinanza
di tutti noi (a. rava).
Donatella Alfonso, Ci chiamavano libertà. Partigiane e resistenti in Liguria 1943-1945, De Ferrari Editore, 2012.
Genova - Martedi 24 aprile 2012
«Non sono antifascista perché mi sono iscritta tra gli antifascisti. Io sono nata antifascista, e lo sono stata benché mio padre fosse fascista convinto, avesse fatto la marcia su Roma, portasse la divisa e io le divise le ho sempre odiate … A sei anni mi ero già ribellata all’idea di metter la divisa di piccola italiana: quelle calze lunghe le ho sempre odiate, mi mettevo dietro tutte le altre per non far vedere che io portavo le calze corte! Sono nata antifascista, ripeto, perché non mi piaceva la disciplina, quella che mi vogliono imporre gli altri: mi piace la mia, di disciplina. Non sarei stata neanche una buona comunista, non riuscivo stare alle regole. Ho scelto comunque un partito di massa, che era la Democrazia Cristiana, perché c’era bisogno di partiti di massa, per costruire il paese. E oggi, che ho vissuto tanto e ho avuto tanto dalla vita, io non cambio cittadinanza: cerco di vivere da anarchica. E cristiana. Perché Cristo era un anarchico che proteggeva le donne di strada, le adultere… e trattava da pari tutti. il vero inventore del comunismo è stato lui».
Maria Grazia Pighetti, «la Pighetti come mi hanno sempre chiamato» ironizza lei, è seduta vicino alla finestra della casa piena ovunque di libri, sulle alture di Castelletto, a Genova. Novant’anni già passati, tra cultura, scuola e passione civile; i quotidiani accanto, le telefonate e le visite dei due figli e dei nipoti, anche per commentare un libro sulla storia greca «che sto chiosando» spiega lei «e che mi fa tornare in mente la voglia di rileggere Eschilo, Senofonte...». Insegnante di storia dell’arte, storia e filosofia per 25 anni e per altri quindici preside del liceo linguistico Grazia Deledda, ha partecipato da protagonista alla vita culturale genovese; ma, come racconta, senza scegliere invece la via della politica, nonostante le tante sollecitazioni a candidarsi per questo o quell’incarico elettivo. E insieme a lei, presenti sempre in ogni manifestazione di impegno civile, il marito Enrico Carbone, scomparso nell’agosto 2009 dopo 61 anni insieme. Una storia, la loro, nata proprio durante la Resistenza.
«Ho letto tutto quello che si poteva ma la scuola non mi piaceva. Però è proprio grazie alla scuola, al liceo D’Oria, che ho incontrato due delle persone che più mi hanno formato; don Guano insegnante di religione al ginnasio, che mi fece capire la differenza tra cristiano e cattolico e come si poteva essere entrambe le cose restando coerenti; e poi Caterina Marcenaro, che diventò la famosa soprintendente dei beni culturali del dopoguerra, e che fu
mia insegnante di storia dell’arte; mi insegnò che si poteva dire no. Allora era più azionista che comunista, mentre più avanti aderì al Pci, pur essendo una grande, raffinata borghese; una persona di grande dirittura morale. Il terzo incontro per me fondamentale fu quello con Giuseppe Dossetti: e peraltro fu una cosa casuale… una discussione durata un’ora e mezza, nel 1945, che mi ha segnato per sempre. Io non so se c’è Dio ma personalmente ci credo, è una decisione mia. Sono cattolica perché è la mia religione, ma le religioni sono costruzioni umane, ogni popolo e ogni persona fa la sua; guai se lo conoscessimo, la fede è un atto volontario.
Ho già detto che mio padre, avvocato, era fascista convinto e io me ne vergognavo. Ma non ho mai nascosto cosa pensavo io, e devo dire che comunque anche mio padre decise di aiutare molti ebrei… considerava assurde le leggi razziali, quella persecuzione, con il suo modo di vedere il fascismo, proprio non c’entrava nulla. D’altro canto lui era scappato di casa a quindici anni, si era dichiarato anarchico, poi fu dannunziano e infine fascista e lo fu tutta la vita. Però gli riconosco la coerenza e comunque il rispetto anche verso le mie idee che erano contrastanti, oltre all’amore per i libri che mi ha trasmesso. in seconda liceo mi ricordo che molti miei compagni volevano festeggiare la presa di Barcellona da parte dei franchisti; solo io e due mie compagne decidemmo di non partecipare, di entrare a scuola. Sulla lavagna campeggiò per un mese Pighetti crumira. Ed ero così apertamente antifascista che dopo la maturità, nel 1939, la Marcenaro e Dusetti, che era il mio professore di filosofia, mi dissero quanto erano felici a vedere che una persona nata in una famiglia fascista fosse antifascista, e che questa era una speranza per l’Italia futura.
La mia attività di supporto alla Resistenza comincia nel ’43 a Pieve Ligure, dove ero sfollata e da dove venivo, regolarmente a piedi, fino a nervi per prendere il tram e andare all’università. insieme a me c’erano le sorelle Gulberti, due amiche con le quali facevamo piccole azioni; portare documenti, ma anche armi. Mi ricordo che una volta mi diedero due bombe a mano da portare a Genova… lungo la strada incontro l’avvocato De Maestri che era in carrozza
e che ha insistito per darmi un passaggio. io non potevo dire di no e allora salgo e mi dicevo, oddio se ci fermano questo qui lo arrestano e lui non c’entra nulla… ma andò bene, superammo il posto di blocco senza problemi».
Maria Grazia Pighetti aderisce ai Gdd, i gruppi di difesa della donna, e fa parte di una rete che prepara e diffonde informazioni, volantini, materiali; poi si iscrive alla Dc, e nelle organizzazioni giovanili incontra il futuro marito, Enrico Carbone «con il quale cominciai a discutere nel 1945 dell’idea di Dio e abbiamo smesso solo perché lui non c’era più». Ma sono anche i tempi dei comizi, della propaganda, dei circoli e delle sezioni da organizzare nei paesi e nei quartieri, per le prime elezioni libere. Però la scelta finale è quella di continuare ad insegnare, e fare politica così, piuttosto che entrare in una lista dove peraltro sarebbe stata eletta senza problemi. Ironica e disincantata, oggi la politica la segue sui giornali e nei talk show televisivi («purchè non sia quello di Vespa» avverte) e confessa: il nostro però era un altro mondo.
«Era un gioco, anche, ci siamo divertiti tanto. Avevamo anche un giornale che si chiamava L’età nuova in cui io scrivevo di cultura, libri, cinema, teatro; ed Enrico che studiava economia e commercio, curava la parte economica. Io ero, e sono rimasta sempre, della corrente di sinistra, lui era più moderato. Nel gruppo più a sinistra, allora, c’era anche Gianni Baget Bozzo. D’altro canto non dimentichiamo quanti cattolici hanno aderito alla lotta partigiana, da Paolo Emilio Taviani, Pittaluga, allo stesso Bisagno, Aldo Gastaldi, e poi il professor Achille Pellizzari: tutti comandanti. Io l’ho fatta, la Resistenza, perché faceva parte della mia vita. Ma non ci ho mai pensato e non ci penso neanche di essere riconosciuta ufficialmente come partigiana; ho avuto tanto dalla vita, non ho chiesto nulla. Voglio essere io a stimare me stessa, non cerco qualcuno che lo faccia per me.
Così è stato per la politica: credo di essere moderatamente intelligente ma non furba, e in politica questo serve; io sono di una onestà maniacale e anche se non disprezzo la politica anzi, continuo appassionatamente e arrabbiatamente a seguirla; non so se ci siano o ci siano stati politici integralmente onesti perché non so se sia possibile. Quando andavamo in giro per comizi, mi ricordo che mangiavamo in qualche trattoria e spendevamo due o trecento lire; ci capita di andare a Portofino e spendiamo mille lire, pur mangiando le solite cose semplici. Io e mio marito rimaniamo fulminati! Per fortuna io, che avevo il mio stipendio di insegnante, quei soldi
li avevo, ma come dirlo al partito? E invece, quando l’ho raccontato, mi sono sentita dire: ah, non preoccuparti, lì c’è andato Taviani e ha speso tremila lire…»
Nel 1943 la laurea in storia; l’anno seguente Maria Grazia comincia, pur poco convinta, a insegnare a quella che allora si chiamava Regina Margherita, scuola per signorine benestanti. «Una scuola per ragazze ricche e ignoranti che andavano a scuola per avere una vernice di cultura» le bolla lei, che era stata chiamata a insegnare storia, filosofia e arte; ma l’anno seguente, dopo la Liberazione, la scuola non solo cambia nome e viene intitolata alla scrittrice premio Nobel Grazia Deledda, ma cambiano anche le allieve: tornano molte che erano fuggite da Genova per la guerra, e la giovanissima insegnante si trova ad avere allieve più grandi di lei . Intanto, anche il ruolo delle donne nella scuola e nella cultura risente del nuovo clima. Ma la strada da fare, commenta oggi Pighetti, è ancora lunga.
«Pensiamo che nel 1904 Maria Montessori fu la prima donna a laurearsi in medicina e negli stessi anni una cugina di mia madre si laureò in lettere a Pavia con un abito di velluto con lo strascico e tutti i professori della commissione in frac. E se a metà degli anni ’60 c’erano solo quattro ragazze iscritte a ingegneria a Genova e ora sono più dei maschi, significa che sul piano della dignità pubblica passi avanti ne sono stati fatti, sotto quello della dignità privata, invece no.
Tendiamo ancora ora ad essere oggetto nelle mani di coloro che amiamo, siano mariti, amanti, figli; io sono un’eccezione saggia. Perché, anche se lo pensavo, non ho mai fatto sentire a mio marito che lo consideravo da meno di me né che io volessi essere da più di lui. L’errore, e in questo la società è cambiata male, è stato quello di considerare più la superiorità dell’uno dell’altro che non la parità vera. E se c’è ancora tanto cammino da fare per le donne, non dimentichiamo che c’è la rabbia dei maschi, che non accettano di essere messi in un ruolo inferiore o che le donne scelgano per sé. Per questo c’è tanta violenza, perversione, schiavitù persino… d’altronde forse nemmeno quelli che conoscono un poeta raffinato come Novalis ricordano che scriveva, rivolgendosi alla fidanzata diciottenne morta: “Sono contento che tu sia morta perché ora sei veramente mia”. E le cose non sono cambiate, quante donne vengono uccise perché gli uomini dicono “tu mi fai rimanere solo, ma tu sei solo mia”?
Io vedo tutto questo e mi dico che sono così vecchia… aspetto solo di sapere cosa c’è dall’altra parte. vedere se c’è Dio, visto che ci ho creduto. E se non c’è nulla, allora dormo».