Maria
Cristina Reggio
Cosa
succede a due persone di sesso diverso che si conoscono in un locale e poi lui
la invita a casa sua? Ce lo mostra al Vascello l'ottimo teatro d'attore di Elena Arvigo - anche autrice della traduzione -
e Roberto Rustioni - quest'ultimo anche regista della pièce - in Being
Norwegian, testo del drammaturgo scozzese David Greig, nato a Edimburgo
e cresciuto, per motivi famigliari, in Nigeria. Argomento di tante commedie, sia teatrali sia
cinematografiche, l'incontro fortuito tra un uomo e una donna si svolge in
genere seguendo un reiterato copione sociale, con regole di comportamento che a
mano a mano si sono codificate, forse proprio attraverso il teatro, il cinema, la
tv: l'ospite offre qualcosa da bere, mette su una musica, accende una luce
soft, si siedono sul divano, lei copre o mostra la coscia, lui ci prova e, se
lei ci sta l'incontro può dirsi riuscito, e li vediamo rotolarsi finalmente sul
divano stesso, sul letto, e perché no, sul tappeto. Anche
in questo caso si vorrebbe che finisse così, ma qui l'autore, lo spazio della
rappresentazione e gli attori stessi mettono gli spettatori di fronte a uno specchio
ben diverso, nel quale si riflette, pur tra molti scoppi di risate sommesse, un'umanità
perduta, disperata, strappata, quello che noi siamo.
Lei è
una solare trentenne con calza nera e abito da sera, una donna " che vive
in un seminterrato e abituata ad arrangiarsi da sola" - dice lei stessa, a
un certo punto - che si mostra simpatica, disponibile e civetta quanto può, ma
senza convinzione, se non quella di essere diversa, speciale, forte,
"altra", insomma, in una parola, norvegese. Instancabilmente prova a
entrare nel copione, ma altrettanto incessantemente se ne tira fuori arroccandosi
in una immaginaria rude "norvegese" alterità, promette spesso di
andarsene, ma resta e vuole restare. Lui è meraviglioso, quasi un perfetto
scozzese: carnagione pallida, magrezza di uomo poco atletico, un corpo e un
viso di chi ha chiuso le emozioni dentro una mancanza di espressività e in una prossemica
incerta, i cui arti leggermente scoordinati sembrano capaci solo di muoversi in
uno spazio conosciuto, insomma un uomo abituato a vivere in uno stesso spazio da
solo. Quando si siede sul divano accanto alla ragazza pronuncia la fatidica
frase inutile "Eccoci qua", due parole che non dicono nulla se non
attestare un'evidenza senza possibilità di fuga. Si è là perché si è stati
catapultati senza volerlo su quel divano, accanto a quella buffa sconosciuta, a
cui non si sa cosa dire e che, forse, si vorrebbe che uscisse al più presto dal
proprio spazio vitale. Ma lo spazio vitale di Sean, questo il nome del
protagonista maschile, separato con due figli e uscito da poco di galera, non è
un loft con design confortevole, ma un appartamento disadorno, che ricorda gli
ambienti degradati dei film di un regista nordico, (non norvegese, ma
finlandese) Aki Kaurismaki, arredato con oggetti miseri e con tanti scatoloni ancora
chiusi disseminati qua e là nei quali l'uomo inciampa sovente.
Il fatto curioso è che questa pièce si dà non
sul palco del Vascello, ma nella sala Studio, che sembra diventare per
l'occasione davvero un appartamento, con tanto di porta in laminato. Un
soggiorno con un'illusoria vetrata che lo chiude, e che divide lo spazio degli
attori da quello degli spettatori: all'inizio, infatti, lei indica tra noi che
sediamo, un ipotetico splendido quanto disperante panorama metropolitano
notturno. La vicinanza degli spettatori con i corpi degli attori è tale che se
ne sente il respiro, forse addirittura i battiti cardiaci, e agli spettatori sembra di
essere dentro a quella casa, di assistere, non visti, a un incontro reale tra
due persone senza trucco, due autentici esseri umani che vivono un frammento
della loro storia di vita. E il finale, allora, commuove davvero.
Fino
al 23 novembre al Teatro Vascello, Sala
Studio
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