martedì 28 ottobre 2014

Il trionfo del cretino

Alceste

Mettetevi comodi.
Ecco un articolo di Michael Snyder:
“Richard Lynn, psicologo alla University of Ulster, ha calcolato il declino del potenziale genetico umano. Ha usato i dati sui quozienti medi di tutto il mondo dal 1950 al 2000, e scoperto che la nostra intelligenza collettiva è scesa di un punto. Il dr. Lynn prevede che, se la tendenza continua, potremmo perdere altri 1,3 punti di QI entro il 2050. Un punto di QI non sembra molto, ma quando si torna ancora più indietro nel tempo il declino diventa molto più consistente. Per esempio, un professore di psicologia all’Università di Amsterdam, Jan te Nijenhuis, ha calcolato che dall’epoca vittoriana abbiamo perso in media 14 punti di QI”.

Ah, quanto mi piace la scienza! E sentite la Cambridge University:

“Il genere umano si sta considerevolmente rimpicciolendo … Anche i nostri cervelli sono più piccoli. I risultati dello studio ribaltano il luogo comune secondo cui gli umani sarebbero diventati più alti e grandi …”. E più intelligenti, aggiungo.

Vogliamo scomodare Friedrich 'Testa Matta' Nietzsche, da l’Anticristo? Certo:

“L 'umanità non rappresenta, come si ritiene oggi, un'evoluzione verso il migliore, il più forte o il più elevato. Quella di ‘progresso’ è soltanto un'idea moderna, vale a dire un'idea falsa. L'europeo di oggi vale assai meno dell'europeo del Rinascimento; evoluzione nel tempo non significa assolutamente evoluzione, progresso o rafforzamento”.

E James Ballard, dal meraviglioso racconto Le voci del tempo? Facciamo parlare uno dei protagonisti, Whitby:

“Si è sempre ritenuto che l'andamento evolutivo tendesse indefinitamente verso l'alto, ma in realtà il culmine è già stato raggiunto, e il cammino adesso conduce in basso verso la comune tomba biologica. È una visione del futuro disperata e al momento inaccettabile, ma è l'unica possibile. Fra 5000 anni i nostri discendenti, invece di essere superuomini galattici, saranno probabilmente nudi idioti prognati dalla fronte bassa che si aggireranno grugnendo fra le rovine di questa clinica …”

sabato 25 ottobre 2014

La poesia della domenica - Andrew Marvell, Alla sua amante ritrosa

Jean Marc Nattier, Gli amanti
Il secentesco Andrew Marvell viene ascritto (assieme al caposcuola John Donne, a Richard Crashaw e Henry Vaughan), nella corrente dei cosiddetti poeti metafisici. Il tratto comune di tale scuola - tratto piuttosto incerto, a dir la verità - è da rintracciarsi in una particolare tecnica espressiva, per cui il sentimento, e massimamente il sentimento d'amore, viene declinato, piuttosto che con diretta spontaneità, tramite la mediazione di immagini, simboli e correlativi, lambiccati, a volte, sino alla freddezza e all'astrusità - una preziosità concettuale in consonanza, tuttavia, oltre che col magistero di Shakespeare, con gran parte del Seicento poetico europeo.
Al di là di tali questioni, è facile rilevare come la poesia di Marvell si inscriva, con palese naturalezza, nel solco del carpe diem occidentale. Essa riecheggia, infatti, la classicità latina (Orazio, ovviamente, e l'immortale Catullo di Amemus, mea Lesbia: "I soli possono tramontare e tornare/noi una volta che è tramontata la breve luce/dobbiamo dormire una sola eterna notte") nonché il memento mori medioevale e la vanitas barocca.
Il poeta esorta l'amante: se fossimo eterni, mia cara, potremmo indugiare su questa terra in giochi d'amore lenti e dolcissimi, per sempre, sino al giorno del giudizio, ma il tempo divoratore incalza, la bellezza svanisce, non essere ritrosa, godiamo insieme questo breve tempo, godiamo più che possiamo.
Un tema antichissimo, forse l'unico che possa rendere la poesia sicuramente immortale; esso non cessa di stancarci, e nuovamente e continuamente ci commuove, poiché parla di Amore e Morte, le sole pulsioni dell'uomo - quegli istinti potenti e congeniti che rendon ragione, nelle loro infinite permutazioni e variazioni, dell'apparente molteplicità dell'esistenza. 


Avessimo abbastanza Mondo e Tempo,
Non sarebbe un delitto, Signora, la vostra ritrosia.
Penseremmo seduti a quale strada prendere,
A come trascorrere il nostro lungo giorno d’Amore.
Voi sulla riva del Gange trovereste rubini: io presso
L’onda del fiume Humber mi lamenterei.
Vi amerei fino a dieci anni prima del diluvio,
E voi, se vi piacesse, potreste rifiutarmi
Fino alla conversione degli Ebrei.
Il mio amore vegetale avrebbe il tempo
Di crescere più grande di tutti gli imperi
E anche più lento.
Cent’anni se ne andrebbero a lodare
I vostri occhi e a contemplare il vostro volto.
Duecento per adorare uno dei vostri seni
E trentamila almeno per adorare insieme tutto il resto.
Un Evo intero per ciascuna parte, e l’ultimo
Alfine mostrerebbe il vostro cuore.
Perché senza alcun dubbio, Signora,
Questo cerimoniale voi lo meritate, e io non vorrei
Amarvi a minor prezzo.
Ma alle mie spalle odo continuamente
L’alato carro del tempo che si avvicina veloce:
W laggiù da ogni parte, davanti a noi,
Si stendono deserti di vasta eternità.
La vostra bellezza non sarà più ritrovata;
E non si potrà più udire nel vostro sepolcro di marmo
Echeggiare il mio canto: solo i vermi tenteranno
Quella verginità a lungo preservata:
E il vostro strano onore sarà mutato in cenere;
Tutta la mia lussuria trasformata in polvere.
Certo la tomba è un luogo intimo e bello
Ma dubito che qualcuno vi voglia fare all’amore.
Ora, dunque, mentre il colore della giovinezza
Si posa sulla vostra pelle come rugiada del mattino,
Ora mentre l’anima consenziente
Brucia con fiamme importune,
Ora finché possiamo godiamoci il piacere;
Subito come uccelli da preda amorosi
Divoriamo il nostro tempo,
Piuttosto che languire nelle sue lente mascelle.
Tutta la nostra energia, tutta la nostra dolcezza
Cerchiamo di addensarla in una sola sfera:
Gettiamo i nostri piaceri con rude violenza
Oltre i cancelli di ferro della vita.
Così sebbene non si possa obbligare il nostro sole
A fermarsi, possiamo tuttavia obbligarlo a correre.

Traduzione di Roberto Sanesi.

giovedì 23 ottobre 2014

"Quando l'aria dolce s'inasprisce, e giù dal ramo cade la foglia ...". Quattro poesie autunnali


Pieter Bruegel il Vecchio, Giornata buia (1565).

Uno dei quadri più belli sull'autunno. Le tinte calde in primo piano che denotano i cercatori di rami e il villaggio rendono un senso di intensa intimità domestica. Man mano che ci si allontana da tale scena, infatti, il paesaggio trascolora nei freddi toni grigi (verdi o azzurri) che colorano le vette, lo sfondo, il mare in tempesta.
Semplicemente eccezionali gli intrichi di rami stagliati contro la nuvolaglia plumbea e incombente.

Cercamon

La prima sestina d'un meraviglioso componimento del giullare guascone Cercamon (il nome, Cercamondo, se l'era dato lui stesso poiché aveva girovagato fin dove aveva potuto).
L'arrivo della stagione autunnale è metafora dell'animo del trovatore, infelice d'amore.  

Quando l'aria dolce s'inasprisce,
e giù dal ramo cade la foglia
mentre la voce mutano gli uccelli,
da qui io mando sospiri e canto
per quest'amor che m'ha legato e preso,
visto che mai io l'ebbi in potere ...

Traduzione di Giuseppe E. Sansone

Georg Trakl

Di seguito due poesie di Georg Trakl, nitide e preziose come il rintocco d'un cristallo purissimo.
Nella prima risaltano gli accostamenti cromatici prediletti da Trakl: il rosso del bosco, il giallo-oro dell'estate morente, il nero della terra e l'onnipresente azzurro, che marchia ognuna delle strofe. 
Nella seconda risaltano alcune brevi e mirabili descrizioni di paesaggio (le campane, gli uccelli migratori, il battello che scivola lungo l'azzurro del fiume) sospese nell'atmosfera crepuscolare dell'autunno, stagione dell'anima in grado di ridonare la perfezione del silenzio e della pace.

Torna l'oscuro autunno, colmo di frutti e d'abbondanza,
Splendore ingiallito di bei giorni estivi.
Un puro azzurro esce da appassita spoglia;
il volo degli uccelli echeggia antiche saghe.
Pigiata è l'uva e la dolce quiete
Colma di sommesse risposte a oscure domande.

Qua e là una croce sul colle deserto;
Nel bosco rosso si smarrisce un gregge.
Passa una nube sullo specchio d'acqua;
Calmo riposa il gesto del contadino.
L'azzurra ala della sera sfiora appena
Un tetto di paglia secca, la terra nera.

Presto s'annideranno stelle nei sopraccigli stanchi;
Alla fresca stanza qualcuno torna, quieto e schivo
E angeli escono lievi dagli occhi azzurri
Degli amanti, che soffrono più dolcemente.
Stormiscono le canne; improvviso brivido d'orrore
Quando nera la rugiada goccia dai salici spogli.

Traduzione di Ida Porena

Finisce così l’anno, con vigore,
Con vino d’oro e frutto dei giardini.
Tacciono intorno i boschi, ed è stupore.
Al solitario sono compagni.

Allora dice il contadino: è bene.
Voi campane del vespro con largo suono
Ci donate ancora lieto coraggio.
Una schiera di uccelli salutan in viaggio.

È dell’amore l’epoca dolce.
Nel battello giù lungo l’azzurro fiume
Sfilano immagini, oh, così ben accoste -
Tutto in silenzio tramonta, e in quiete perfetta.

Riadattamento da una traduzione di Annamaria Curci.

Alexander Puskin

Per finire un breve componimento del grande russo.

Non starò  a rimpiangere le rose
appassite a una lieve primavera;
mi è cara anche l'uva sui tralci
a filari maturata su un pendio.
Bellezza della mia fertile valle,
gioia d'autunno dorato,
oblungo e diafano,
come i seni di una giovane ragazza.

Traduzione di Giovanni Giudici e G. Spendel

martedì 21 ottobre 2014

E una! La prima bibliocabina di Roma è a Torresina


Ecco la bibliocabina.
Sorge in un piccolo giardino pubblico fra i giochi dei bambini, un gazebo che si può utilizzare per festicciole private, due campi di bocce, vialetti e prati meticolosamente ravviati.
La manutenzione del parco è nelle mani del Comitato di Quartiere Torresina.
Per realizzarla la bibliocabina ci son voluti tre ingredienti: una cabina telefonica dismessa dalla Telecom; dei libri (donati da numerosi abitanti del quartiere, e non solo); e una robusta dose di testardaggine, molto difficile da trovare oggi. Almeno a Roma.


Torresina sorge nell'immediato suburbio romano, oltre il quartiere XXVII, Primavalle, e la via Torrevecchia.
In pochi anni di volontariato assiduo questa zona ha subito un cambiamento inversamente proporzionale a quello della capitale: è migliorata.
Dicevamo della testardaggine; è così: gli abitanti hanno deciso, contro ogni logica del disimpegno, di contrastare il declino così come è prospettato dalla teoria delle finestre rotte - teoria secondo cui degrado richiama degrado, sempre e comunque, e il decoro si nutre di decoro.
Resistere, certo; e soprattutto insistere, insistere, insistere.


Come vedete le regole sono piuttosto semplici.


L'iniziativa della bibliocabina è parallela a quella dell'apertura di una bibliolibreria gratuita, sempre a Torresina.
La libreria si trova in un chiosco al di sotto del centro commerciale di zona. 


Sia la bibliocabina che la libreria gratuita si avvalgono della competenza "della benemerita associazione H2: nata nel 2011, essa, oltre a promuovere numerose sociali, è responsabile degli eventi ‘Libera Libri’, dove tale oggetto, urtante e misterioso, il libro apunto, viene rimesso in circolo gratuitamente (sinora la liberazione dei volumi è avvenuta in Prati, a Primavalle, alla Balduina et cetera)", oltre a quella delle associazioni ScaffALI e AlberoAndronico.
I materiali utilizzati per il leggio e gli scaffali sono riciclati.


Che dire? Un altro lampo nel buio.
Auguri a tutti i promotori.
Ad maiora!

sabato 18 ottobre 2014

La poesia della domenica - William B. Yeats, Leda e il cigno

Leonardo da Vinci,
Leda e il cigno
La poesia registra un atto di violenza, uno stupro. Zeus, trasformatosi in cigno, si accoppia con la forza a Leda. È un incontro fra umano e divino, terribile, e risolto nella sopraffazione, ma anche l’annuncio di un nuovo corso della storia umana: la nascita della civiltà greca e romana.
Dall’unione di Zeus e Leda nacquero, infatti, i gemelli Castore e Polluce, patroni delle arti, Elena e Clitennestra. Yeats sintetizza vertiginosamente la progenie fatale in due righe: ecco le mura abbattute e le fiamme che divorano Troia, a causa di Elena, e il cadavere di Agamennone, ucciso proprio al ritorno da quel conflitto - assassinio che inizierà quella catena di delitti e colpa cantata da Eschilo nell’Orestiade.
Nella concezione storica di Yeats il periodo greco-romano (2000 anni) venne soppiantato da un nuovo ciclo, quello cristiano, anch'esso segnato da una congiunzione fra eternità e temporalità: lo Spirito Santo, persona della Santissima Trinità divina, feconderà infatti, in figura di colomba stavolta, una giovane mortale di Nazareth.
Difficile penetrare concettualmente il simbolismo eclettico di Yeats; facile lasciarsi affascinare da una visione del mondo totale, onnicomprensiva - resa nei termini di una poesia altissima.

Un assalto improvviso: le grandi ali palpitanti
Sulla ragazza che barcolla, le cosce accarezzate
Dalle scure membrane, la nuca stretta nel becco,
Preme contro il suo petto un petto inerme, spossato.

Come possono, dita atterrite e incerte allontanare
Il piumato splendore dalle cosce che cedono?
E un corpo non sentire in quel bianco tumulto,
Battere un cuore estraneo, mentre giace riverso?

Un fremito nel ventre vi genera
Le mura abbattute, la torre e il tetto in fiamme,
E il cadavere d'Agamennone.

                                                Così tenuta in alto,
Così dominata dal sangue bruto dell'aria,
Assunse anche il sapere col potere di lui,
Prima che il becco indifferente la lasciasse cadere?

Da La torre, traduzione di Ariodante Marianni.

giovedì 16 ottobre 2014

Vi supplico, vi imploro, non scrivete più capolavori

G. Luca Chiovelli

Mi piace l'estate: non si legge.
Spesso si rilegge.
Da alcuni anni a questa parte rileggo un classico (uno di numero, uno vero). Quest'anno è toccato a La Gerusalemme liberata, il precedente al Don Chisciotte. Due anni fa, invece, lessi L'Orlando innamorato del simpatico Matteo Maria Boiardo da Ferrara (l'aggettivo è di Gianfranco Contini); e così via.
A parte il classico, le mie letture estive, da un lustro almeno, si sostanziano di vecchi numeri di Topolino (anni Settanta) e Tex (numeri dall'80 al 400, i migliori); sempre gli stessi. Ci sono storie di Topolino che ho letto decine di volte (qualcuna centinaia di volte). I fumetti son sempre gli stessi da trent'anni, stipati in un armadietto. Arrivo ad agosto e me li pappo. Come resistere a Zio Paperone e l'elmo del comando (1)? A Zio Paperone e il maxisombrero dei Sombreritos (2)? A Zio Paperone e l’eredità giacente (3)?
Non si può. 
Prima o poi qualcuno dovrà imbracciare la spingarda del coraggio e far tonitruare la rosa di pallini del dilemma: c'è più letteratura in Zio Paperone e l'elmo del comando o nell'opera omnia di Massimo Gramellini?
No, non va bene.
Ho sbagliato.
Zio Paperone e l'elmo del comando è incontestabilmente superiore all'opera omnia di Massimo Gramellini. Quale dilemma può esistere a tal riguardo?
Ci riprovo.
Prima o poi qualcuno dovrà imbracciare la spingarda del coraggio e far tonitruare la rosa di pallini del dilemma: c'è più letteratura in Zio Paperone e l'elmo del comando o nei due Strega di Alessandro Piperno?
Così va meglio.
Zio Paperone e l'elmo del comando. L’afflato picaresco dell'intreccio, la ricchezza dell'invenzione parodica, la brillantezza dei dialoghi, la gioia del racconto puro, la capacità di tollerare l'infinita rilettura, dote essenziale del classico.
Voi crederete che stia scherzando, ma non è così. Occorre giudicare sub specie aeternitatis, senza gli impacci di genere, di casta, di tempo, di massoneria ...
Zio Paperone e l'elmo del comando. Zio Paperone soffre di ‘cumulite unilaterale intranseunte’: gli affari lo gravano d’un peso insostenibile; solo il potere del comando, in grado di distrarlo da tali cure, potrebbe giovargli. Come fare? Le campagne elettorali costano … Grazie al professor Teleskopios viene individuato un remoto e arcadico pianetino in cerca d’un monarca. Paperone e i nipoti partono. All’arrivo i Nostri sono accolti a braccia aperte: pullulano feste e banchetti. Si svolge, quindi,  la cerimonia d’investitura: a re Paperone, a mo’ di corona, viene apposto sul cranio un misterioso elmo, inestirpabile, una sorta di marchingegno telepatico munito di braccia e mani meccaniche. Il riccastro si accinge, da subito, a frodare a proprio vantaggio il popolo alieno (l’istinto è istinto), ma ecco che l'elmo registra immediatamente le intenzioni malevole e fa scattare le mani: sul papero si abbattono sberle micidiali!

Cliccare per allargare. Zio Paperone e gli effetti dell'elmo

Paperone, impossibilitato dalla propria natura a legiferare rettamente, è oggetto di continui pestaggi; per sfuggire alla condanna dovrà ricorrere a Paperino: l'anima candida del nipote squattrinato non può che sfornare leggi disinteressate e, quindi, ottime per il popolo. Paperone si limita a firmarle salvandosi dall'uragano di schiaffi. Il connubio funziona. Il pianeta prospera ...

martedì 14 ottobre 2014

mvl Cinema: Anime nere


Anime nere (Italia 2014)
Regia: Francesco Munzi

Interpreti: Marco Leonardi, Peppino Mazzotta, Fabrizio Ferracane, Anna Ferruzzo, Giuseppe Fumo, Barbora Bobulova

Patrizia Vincenzoni
Anime nere, il film di Francesco Munzio, tratto dal libro di Gioacchino Ciriaco, ambientato ad Africo, paese stretto fra il mare e l'Aspromonte, racconta di una storia familiare e dei suoi intrecci con la malavita calabrese. Un'immersione in un territorio nel quale la geografia umana dai tratti scolpiti e dai riti arcaici si interrela con storie di ritorsioni e vendette.
La panoramica dall'alto del paese, sventrato dall'abbandono dell'uomo, con i suoi muri che si ergono solitari e sbrecciati verso il cielo, non più incorniciati dalla presenza del tetto, fotografa una desolazione che sembra perpetuarsi anche con le nuove costruzioni così impersonali ed incompiute, esempi di un'abitabilità in bilico.
Oltre ai traffici di eroina e di famiglie in odore di 'ndrangheta, il film ha un respiro ampio, di interesse più generale ed attuale rispetto a  contenuti come memoria, testimonianza e trasmissione di modelli culturali in ambito familiare e sociale. Luciano è il primo di tre fratelli, due dei quali, Giulio e Rocco, sono emigrati a Milano e vivono del traffico di droga che rifornisce i piccoli clan presenti sul territorio intorno all'Aspromonte; Rocco, come imprenditore, mantiene una vita borghese di facciata. Il figlio di Luciano, Leo, vive la sua crisi adolescenziale, è in aperto conflitto con il padre al quale non riconosce nessuna autorità legata al ruolo genitoriale, non capisce la scelta che ha fatto, così diversa da quella dei fratelli, di restare nel luogo dove è nato a presidiare la necessità  di un contatto irrinunciabile con la terra ed i suoi ritmi naturali, strenuo difensore di un modo di pensare e di vivere onestamente, rispettoso della tradizione nella sua dimensione contadina, dedita al lavoro e al rapporto di aiuto con gli altri paesani. La figura idealizzata da Leo in chiave identitaria è lo zio Luigi, del quale  vuole ricalcare personalità e gesta. E così una sera, aiutato da un amico che gli fa da palo, lo vediamo passare all'azione, colpire a colpi d'arma da fuoco una serranda di un bar rispondendo a una provocazione, reazione questa che innesca la riedizione di una vecchia faida, attivando una spirale mortifera e irrefrenabile. 
Il pantheon degli antenati di Leo, la teoria di immagini fotografiche appese nel corridoio della vecchia casa dei nonni che mostra al suo amico pastore, prima della bravata, sono il suo patrimonio e la sua tradizione familiare - tradizione di cui vuole essere, diversamente dalla scelta paterna, un testimone 'attivo', ricalcando le orme dello zio Luigi, spettatore da bambino dell'uccisione a colpi di lupara del padre, il nonno. Il modello di pacificazione e di territorializzazione identitaria che offre Luciano, invece, stride con quello offerto da Luigi, custode di una Legge che  premia gli 'uomini d'onore', forti perché si fanno strada eliminando qualsiasi ostacolo che si frappone fra sé e gli obiettivi che vogliono raggiungere. Sopraffazione e vendetta, l'avere quello che si vuole senza sforzi e mediazioni simboliche, il tutto e subito, questi gli idoli ai quali aspira Leo e attraverso i quali sfida il padre biologico, accomiatandosi da lui.  

lunedì 13 ottobre 2014

Manzoni e la chimera


Nei giorni scorsi Rizzoli ha rimandato in libreria uno dei più bei romanzi di Sebastiano Vassalli, La chimera, la cui prima edizione era uscita nel 1990 per Einaudi. Il libro aveva vinto allora lo Strega e se n'erano vendute molte copie. In seguito, come dimostra un rapido giro in rete, le vicende di Antonia, bruciata per stregoneria nel 1610, hanno accompagnato i percorsi scolastici di molti studenti italiani, forse anche per la contiguità temporale tra la storia raccontata da Vassalli e quella dei Promessi sposi. Che il rapporto con l'opera di Manzoni non sia stato secondario né casuale nell'elaborazione della Chimera, lo dice ora lo stesso scrittore nella postfazione alla nuova edizione, di cui presentiamo qui - grazie alla cortesia dell'editore - un breve stralcio: un testo sicuramente di grande interesse per i lettori di Monteverdelegge, all'interno degli itinerari di lettura proposti da Un libro un quartiere: I promessi sposi a Monteverde.

Sebastiano Vassalli
Uomo di fede ma anche uomo del Risorgimento, cioè della sua epoca, Manzoni aveva studiato a fondo i vizi e le virtù degli italiani e conosceva bene il nostro carattere nazionale. Avrebbe potuto rappresentarlo al peggio, scelse invece di rappresentarlo al meglio perché l'Italia doveva ancora nascere e si sperava che potesse nascere con il suo aspetto migliore. Perciò il Seicento, che fu un secolo a tinte violente, un secolo terribile, nel suo romanzo è corretto con molto Ottocento. Don Abbondio è un prete contemporaneo del suo autore. I preti della Controriforma, quelli veri, non avrebbero potuto concedersi le sue abitudini e i suoi tic, impegnati com'erano a ripristinare diritti e prerogative che risalivano al Medioevo e che si erano persi con il trascorrere dei secoli, e a tiranneggiare i loro parrocchiani con sanzioni per noi inimmaginabili, se non si confessavano e comunicavano almeno una volta all'anno e non seguivano i precetti della religione. Anche il cardinale Federigo Borromeo, rispetto al vero personaggio storico, nei Promessi Sposi è molto idealizzato; e anche la conclusione del romanzo, con la nascita dell'industria, è rivolta più al secolo dell'autore e alle sue prospettive di sviluppo, che all'età barocca in cui è ambientata la vicenda dei due fidanzati. Perciò io ho scelto di raccontare una storia del Seicento. Perché tornare in quel secolo dopo Manzoni significava tornarci dopo l'Unità d'Italia, dopo la Grande Guerra e il fascismo; dopo la catastrofe e il naufragio della Seconda Guerra Mondiale. Quanti Conti Zii e don Rodrighi e Innominati, quanti don Ferrante e donne Prassede e Fra Cristofori, ma anche e soprattutto quanti Renzi e quante Lucie si erano poi persi irrimediabilmente in quel naufragio!
Da Alcune considerazioni su questo romanzo dopo un quarto di secolo, postfazione a La chimera, Rizzoli 2014 © 2014 RCS Libri S.p.A., Milano

sabato 11 ottobre 2014

La poesia della domenica - Arnaut Daniel, "Io solo so che enorme affanno ha il cuore ..."

Dante Alighieri (De vulg. el. II, 6) lodò ampiamente la struttura di tale canzone (“Hunc gradum constructionis excellentissimus nominamus”).
Agli inizi del Trecento, durante la stesura del De vulgari, il fiorentino, però, ancora anteponeva ad Arnaut Daniel (in volgare: Arnaldo Daniello, nato a Riberac, in Dordogna, 1150-1210 circa) l’altro trovatore, Giraut de Bornhel, di Limoges.
Dieci anni più tardi, durante la stesura del Purgatorio, il giudizio è capovolto: nello straordinario canto XXVI, infatti, Dante, per bocca di Guido Guinizelli, dirà:

"O frate", disse, "questi ch’io ti cerno
col dito", e additò un spirto innanzi,
"fu miglior fabbro del parlar materno.

Versi d’amore e prose di romanzi
soverchiò tutti; e lascia dir li stolti
che quel di Lemosì credon ch’avanzi.

Guinizelli/Dante statuisce il nuovo primato poetico.
Le parole di risposta di Arnaut (in lingua provenzale) sono immortali:

Tan m'abellis vostre cortes deman,
qu'ieu no me puesc ni voill a vos cobrire:
jeu sui Arnaut, que plor e vau cantan;
consiros vei la passada folor,
e vei jausen la joi qu'esper, denan;
ara vos prec, per aquela valor
que vos guida al som de l'escalina,
sovenha vos a temps de ma dolor! 

(Tanto mi piace la vostra cortese domanda,
che io non mi posso né voglio nascondere a voi.
Io sono Arnaldo, che piango e canto;
pensoso vedo la passata follia,
e vedo gioioso la gioia che aspetto nel futuro.
Ora vi prego, per quel valore
che vi guida al sommo della scala,
ricordatevi a tempo del mio dolore!)

Ezra Pound considerava Arnaut il maggiore poeta di tutti i tempi.
La seguente canzone, sei stanze di sestine decasillabe, rifugge dallo sperimentalismo più arduo e dalla licenziosità del celeberrimo sirventese nato dalla disputa con il trovatore Raimon e il giullare Truc Malec.
Ci consegna, invece, un uomo per cui il valore è nella fedeltà alla propria donna, nella perseveranza e nella costanza del sentimento, nel culto della servitù d’amore – uno stato gioioso, che nulla chiede o spera, reso con un ritmo largo e disteso, definitivo.

Io solo so che enorme affanno ha il cuore,
Come soffre d’amore per il suo troppo amare.
Perché tenace e intatto è il mio volere:
Da lei non si è staccato né si è distolto mai,
La bramo come al giorno del suo primo apparire.
E assente lei trabocco di parole, poi quando
La vedo, in me fan ressa e non so cosa dire.

Vederne e udirne un’altra? No, sono cieco e sordo.
Lei solo guardo e ascolto, di lei solo m’importa;
E non uso lusinghe per piacerle, ché il cuore
La vuole più di quanto non dica la mia bocca.
Posso varcare campi valli poggi pianure,
Non troverò in un corpo tutte insieme le pure
Qualità che in lei Dio volle adunare.

Sì, sono stato in molte ricche corti,
Ma qui da lei si trova molto più da lodare:
Qui c’è misura e senno, le qualità più rare,
Bellezza, gioventù, gentili atti e diporti.
Cortesia l’ha cresciuta e istruita,
E tanto ha cancellato da sé ogni sgradita
Macchia che in lei non vedo altro che bene.

Da lei nessun piacere riterrei breve o scarso:
Ma la prego che voglia indovinarlo,
Perché da me potrà saperlo solo
Se m’esce fuori il cuore, visto che io non parlo.
Il Rodano per quanta acqua lo gonfi
Non ha un impeto tale: quando la scorgo, Amore
Fa in me più vasta piena e m’alluviona il cuore.

Gioia e diletto d’altre sono bastardi e falsi;
Non c’è alcuna che a lei possa paragonarsi,
per quanto può donare su ogni altra prevale.
Essere in sua balìa senza averla è il mio male!
Ma quest’affanno è bello, è mio riso e mia gioia,
Perché, avido e ghiotto, nel pensiero ne godo.
Dio, se potessi un giorno goderne in altro modo!

Mai mi piacque così, lo giuro, ballo o giostra
Né niente al cuore tanta gioia ha dato
Come questo diletto che maligni
Maldicenti non hanno ancora propalato,
Mio segreto tesoro. Parlo troppo e le spiace?
Perdío, bella, ch’io perda la voce e la parola
Prima di dire cosa che v’indigni!

E questa mia canzone esservi accetta vuole:
Piaccia o dispiaccia ad altri, ad Arnaut poco importa
Purché ne amiate voi le note e le parole.

Da Sirventese e canzoni, traduzione di Fernando Bandini.

mercoledì 8 ottobre 2014

Il ministro Franceschini sulle orme del Commissario Auricchio

G.Luca Chiovelli

Fracchia la Belva Umana, Italia, 1981. La vita dell'impacciato geometra Giandomenico Fracchia (Paolo Villaggio) viene sconvolta da uno straordinario imprevisto: egli, infatti, rassomiglia, come una goccia d'acqua, al sanguinario criminale noto come la Belva Umana (sempre Paolo Villaggio); a causa di tale fatalità, Fracchia è implacabilmente ricercato dai gendarmi d'ogni ordine e grado: dalla Polizia, guidata dal Commissario Auricchio (Lino Banfi) e dal suo aiutante, il dimesso e malinconico De Simone (Sandro Ghiani); dalla Digos; dai Carabinieri.
Per ben tre volte viene arrestato, croccato e interrogato, l'automobile perquisita sin all'osso, la donna dei sogni (Anna Mazzamauro) sfiancata dalle domande. Gradatamente le forze dell'ordine si convincono d'aver preso un granchio. Fracchia deve essere rilasciato. Rimane, però, il problema: come distinguere l'innocuo impiegato dal cruento mostro chiamato Belva Umana?
Fra Carabinieri, Polizia e Digos ha luogo un brainstorming risolutivo. Qualcuno propone addirittura di sbatterlo in galera e togliersi, perciò, l'equivoco dai piedi. Auricchio insorge:

Auricchio: Ma non lo vedete com'è ridotto questo povero disgrazièto. Facciamoci venire un'idea valida, piuttosto.

Fracchia [rantolante]: Si facci venire un'idea.

De Simone [timidamente]: Si potrebbe rilasciare un lasciapassare.

Auricchio: Ecco, il lasciapassare ... il mio aiutante ha detto la stronzèta giornaliera.

[La platea disapprova. Auricchio ci pensa qualche attimo, poi batte ripetutamente e sonoramente la mano sulla pelata a mo' di Eureka!]

Auricchio: Ho trovèto. Si potrebbe rilasciare un lasciapassare.

[L'uovo di Colombo. Seguono applausi, assensi e compiacimenti da parte di tutti]

Ecco la scena:


Roma, 30 set. (AdnKronos) - Il ministro dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo, Dario Franceschini, presenterà domani, alle ore 12 nell’Aula absidale di Santa Lucia in via De’ Chiari 25/A a Bologna l’iniziativa "Libriamoci", giornate di lettura nelle scuole promosse dal Mibact e dal Miur e organizzate dal Centro per il libro e la lettura.

martedì 7 ottobre 2014

Al Teatro dell'Angelo va in scena “Regina Madre". A trent'anni dal debutto torna a vivere sui palchi la favola della mamma e del suo burrascoso rapporto con il figlio

Elvira Sessa

“Viva la mamma affezionata a quella gonna un po’ lunga/ Così elegantemente anni Cinquanta (...)”, le note di Edoardo Bennato aprono il sipario del Teatro dell’Angelo di Roma (via Simone de Saint Bon n.19), con "Regina Madre", commedia ironica e grottesca in due atti, in cartellone dal 2 al 19 ottobre 2014. 
L’opera, scritta nel 1984 dal fertile drammaturgo napoletano Manlio Santanelli e messa in scena per la prima volta nel 1985, rivive ora in tutta la sua attualità, nella magistrale interpretazione di Milena Vukotic e Antonello Avallone, per la regia di Antonello Avallone, scenografia e costumi di Red Bodò.  
La commedia ruota intorno a due personaggi: una vedova settantacinquenne e malata dal nome Regina (Milena Vukotic) e suo figlio Alfredo (Antonello Avallone), giornalista alla soglia dei cinquanta anni, venuto ad assisterla. 
La scenografia classica da commedia napoletana, fatta da un tavolino, due sedie, un letto, potrebbe avvolgere lo spettatore negli odori delle pareti domestiche, nel sapore delle pietanze di “mammà”, nelle sicurezze della casa dell’infanzia.
Tutt’altro.
Sin dalle prime battute, la scena si carica di tensione: Regina (cui ben si addice il titolo di “Regina Madre” che si dà alle vedove madri del monarca regnante), prorompe in tutta la sua energica mostruosità di donna abituata a regnare nella vita del figlio, a schiacciarlo e tenerlo al guinzaglio con paure e sensi di colpa, vampira ingorda del sangue del suo sangue.
E Alfredo non è da meno. Infatti, lungi dall’essere mosso da affetto filiale, si reca dalla madre solo per realizzare uno scoop giornalistico: raccontare in un libro-verità la morte di lei. Regina non tarderà a scoprirlo e non gliela darà vinta.
Carceriera e custode del suo “sciupato” cinquantenne, mostro ed angelo della sua vita, poco alla volta, Regina ribalta i ruoli: Alfredo, che era venuto dalla madre malata, si scopre lui stesso un malato bisognoso delle cure materne. Quel ritorno alla casa materna, si svela per lui, infatti, un ritorno alle origini delle sue insicurezze, della sua difficoltà di emergere come giornalista, del naufragio del suo matrimonio. Aprire la porta della casa della mamma vuol dire per Alfredo scoperchiare un vaso di Pandora, da cui fuoriescono inquietudini e spettri che si aggirano in paesaggi solo apparentemente radiosi (gli scogli baciati dal sole e le stanze grandi e misteriose della vecchia casa di famiglia). In quei fantasmi, portati a galla dalle allucinazioni della madre, Alfredo è, in realtà, sempre il marcio, specie a confronto del padre, dipinto dalla mamma come “un eroe”, così da far dire ad Alfredo, con ironia e rassegnazione: “Sono figlio di un Dio greco, ma non ho preso da lui”. 
Eppure, quei ricordi allucinati hanno un che di magico: mentre li rivivono, le due carni di madre e figlio si scoprono sempre più fatalmente intrecciate, come i fili del golfino che Regina si ostina a tessere per Alfredo con tentacolare premura, non dandogli tregua neppure nel sonno (lo sveglia all’una di notte per verificare che il golf sia della misura giusta).
L’intreccio tra Regina e Alfredo sembra, infine, condensarsi tutto nella torta di compleanno impastata dalle mani generalesche della mamma, l’unica persona a ricordarsi dei cinquant’anni del figlio, l’unica a preparare con le sue mani il golfino per lui. Quella torta, segno beffardo di un grembo materno che non possiamo cancellare, sembra il dolce-sigillo dello scrigno di Pandora e della prigione di Alfredo, dove ormai la commedia, grazie alla sapiente regia di Antonello Avallone, ha magicamente trascinato lo spettatore.
E mentre il sipario cala e i riflettori si spengono sui due corpi di madre e figlio abbracciati sul letto, sembra di sentire ancora le note di Bennato: “Viva la mamma/ Viva la favola degli anni Cinquanta/ Così lontana eppure così moderna/ E così magica”.

Gli spettacoli hanno inizio alle ore 21.