Investimenti e produttività si
rilanciano solo con programmi di espansione dell'occupazione mossi
dall'operatore pubblico che, quale datore di lavoro di “ultima istanza”, non
alimenti politiche di assistenza ma “crei” posti di lavoro per tutti, soprattutto
per le qualifiche più basse e con salari minimi.
È la tesi del cosiddetto “stretto
pieno impiego” proposta dall'economista Hyman Philip Minsky e illustrata nel
volume “Combattere la povertà - Lavoro non assistenza” (Ed. Ediesse, 264 pp), pubblicato
lo scorso ottobre.
L'opera racchiude in sette capitoli,
articoli e manoscritti dell'economista, editi ed inediti, che vanno dalla metà
degli anni Sessanta alla metà degli anni Novanta e sono ancor oggi di scottante
attualità.
Elvira Sessa
“Non c’è cura migliore contro la povertà del reddito
familiare, specialmente del reddito familiare percepito mediante lavoro”
scriveva cinquanta anni fa Minsky, economista di Chicago (1919-1996), senza
immaginare che la sua teoria economica, sviluppata in un periodo critico per
gli Stati Uniti, caratterizzato da grande disponibilità di lavoro di bassa
qualificazione e con un salario relativo che andava peggiorando nel tempo,
potesse riemergere oggi, in Italia, in tutta la sua attualità e carica
provocatoria.
Eppure, tant'è.
Lo evidenziano gli economisti Riccardo
Bellofiore e Laura Pennacchi che, nel loro saggio introduttivo al volume
“Combattere la povertà” (traduzione di Anna Maria Variato e prefazione e
introduzione all'edizione originale redatte da Dimitri Papadimitriou e L.
Randall Wray), osservano: “l’argomento fondamentale di Minsky è semplice: (1)
la povertà è in larga parte un problema di occupazione; (2) lo «stretto pieno
impiego» migliora i redditi alla base dello spettro dei salari; e (3) per
sostenere lo «stretto pieno impiego» è necessario un programma di creazione diretta
del lavoro.”
Minsky parte da un’aspra critica alle
politiche keynesiane che, se hanno favorito la nascita di uno Stato, grande a
sufficienza da stabilizzare l’economia e sussidiare il consumo, hanno anche
portato a grandi sprechi di denaro pubblico che non hanno contribuito a
migliorare le condizioni dei più poveri. Al welfare keynesiano
basato sui sussidi, ossia sulla “corresponsione di liquidità o servizi senza
che nulla sia richiesto in cambio di questa erogazione”, Minsky contrappone una
strategia “basata sul lavoro” in cui lo Stato si impegna ad assicurare
l’impiego a tutti coloro che sono disponibili ed abili al lavoro, nella
convinzione che “qualsiasi strategia politica che non assuma la creazione di
lavoro come obiettivo primario non è altro che la continuazione della strategia
di impoverimento del decennio passato” (così si legge a p. 215 del volume).
In particolare, per combattere la
povertà, Minsky propone di “socializzare” (ossia “statalizzare”) i
settori-chiave dell’economia per far sì che il consumo soddisfi la maggior
parte dei bisogni privati e di tassare il reddito e la ricchezza per abbattere
la diseguaglianza sociale. Un ruolo cruciale è ricoperto dagli strumenti della
politica monetaria e fiscale, considerato che una politica monetaria espansiva
può determinare una svalutazione della moneta nazionale sui mercati valutari
internazionali; così come un alleggerimento della pressione fiscale può
determinare solo un incremento del potere di acquisto di coloro che hanno già
alti redditi, consentendo ai poveri di incrementare i loro redditi solo per
effetto dello “sgocciolamento” verso il basso del maggiore reddito dei ceti
abbienti (secondo quella che Minsky definisce la strategia di “trickle down upon
them”).
Minsky sottolinea inoltre che, per
combattere la povertà non basta neppure una manovra di politica economica
orientata ad incrementare la ricerca e lo sviluppo, perché in tal caso essa
servirebbe ad orientare la domanda di lavoro verso una categoria di lavoratori
ben istruiti e ben addestrati, lasciando ai margini quelli poco qualificati.
Per questi motivi, secondo Minsky, la
campagna anti-povertà ha bisogno di un “ingrediente necessario”: il cosiddetto
“stretto pieno impiego” dei lavoratori.
Ma cosa è questo “stretto pieno
impiego”? È una condizione di politica occupazionale che si verifica
segmentando lavori complessi in lavori semplici. Solo così si può sostituire il
lavoro che si trova in eccesso di offerta con il lavoro che si trova in eccesso
di domanda (Minsky fa, in proposito, l’esempio di una guardia forestale utilizzata
come supplemento di poliziotti completamente addestrati).
Con questa strategia di “stretto pieno
impiego”, lo Stato garantirebbe a tutti un salario di base necessario per
condurre le famiglie ad un reddito almeno sufficiente all’autosostentamento. Tale
salario potrebbe essere, a sua volta, speso nei consumi, così rivitalizzando il
ciclo dell' economia reale e riducendo l'impoverimento.
Lo “stretto pieno impiego” richiede,
dunque, un big
push dello Stato dal lato della domanda di lavoro quale datore di lavoro di
“ultima istanza”, ossia che interviene “creando” quelle tipologie di lavoro che
nessun datore di lavoro privato domanda perché considerate apparentemente
“inutili”.
Verrebbe allora da chiedersi: “lo
stretto impiego” è una via praticabile?
Minsky non ne dubita perché l’ha vista
attuata all’epoca del New Deal, quando i lavoratori sono stati assunti per
quello che erano e lo Stato ha creato occupazione per loro.
L’economista indica anche le
strategie per continuare a perseguirla: lo Stato dovrebbe attuare “uno sforzo
minimo critico” impegnandosi nella creazione “diretta” di occasioni di lavoro
per tutti anche se di bassa qualifica e ad un salario minimo (Minsky parla
proprio di “direct job creation programs”, riferendosi al fatto che è lo
Stato a creare “direttamente” nuovi lavori, segmentando lavori complessi in
tanti lavori semplici alla portata dei disoccupati poco qualificati).
Solo all'interno di una situazione di
autentico pieno impiego che si sia venuta a creare in questo modo, lo Stato
potrà poi procedere ad una ulteriore professionalizzazione dei lavoratori meno
qualificati. Insomma: prima assicurare ai lavoratori un salario minimo, poi
formarli anche per lavori più complessi.
Senza questo intervento statale, il
mercato finirebbe per richiedere solo manodopera specializzata, lasciando ai
margini i meno qualificati.
Con la sua teoria della “stretta
occupazione”, Minsky evidenzia, dunque, non solo il ruolo cardine dello Stato
nel rilanciare l'economia (perché altrimenti l’economia crescerebbe solo nel
PIL, ma non nel benessere diffuso e aumenterebbe la schiera dei poveri) ma
anche i limiti di un interventismo statale basato su misure “caritative”, ossia
su meri sussidi monetari e sgravi fiscali, perché ciò non consentirebbe mai ai
poveri di affrancarsi dalla loro condizione. A tal proposito, l’economista
richiama l’esempio dell’era Kennedy-Johnson, quando i sussidi monetari e gli
sgravi fiscali hanno causato una compressione dei salari dei lavoratori nonché
una diminuzione dei redditi della classe media e, più in generale, del consumo.
Conseguentemente, le condizioni dei poveri miglioravano, sì, ma solo grazie al
peggioramento delle condizioni di vita dei meno poveri.
Quanto abbiamo recepito oggi, in
Italia, del pensiero così originale di Minsky?
Bellofiore e Pennacchi, nel richiamare
la lungimiranza dell’economista, ammettono, con amarezza: “La guerra alla
disoccupazione continua a non essere tra le preoccupazioni centrali dei governi
europei. Se la si assumesse come obiettivo politico strategico, i pesi relativi
di altre politiche verrebbero riconsiderati” e suggeriscono una strada:
“L’enfasi dovrebbe andare sul lato della spesa governativa per investimenti e
per creare lavoro. In particolare i programmi di spesa dovrebbero consistere in
grandi progetti sulle criticità fondamentali del paese –riqualificazione
ambientale, territori, città, cultura, istruzione, Ricerca e Sviluppo – e
impiegare direttamente i lavoratori, soprattutto giovani e donne, privi di lavoro.
Oggi l’esigenza di un motore pubblico per gli investimenti e la possibilità di
generare occupazione si configurano come un binomio inscindibile”.
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