Maria
Teresa Carbone
La
letteratura, come la vedeva Ezra Pound, è “novità che resta
novità”. E Calvino: “Un classico è un libro che non ha mai
finito di dire quel che ha da dire”, perché “i classici sono
libri che esercitano un'influenza particolare sia quando s'impongono
come indimenticabili, sia quando si nascondono nelle pieghe della
memoria mimetizzandosi da inconscio collettivo o individuale”.
A
leggere i grandi testi del passato, insomma, non si ha che da
guadagnare, anche se pensiamo di averli dimenticati, anche se lì per
lì non ci piacciono. E chi lo nega? Beh, per esempio Nick Hornby, che di recente al Cheltenham Literary Festival ha detto, senza tanto girarci intorno: “I romanzi dovrebbero essere come la tivù. Guai
se affaticano chi li legge, meglio mollarli subito”. Non che si
debbano prendere in mano soltanto libri facili, concede l'autore di
About a Boy, perché “capita che si sia interessati a cose
complicate”: quello che conta è che “si proceda al galoppo”.
Come si possa leggere in fretta un testo complesso (e poi perché),
Hornby non lo dice, ma gli crediamo sulla parola. Curiosamente,
proprio negli stessi giorni, il protagonista cinematografico di About
a Boy, Hugh Grant (ottimi studi a Oxford prima di diventare attore), nel corso di un'intervista ha maledetto Internet, colpevole di avere distrutto il piacere della lettura, riducendo al minimo la
nostra capacità di attenzione: “Arrivi alla fine di un tweet e ti
sei già annoiato”.
L'accusa
è vecchia e ricercatori seri come Maryanne Wolf, che in Proust e il calamaro ha analizzato i meccanismi della lettura dal punto di
vista delle neuroscienze, confermano che il rischio di “disimparare
a leggere” (cioè di leggere come si faceva qualche decennio fa) è
forte. E ad andarci di mezzo sono i libri che non si mandano giù
come un bicchier d'acqua – i classici, al primo posto.
E
al primo posto fra i classici a rischio di estinzione (di lettori),
in Italia c'è il romanzo per eccellenza, quello che tutti, proprio
tutti, hanno – abbiamo – letto a scuola e che per questo, anche
quando non c'era Internet e Facebook e gli smartphone, era l'emblema
del libro da odiare: I promessi sposi. Figurarsi adesso.
Certo, il capolavoro di Manzoni resta una tappa inaggirabile nei
programmi ministeriali, ma per tanti insegnanti è un incubo:
“L'altro giorno un allievo mi ha detto che questa estate ha provato
a leggere i libri di Sciascia, ma li ha trovati pesanti. Quante
probabilità ho di farlo appassionare alle vicende di Renzo e Lucia?”
si chiede una professoressa di lettere di un liceo scientifico
romano.
Non
è un grido di dolore isolato, se a settembre “Micromega” ha
pubblicato nel suo sito un saggio di Giovanni Petta, Come
insegnare Manzoni a scuola, tassello di un trittico che
comprende Dante e Leopardi: concrete istruzioni ad uso dei docenti
che non vogliono arrendersi alla dismissione delle opere-cardine
della letteratura italiana.
La
ricetta di Petta, in effetti, è di una semplicità disarmante, un
“uovo di Colombo”, la definisce lui stesso: “basta leggere il
ibro insieme ai ragazzi”. Con una precisazione: l'insegnante deve
rinunciare – almeno all'inizio – al “pantano delle
biografie e del contesto storico”, ai “percorsi tematici che
tengano insieme contemporaneità e personaggi del Seicento”. È
il testo, e solo il testo, che deve parlare – alla lettera. Sulla
base di un'esperienza lunga oltre dieci anni, Petta ha elaborato un
metodo che prevede la “somministrazione” (il termine è suo)
integrale dei Promessi
sposi,
tra settembre e ottobre, alternando le letture ad alta voce
dell'insegnante in classe a quelle solitarie degli studenti a casa.
Nient'altro: per due mesi, a partire dal primo giorno di scuola,
niente compiti scritti, nessuna analisi del testo. Solo, quando resta
tempo, una conversazione per rispondere alle domande degli studenti:
“perché a Milano c'erano gli Spagnoli? come mai Venezia era una
repubblica? dov'è l'Adda?”. Dialoghi che servono soprattutto a
fare della classe una “comunità ermeneutica”. L'impresa è
difficile, il docente ha spesso osservato “l'assoluto disinteresse
alle cose reali da parte di studenti concentrati sui loro congegni
elettronici”, eppure i risultati sono incoraggianti: dalle risposte
date a un questionario (anonimo), emerge che il 70 per cento degli
allievi ha letto tutto il romanzo, il restante 30 per cento si è
appoggiato anche, ma non solo, alle sintesi di fine capitolo.
Della
vitalità dei Promessi sposi
è convinto lo scrittore Giulio Mozzi che a luglio dal suo sito Vibrisse ha lanciato una serie di domande agli insegnanti: “Come li
presentate? Li leggete in classe? (Dal principio alla fine, a salti,
ecc.; leggendo voi, facendo leggere i ragazzi ecc.). Li leggete / li
fate leggere per intero?...”, e via chiedendo. Tante e
appassionate le risposte di docenti che intorno alle vicende di Renzo
e Lucia, di Gertrude, dell'Innominato, organizzano laboratori,
letture sceniche, musical, e che d'altra parte cercano di capire
quali strumenti “in più” possa dare la scuola per la conoscenza
di un testo del passato.
Mozzi
stesso, del resto, dichiarandosi a favore di contaminazioni che a
qualcuno fanno storcere il naso, aveva lanciato l'anno scorso, sempre
su Vibrisse, un gioco: “Edgar Lee Masters incontra Alessandro Manzoni”. Semplicissimo il meccanismo: inventare per ognuno dei
personaggi, anche minimi, dei Promessi sposi,
un epitaffio in stile Spoon River. In poche settimane il cimitero
manzoniano si è popolato di centinaia di tombe che dimostrano come
ogni gioco, al pari dei treni, ne possa nascondere un altro: “Mi
ammalai, andai a
letto e morii, come un
eroe di Metastasio, per
colpa delle stelle”, è il finale di uno degli epitaffi per don
Ferrante, la cui autrice, Lara Sguario, studentessa liceale di
Rovereto, riesce con un movimento acrobatico, a convocare
all'appuntamento di Manzoni e Lee Masters anche Metastasio e John
Green, autore di un lacrimevole bestsellerone (Per colpa
delle stelle, appunto), molto
amato dagli adolescenti. Chapeau!
Seguitissimi
ancora questa estate su RadioTre nel ciclo di letture “Ad alta voce” (con la partecipazione di attori come Fabrizio Gifuni e la
grande Paola Pitagora, prima Lucia televisiva ai tempi del bianco e
nero), I
promessi sposi
in
versione nuovo millennio non potevano non approdare a twitter. E lo
hanno fatto, ci mancherebbe altro, in grande stile: al progetto #TwSposi, lanciato tra il novembre 2013 e il marzo 2014 dalla
comunità twittante di TwLetteratura, hanno partecipato – in base
ai dati finali – “2.391
account
Twitter, realizzando 38.130
tweet originali
e 100.500
fra
tweet e retweet”. Venti le scuole italiane, medie e superiori,
coinvolte nella riscrittura collettiva in 140 caratteri del romanzo
manzoniano, di rado banali i testi, che dimostrano una lettura
tutt'altro che superficiale dell'opera, tra echi letterari e paragoni
con il presente. Due esempi, dall'account di una seconda
dell'Istituto professionale “Bernardi” di Padova: “Contagiati
sfortunati, come ladri vengon trattati: la casa, la loro prigione”
e “Cecilia, nove anni adagiata su un carro mortuario come la
bambina col cappotto rosso di Schindler'
s list”.
Se
TwLetteratura non si ferma e avvia la riscrittura, a partire dal 10
novembre, di un altro grande classico italiano, #TwPinocchio (sarà
più facile? non è detto), anche il dibattito sulla riproposta dei
classici – a scuola e non solo – continua: solo pochi giorni fa
nel sito Le parole e le cose tre docenti, Diana
Romagnoli,
Paolo
Trama e
Maria
Laura Vanorio, hanno pubblicato un intevento, il cui titolo è un
programma: Insegnare Leopardi (senza noia).
“Un classico – scrivono in apertura – ben lungi dall’essere
imposto nella veste di monumento statico e museificato, andrebbe
concepito come oggetto potenziale e dinamico”. E così
si torna a Calvino, al libro che non ha mai finito di dire quel che
ha da dire. Il punto, oggi, è trovare il tempo di ascoltarlo.
Questo articolo è uscito sul numero 64 (18-24 ottobre 2014) di Pagina99 WE con il titolo raccontare I promessi sposi nei 140 caratteri di un tweet.
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